Tolkien in Galles, tra divertimento e studio




di Roberto Arduini



«Sono tornato», direbbe Sam Gamgee vedendo Rosie Cotton davanti la loro casetta, immersa nel verde bucolico della Contea. La frase potrebbe adattarsi bene, con qualche piccola modifica, dopo la partecipazione al “Festival in the Shire”, il Festival nella Contea appunto, che in questo caso equivale al Galles. La bella regione inglese non sarebbe poi tanto diversa dalla patria degli hobbit, vista la sua distesa praticamente ininterrotta di colline verdi e lussureggianti, ruscelli dal corso poco accidentato e soprattutto quel che può essere un po' l'emblema di questo paese, i greggi di pecore che veramente si incontrano ovunque.



Il Festival

Un contesto pastorale come questo non poteva che essere la cornice perfetta per un convengo sull'opera di John Ronald Reuel Tolkien. Il “Festival in the Shire”, che ha riunito studiosi e appassionati da tutto il mondo, si è svolto a Pontrhydfendigaid, nella regione del Ceredigion dal 14 al 16 agosto. Divisa in tre aree, con rispettivi e costosi biglietti, aveva l’ambizione, in parte riuscita, di riunire tutti gli appassionati, gli artisti e gli studiosi di Tolkien. La prima edizione ha dovuto scontare un bel po’ di problemi organizzativi, che hanno fatto spostare il luogo dell’evento a circa 50 km dalla sede originaria. Ciò è andato a scapito soprattutto del pubblico generico che ha disertato l’evento. Così, si sono sviste affollate conferenze e mostre, mentre le simulazioni delle battaglie, le consuete sfilate di guerrieri e dame elfiche, alcuni concerti e tutte le attività ludiche, sono state in alcuni momenti un po’ troppo vuote. Nei giorni seguenti, molte persone in internet hanno riempito le pagine di Facebook del Festival stilando le loro classifiche personali sui vari momenti della manifestazione: pienamente soddisfatte le persone che hanno partecipato alle molte conferenze, contento chi ha potuto visitare le mostre di quadri, con la possibilità di parlare con i vari artisti, tra cui il più apprezzato è stato Rodney Matthews, illustratore storico di pubblicazioni di letteratura fantastica. Infine, è piaciuto, tra i molti concerti, quello dei Brocc, che suonava musica medievale con strumenti costruiti artigianalmente. Insoddisfatti in pratica tutti gli altri. Gli organizzatori hanno annunciato una seconda edizione del Festival, in cui molte delle lacune, come la penuria di pubblicità locale e le difficoltà logistiche, dovrebbero essere colmate.



Le Conferenze

Un punto forte del Festival sono però state le conferenze, divise tra quelle dei keynote scholars (Tom Shippey, Flieger Verlyn, John Garth, Colin Manlove, Colin Duriez e Cary Olsen) e quelle dei giovani studiosi, alternando tra momenti approfonditi e divulgativi. Alcuni studiosi hanno colto l’occasione per presentare nuovi studi e condividere intuizioni, interrogativi e idee. Ma lo spazio dedicato alle conferenze ha anche fornito ai nuovi arrivati la cornice ideale per confrontare il loro livello d’analisi. In maniera quasi esemplare, uno degli oratori più noti, alla fine della sua esposizione, ha commentato che proprio dal pubblico non specialista erano giunte le domande più interessanti e le discussioni su aspetti altrimenti poco considerati. È anche stata l’occasione per avere un’idea concreta degli studi tolkieniani attuali, delle sue tendenze e dei possibili sviluppi futuri. Da questo punto di vista, molto interessante è stata tavola rotonda finale, con tutti i maggiori studiosi presenti, di cui si parlerà tra poco.

