Differenti concezioni del male ne Il Signore degli Anelli?1

di Thomas Fornet-Ponse



ABSTRACT

La concezione di male ne Il Signore degli Anelli è un tema ampiamente dibattuto. Mentre il Prof. Shippey afferma che vi siano due contrapposte visioni del male (una che tende alla visione dualistica e l'altra verso una visione agostiniana), altri critici sostengono che vi sia soltanto un retroterra agostiniano nella visione del male presente ne Il Signore degli Anelli. Più recentemente, Houghton and Keesee argomentano che Tolkien adotti una coerente teoria agostiniana del male e affermano che questa è una linea consapevolmente paradossale. Questa loro interpretazione è insoddisfacente perché presenta limiti filosofici e teologici. Perciò voglio presentare una visione del male che eviti questi limiti e che sia adatta per spiegare la concezione del male ne Il Signore degli Anelli.





L'AUTORE

Thomas Fornet-Ponse, studente di Teologia Cattolica, filosofia e storia a Bonn (Germania) e a Gerusalemme, Sezione di Teologia Fondamentale. Membro del Comitato della Tolkien Society della Germania, responsabile del Tolkien Seminar e redattore capo del Journal of the German Tolkien Society (Hither Shore – Interdisciplinary Journal of Modern Fantasy Literature). Ha pubblicato vari articoli su Tolkien e Pratchett, principalmente di carattere teologico



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Unde malum? – una delle questione più antiche dell'umanità, una questione a cui vi sono molte risposte – religiose e filosofiche. Non sorprende che gli avvenimenti, gli effetti e le origini del male nel Legendarium di Tolkien siano anche ampiamente discussi. Mentre da Il Silmarillion (e in History of Middle-earth) risulta evidente che la mitologia di Tolkien non proponga un dualismo tra due principi primordiali, uno cattivo e una buono; il male ha la sua origine nella libertà di Melkor che si ribellò contro il volere di Ilúvatar, il solo ed unico Dio; ne Il Signore degli Anelli questo non sembra essere così chiaro.

Per esempio, il prof. Shippey spiega in J.R.R. Tolkien Autore del Secolo2 ed anche in La Via per la Terra-di-Mezzo3 la sua idea che vi sono ne Il Signore degli Anelli due opposte concezioni di male – una tendente al Dualismo manicheo e l'altra alla visione boeziana. Molti altri critici individuano somiglianze tra la visione del male ne Il Signore degli Anelli e le visioni agostiniana e boeziana, tra di essi, recentemente, Houghton and Keesee. Altri critici indicano uno sfondo neo-platonico nel lavoro di Tolkien (cf. Hutton and Rose).

Sebbene si possano individuare interessanti parallelismi tra il lavoro di Tolkien da una parte, e il male agostiniano, boeziano e neo-platonico dall'altra, al di là delle carenze filosofiche di queste ultime posizioni, non sono del tutto soddisfatto delle argomentazioni a sostegno di quei parallelismi. In quanto teologo sistematico, sono interessato a valutare la fondatezza delle concezioni filosofiche e teologiche nel lavoro di Tolkien, mettendole a confronto con la filosofia e la teologia contemporanee. Houghton and Keesee contraddicono in modo convincente la visione di Shippey, offrendo un'illuminante e completa analisi della visione platonica del male ne Il Signore degli Anelli e affermano: “Radicato fortemente nella tradizione neo-platonica, Tolkien ne IsdA percepisce la vera natura del male: nulla, e tuttavia potente” (151), ma io non condivido per nulla il loro pensiero perché a mio parere è necessario andare oltre il neo-platonismo, Agostino e Boezio per percepire la natura del male nella filosofia e teologia attuali. Quindi,basandomi sui miei studi su questo soggetto voglio mostrare che una concezione contemporanea del male è in grado di spiegare la concezione di male che emerge da Il Signore degli Anelli senza presupporre che vi siano due visioni contraddittorie del male (come fa Shippey) e inoltre evitare le debolezze filosofico-teologiche di Agostino.

In primo luogo vado a ricapitolare la visione di Shippey, poi darò una occhiata più da vicino alle idee agostiniane (e boeziane), quindi spiegherò le linee principali della mia proposta sul problema del male basata sula visione di Klaus Hemmerle ed infine mostrare la validità dell'ultima impostazione e correlarla alla concezione del male applicata a Il Signore degli Anelli.