I due responsabili del programma erano Alex Lewis e Dimitra Fimi, i due studiosi “più vicini” al Galles: il primo vive, infatti, vicino a Bristol a poche miglia dal confine, la seconda, pur essendo d’origine greca è ormai gallese d’adozione perché insegna all’università di Cardiff. Proprio loro hanno inaugurato la sessione con due interventi che un po’ hanno segnato due filoni (biografico e linguistico) seguiti poi da diversi altri studiosi, all’interno del tema generale: “l’influenza gallese nelle opere di J.R.R. Tolkien”. In The Welsh language and Tolkien’s “linguistic aesthetic” Fimi ha ben illustrato i rapporti tra la fonologia del gallese e una delle lingue elfiche, il Sindarin, che riproduce alcuni mutamenti propri del gallese nella sua struttura morfologica, sfruttandoli addirittura come espedienti narrativi, ad esempio negli incantesimi linguistici di Gandalf davanti alle porte di Moria (“Dite amici e entrate”). Il gallese (insieme al finlandese) era una delle lingue preferite da Tolkien. Allo scrittore inglese piaceva l’effetto del suono delle parole aldilà del loro significato: è quello che in molte lettere e in alcuni saggi lui stesso chiama “fono-estetismo”. In un saggio del 1955, English and Welsh, Tolkien si occupa dei rapporti tra le due lingue, ammette candidamente che «il mio College […] si meravigliò quando l’unico premio che avessi mai vinto […] lo Skeat Prize per l’inglese all’Exeter College fu speso per il gallese». Una grammatica gallese era, infatti, una ricompensa perfetta per Tolkien: come scrive in una lettera, «il fascino che i nomi gallesi, pur avendoli visti solo sui carri del carbone, hanno sempre esercitato su di me fin dalla mia infanzia».

Sulla stessa linea è stato il primo l’intervento di Tom Shippey, che in Tolkien’s Welsh library. The books of Welsh mythology that Tolkien knew and owned, si è occupato della biblioteca personale di Tolkien, in cui c’erano oltre «quaranta volumi in gallese». La sua formazione su questa lingua si svolse soprattutto negli anni a cavallo del 1920 e durante il primo insegnamento. Non è un caso che il gallese abbia fatto da modello, quasi plasmandolo, al Sindarin, lingua degli elfi di cui in quel periodo Tolkien stava narrando le leggende. Il gallese era per Tolkien il “linguaggio nativo” dell’antica Britannia, quella patria intima con cui il professore sentiva un legame viscerale, che era concentrata nelle tre contee intorno Birmingham, le West Midlands, e le due oltre il fiume Severn, al confine col Galles: in queste terre sono ambientate le prime gesta di Eriol dei Racconti Perduti. Shippey ha però evidenziato anche lo stretto legame che lo scrittore ebbe con il Mabinogion, la raccolta epica redatta in gallese antico di cui possedeva ben tre diverse edizioni, «uno dei pochi libri comprati da Tolkien dopo il 1923 su argomento gallese». Quel libro era per lui poco «coherent and consistent», ma gli suscitava al tempo stesso una doppia sensazione di perdita e sacrificio, le stesse che poi si ritrovano nel Signore degli Anelli e soprattutto nel Silmarillion. Nello studio e nella ricerca etimologica dei nomi Tolkien poteva risalire all’originaria lingua britannica, cogliendone la bellezza e l’autenticità. In questo percorso a ritroso nel tempo, lo scrittore poteva così ipotizzare l’origine celtica del mito di Re Artù e di molte altre leggende autenticamente britanniche, come la figura di Corrigan/Morrigan.