Due concezioni del male ne Il Signore degli Anelli



Secondo Shippey, è “una maniera efficace per comprendere Il Signore degli Anelli in tutta la sua complessità è […] vederlo come un tentativo di riconciliare due visioni del male, entrambe antiche, entrambe autorevoli, entrambe viventi, ma l'una apparentemente contraddetta dall'altra” (La via per la Terra di Mezzo, 207). La prima è ortodossa cristiana, esposta da sant'Agostino, espressa da Boezio (un senatore romano e filosofo che fu torturato a morte nel 524/5 d. C.) e dall'insegnamento ufficiale della teologia cattolica e protestante. Shippey caratterizza questa visione in questo modo: “il male non esiste. Ciò che le persone identificano come male è solo assenza di bene. Inoltre la gente nella sua ignoranza spesso identifica il male con cose cattive (come essere condannato a morte) che sono in realtà e a lungo termine o nel piano divino a loro vantaggio”. (Autore del Secolo, p. 228). Corollari di questa visione sono che il male non può creare, che non è creato come male ma sorse dal Libero Arbitrio, ed esso non durerà per sempre, ma sarà annullato, portato al bene al compimento del piano divino (cf. Fornet-Ponse, Verständnis). Queste visioni sono fortemente presenti non solo ne Il Silmarillion ma anche ne Il Signore degli Anelli; per esempio, Frodo asserisce che “ L'Ombra che li allevò sa solo disfare, non sa fare, creare cose nuove da sola. Non credo che abbia generato gli Orchetti; non fece che rovinarli e depravarli”4. Elrond afferma: Nulla infatti è malvagio sin da principio; neppure Sauron lo era”5. Shippey si riferisce alle spiegazioni di C. S. Lewis in Mere Christianity per indicare l'evidenza della visione boeziana (cf. Autore del Secolo, p. 163). Lewis dice che c'è una fondamentale differenza tra agire bene ed agire male:

puoi essere buono per il puro motivo della bontà; ma non puoi essere cattivo per il puro motivo della cattiveria […] In altre parole la cattiveria non può aver successo nel male nello stesso modo in cui può avere successo la bontà nel bene. Il bene è, per così dire, se stesso; il male solo bontà guastata. E ci deve essere qualcosa di buono prima che venga guastata. (Lewis 44)

Shippey usa il dialogo di Gorbag e Shagrat in Le Due Torri per mostrare come Tolkien prova a rendere l'argomento di Lewis più realistico. È importante che Gorbag disapprovi l'abbandono di un compagno: “Comunque, non mi sembra che il grosso guerriero dalla spada tagliente gli attribuisse molto valore... Lasciarlo lì per terra: tipico degli Elfi”6. All'opposto, Shagrat domanda a Gorbag di ricordare Ufthak: “L'avevamo perso di vista da parecchi giorni. Poi lo trovammo in un angolo; penzolava dal soffitto, ma era sveglio e furente. Che risate! Forse Lei l'aveva dimenticato, ma ci guardammo bene dal toccarlo...: non è il caso di impicciarsi dei Suoi affari”7. Gli orchi non hanno una legge morale diversa dalla nostra, ma essa non sembra aver effetto sul loro comportamento concreto. “Gli Orchi […] in modo abbastanza chiaro e di proposito drammatizzano quella che ho chiamato concezione Boeziana: male come assenza, come ombra, del bene” (Autore del Secolo 166). Inoltre, la descrizione degli Spettri dell'Anello “sono proprio come nebbia o fumo, materiali fino al punto di diventare pericolosi e soffocanti, ma anche incorporei” (Autore del Secolo 158) o l'uso della parola 'ombra' conferma la visione che il male è un'assenza e non ha una propria consistenza autonoma (cf. Shippey, T.A., “Orcs, Wraiths, Wights: Tolkien’s Images of Evil”, in Clark e Timmons (a cura di), pp. 181-196). Shippey dunque presenta gli spettri come un'immagine di “una intera nuova specie di male [che] è venuta nel mondo, che ha la sua origine nella perversione o corruzione del bene, ma è addirittura ancora più insidiosa, famigliare, e spaventosa, nono solo per le menti accademiche” (cf. “Orcs, Wraiths, Wights: Tolkien’s Images of Evil” 189).

Tuttavia, secondo Shippey, Tolkien usa anche una tradizione alternativa a quella boeziana che vede il male come qualcosa di reale, non solo come un'assenza, e tende verso una visione dualistica come il manicheismo, che afferma che l'universo è un campo di battaglia, e bene e male sono equivalenti. In questa visione 'eroica' il male è qualcosa di esteriore a cui resistere ed evita “il punto debole della posizione boeziana: se si considera il male come qualcosa di interno, che deve essere oggetto di compassione, e che fa più ,male al malfattore che alla vittima, si è probabilmente coerenti dal punto di vista filosofico, ma si rischia di esporre gli altri a sacrifici ai quali non sono consenzienti” (La via per la Terra di Mezzo 209). Durante la II Guerra Mondiale, una posizione del genere si sarebbe tramutata in omicidi di massa della popolazione civile, perciò Shippey pensa che Tolkien non sarebbe stato d'accordo con l'impostazione boeziana. Shippey rimanda a C. S. Lewis, che esprime in Mere christianity la sua simpatia per il dualismo (“Personalmente penso che con il cristianesimo, il dualismo sia il più virtuoso ed assennato credo sul mercato” [Lewis 42]), ma ritiene che Tolkien sia certamente meno tollerante verso il dualismo rispetto a Lewis.

Ciononostante, la sua educazione, la sua fede, e le circostanze del suo tempo, contribuirono a determinare in lui quella che sembrava essere una profonda contraddizione tre le opinioni Boeziana e Manicheista, tra autorità ed esperienza, tra male come assenza (‘l’ombra’) e male come forza (‘l’Oscuro Potere’) (Autore del secolo, 167).

Secondo Shippey, l'Anello è il modo in cui Tolkien presenta questo dualismo filosofico. L'Anello sembra inconsistente, cioè, è elastico e non interamente passivo, ma rimane un oggetto che non può evitare la propria distruzione. Può agire solo attraverso il tramite del suo possessore, specialmente i punti deboli dei loro caratteri. “Queste due possibili visioni del'Anello, creatura senziente o amplificatore psichico, sono sostenute per tutti e tre i volumi:”. (La via per la Terra di Mezzo 210).

Questo dualismo corrisponde al dualismo delle concezioni del male (quella 'eroica' e quella boeziana) ed è presente dall'inizio, quando Frodo scioglie l'Anello dalla sua catena ed esso si presenta “terribilmente pesante, come se rifiutasse di essere toccato da Gandalf o come se Frodo stesso fosse riluttante a darlo”8.

Secondo Shippey, la differenza tra le due spiegazioni è la differenza tra le due visioni del male. In un'analisi delle sei volte in cui Frodo usa l'Anello, Shippey trova conferme al suo punto di vista. Mentre la prima volta nella casa di Tom Bombadil non sembra contare, si può vedere chiaramente al Puledro Impennato, perché Frodo sente il desiderio di mettere l'Anello in seguito ad un suggerimento proveniente dall'esterno e non è chiaro se Frodo si sia messo l'Anello senza volere o se l'Anello gli abbia giocato un brutto scherzo.

Su Colle Vento, la visione manichea è più evidente perché Frodo ricorda tutti gli avvertimenti, ma “ qualcosa sembrava istigarlo, con una potenza quasi irresistibile, a trascurare tutti gli avvertimenti”9. Mentre in Tumulilande Frodo riesce a allontanare il pensiero di usare l'Anello per scappare, qui non ha speranza di fuga. “Si ha l’impressione che qui Frodo sia stato sopraffatto da una forza superiore” (Autore del Secolo 169), ma si dice che Frodo viene tentato.