Proprio questa enigmatica figura è stata al centro di Linguistics and Lore in Wales and Middle-earth di Verlyn Flieger, insieme a molti spunti linguistici che si ricollegavano alla conferenza della Fimi. La studiosa americana ha illustrato bene quale fosse il substrato di leggende delle isole britanniche, in cui Corrigan/Morrigan probabilmente rimandava a una precedente divinità protettrice dei cavalli (legata anche alla romana Ippona). A questa figura ambigua Flieger fa risalire il fascino di Galadriel. Il Mabinogion, infatti, non è che il frutto che si aveva nel Medioevo del quel folclore gallese ormai perduto. Non l’originaria visione, ma la sua eredità, in parte filtrata dai secoli. Tolkien ne dà un esempio in The Lay of Aotroun and Itroun, in cui appare per la prima volta la figura della Lady, che ha per nome esattamente Corrigan. In essa si trova l’eco della più seducente e inquietante tra le fate gallesi, ma anche quella di Morgan Le Fay, protagonista di molte leggende celtiche e arturiane. Nel componimento poetico Tolkien illustra bene la natura apparentemente negativa della Lady per poi far prevalere il lato positivo, come farà poi con Galadriel e con altri personaggi del Signore degli Anelli: Boromir, Grampasso/Aragorn, Faramir.

Anche se il legame tra Morgan Le Fay/Corrigan e Galadriel è meno evidente, la signora degli elfi possiede molte delle loro qualità, in particolare le arti divinatorie legate all’acqua e quel senso di fiducia e il sospetto che genera nei suoi interlocutori, come è evidente nelle parole di Faramir sulla «Strega del Bosco d’oro».

Folklore gallese, leggende celtiche e cicli medievali sono stati gli argomenti degli interventi di Alex Lewis, King Arthur and Middle-earth, che presto vedrà la luce in un libro, e dell'artista Ruth Lacon, Tolkien and King Arthur, che si è concentrata sulle connessioni tra le storie dello scrittore e quella che viene chiamata la Matter of Arthur, tutte le storie legate al ciclo arturiano.

Infine John Garth, di cui anche in Italia è uscito Tolkien e la Grande Guerra per i tipi della Marietti 1820, in Robert Quilter Gilson, TCBS: A brief life in letters ha presentato quello che sarà il suo prossimo volume, una monografia su Robert Gilson, uno degli amici di Tolkien. Attraverso una scelta molto accurata di estratti dalle sue lettere, Garth ha ripercorso la vicenda umana di quel che sarebbe forse potuto divenire un illustre poeta. Tra il pubblico era presente la nipote di Gilson, che ha collaborato con il giornalista inglese per ricostruire le fasi salienti dell’amico di Tolkien: si sono così potute ascoltare le sue opinioni, a volte contrastanti da quelle dello scrittore, osservare i suoi studi ai tempi della scuola, il suo addestramento, l’esperienza al fronte, le sue speranze e le sue paure. Gilson morì nel prima grande offensiva della battaglia della Somme ed è stato commovente sentire le sue parole mentre si preparava alla battaglia, nel fango delle orribili trincee.



Tavola rotonda finale

La sessione di tre giorni si è chiusa con una tavola rotonda, cui hanno partecipato tutti gli studiosi più affermati. È stata davvero l’occasione per poter riflettere sullo stato di salute degli studi tolkieniani. Tra i moltissimi punti affrontati, se ne possono accennare alcuni tra i più interessanti. Perché studiare Tolkien ancora oggi?

«Perché le sue opere rispondono ad alcune domande che ci facciamo ancora oggi», ha risposto Verlyn Flieger. «La sua narrativa non è fantastica è iper-reale. Tratta della natura del potere, della morte, dell’uso e dell’abuso delle tecnologie».

Qual è la ricerca che ognuno degli ospiti ha nel cassetto?

«Ci sono molti scritti di Tolkien pubblicati sotto il nome di alcuni suoi allievi, come ad esempio Simone D’Ardenne», ha detto Tom Shippey. «Mi piacerebbe analizzarli. Sospetto che Tolkien abbia scritto molto di più di quel che si crede: naturalmente si tratta di testi accademici».

Colin Duriez vorrebbe continuare la strada biografica: «Vorrei approfondire lo studio dell’amicizia tra Tolkien e Lewis. Ci sarebbe bisogno di aggiornare gli scritti di John Carpenter sugli Inklings. Molti dei membri di questo gruppo letterario hanno lasciato scritti e carteggi pubblicati soltanto in questi ultimi anni».

«Tolkien andrebbe inserito nel suo contesto storico», è il desiderio di Dimitra Fimi. «Forse perché mi sono formata sullo studio dell’età vittoriana, ma mi accorgo che non ci sono studi che analizzano quel periodo. In fondo, Tolkien nacque in età tardo vittoriana, si formò in quella edoardiana e trasse molte ispirazioni da questi periodi, persino da quello precedente: pensiamo a William Morris e ai Preraffaelliti».

Come mai a distanza di così tanti anni si pubblicano ancora opere originali di Tolkien?

«Il problema è in realtà il contrario», ha spiegato Verlyn Flieger. «Da pubblicare ci sono ancora moltissimi scritti inediti che sono fondamentali: Carpenter, ad esempio, poté avere accesso ai famosi Diari di Tolkien, che rimangono ancora gelosamente custoditi negli archivi di famiglia. Sia ben chiaro che non è una critica perché i figli dello scrittore sono stati molto disponibili con gli studiosi che hanno chiesto loro il permesso di vederli».

«Purtroppo, troppo lenti», è intervenuta Fimi. «Io inviai loro la richiesta di accedere ai manoscritti nel primo anno del mio PHD e mi risposero quando ero al quarto! Ma ero solo una studentessa sconosciuta. Gli eredi riceveranno migliaia di richieste l’anno e devono vagliarle tutte».

«Ci sono molti inediti e la famiglia, pur molto disponibile, è restia a pubblicare tutto», ha spiegato Flieger. «I manoscritti sono tutti alla Bodleian Library di Oxford, ma è la Tolkien Estate che deve rilasciare il permesso per la consultazione. Ripeto, la famiglia è stata finora molto disponibile: voi permettereste che le vostre email personali, scritte a partner, parenti e amici, su qualunque argomento, fossero lette da estranei? Dobbiamo ringraziare la famiglia per quel che finora hanno reso pubblico. La History of the Middle-earth è fondamentale per capire Tolkien. Del resto, i manoscritti sono di loro proprietà e possono farne quel che vogliono», ha concluso.

Come mai, a quasi sessant’anni dalla pubblicazione, Il Signore degli Anelli non è ancora un classico studiato all’università?

Tom Shippey ha voluto rispondere: «Il problema dell’università è complesso e ancor più generale. Oggi i corsi di Letteratura sono in calo. Quando sono entrato all’università c’erano tre canali: letteratura, linguistica e lingua. Oggi c’è un solo canale, perché c’è un terzo degli studenti che segue queste materie. Il risultato è stato semplice: di quelle tre cattedre, oggi una sola è rimasta, l’altra è con contratto a progetto, l’ultima ha chiuso. Dimitra ne è l’esempio concreto, visto che ha un insegnamento temporaneo all’università di Cardiff. Quel è il motivo di questa emorragia di studenti, che è a monte di tutto questo? È la miopia dei professori, che per troppo tempo hanno imposto un loro canone, dicendo agli studenti cosa dovevano leggere per forza e cosa dovevano scartare. Tolkien, insieme a molti altri autori, rientra in questo fenomeno». Corey Olsen, professore al Washington College in Maryland, è poi intervenuto: «Qualcosa però si muove: nel College dove insegno, seppur si tratta di una piccola realtà visto che ha soltanto 1500 studenti, il mio corso è quello più frequentato: è un corso solo su Tolkien e non è nemmeno tra quelli obbligatori. Questi seguono subito dopo e si tratta di materie del calibro di Biologia e Psicologia generale!». «In effetti, lentamente, ma qualcosa sta cambiando», ha detto Fimi, «Per noi, “seconda generazione” di studiosi tolkieniani, come ci ha definito Verlyn, è molto più semplice il lavoro. Oggi, Tolkien e le sue opere sono visti con occhi diversi e un corso accademico su di lui è accettato più facilmente. Grazie alla trilogia di Peter Jackson forse, ma sicuramente grazie al lavoro serio e accademico svolto in tutti questi anni da Tom Shippey e Verlyn Flieger».