Quando Frodo ha al dito l'Anello su Amon Hen, l'Occhio di Sauron si accorge di lui:



Tosto l'avrebbe inchiodato, lì, nel punto preciso ove egli si trovava. Lo sguardo di Mordor sfiorò Amon Lhaw, toccò Tol Brandir... Frodo si buttò giù dal seggio, raggomitolandosi, coprendosi il capo col cappuccio grigio.
Udì la propria voce gridare: Mai, mai! O era invece: Vengo, vengo davvero! Non riuscì a distinguere. Poi, come un lampo proveniente da qualche altra potenza in gioco, alla sua mente balenò una frase: Toglilo! Toglilo! Idiota, toglilo! Togliti l'Anello!
I due poteri lottarono in lui. Per un attimo, in bilico tra le loro punte acuminate, egli si contorse torturato. Improvvisamente fu di nuovo conscio di sé. Era Frodo, non più la Voce, né l'Occhio: libero di scegliere, nell'ultimo istante di cui disponesse. Si sfilò dal dito l'Anello.10

Shippey afferma: “Ad un prima lettura questa è una scena particolarmente misteriosa” (Autore del Secolo 169) che si può chiarire supponendo che la terza voce appartenga a Gandalf. Riferendosi alle altre due voci Shippey si domanda se sia un lotta interiore nell'anima di Frodo o una proiezione della voce del Nemico e conclude: “Entrambi i punti di vista sono possibili ed entrambi sono suggeriti: Il Male può quindi essere una tentazione interna o un potere esterno”. (La via per la Terra di Mezzo 211).

Avvicinandosi a Mordor, le immagini manichee dell'Anello diventano più forti come si può vedere bene sulle Scale di Cirith Ungol. Lì, Frodo sente un potere dall'esterno che muove la sua mano verso l'Anello, ma Frodo può trattenere la sua mano perché questa volta: “Non vi era in lui alcuna risposta a quell'ordine impellente”11.

Su Monte Fato, il potere esterno è ancora troppo forte; Frodo ha bisogno dell'aiuto di Sam per non toccare l'Anello. Questa non è una forza fisica perché Sam tiene la mano di Frodo senza alcuno sforzo e non sente il peso dell'Anello che invece è un pesante carico per Frodo. La scelta delle parole che usa Frodo a Sammath Naur (“non scelgo di fare ciò per cui sono venuto”12) è forse “fatta con grande cura. Frodo non sceglie; la scelta è fatta per lui” (Autore del Secolo 171). Poiché nel cuore del reame di Sauron “ogni altro potere veniva qui sopraffatto”13. D'altra parte, Frodo esprime la sua responsabilità: “Non compirò quest'atto. L'Anello è mio!”14. Sembra che le questioni poste da Shippey non possano avere risposta: “È colpevole Frodo? Ha ceduto alla tentazione? O è stato semplicemente soverchiato dal male?” (Autore del Secolo 172, ma cf. Lettere n. 246). Shippey ora cita la sesta e la settima domanda del Padre Nostro (“Non ci indurre in tentazione. Ma liberaci dal male”) e pensa che queste parole abbiano intenzioni complementari, “la prima che chiede a Dio di tenerci al sicuro dalle tentazioni (la sorgente delle colpe nella concezione Boeziana), la seconda che chiede protezione dall’esterno (la sorgente del male in un universo Manicheo)?” (Autore del Secolo 172). In questo caso, secondo Shippey, l'ambigua visione del male in Tolkien “esprime una verità sulla natura dell’universo negata dal filosofo Boezio”(Autore del Secolo 172).

Shippey quindi cita da una lettera non pubblicata in cui Tolkien richiama le ultime tre domande del Padre Nostro e spiega “che la scena di Sammath Naur intendeva essere appunto un ‘esempio di 'Fiaba' ” (Autore del Secolo 172). Shippey evidenzia che a suoi occhi una delle forze più grandi del lavoro di Tolkien sta nel fatto che non si può dire con certezza se il pericolo dell'Anello venga dall'esterno o dall'interno.

Inoltre, “E, naturalmente, le cose sarebbero state più facili per i personaggi de Il Signore degli Anelli se questa incertezza sulla natura del male fosse stata tolta.” (Autore del Secolo 173). L'Anello sarebbe un semplice amplificatore psichico se il male non fosse altro che l'assenza di bene. Se esso fosse solo un potere esterno non potrebbe influenzare le menti e i cuori dei buoni, e il Portatore dell'Anello avrebbe dovuto solo combattere i suoi nemici.

Questa visione di Shippey non è per nulla condivisa tra gli studiosi: a parte Houghton e Knesee, per esempio Davidson, Gunton, Kilby, Spivack e Zimbardo preferiscono attribuire all'opera di Tolkien la visione agostiniana del male come privatio boni. Non riscontrano alcun essenziale dualismo in Tolkien, sebbene Kilby scriva di “due mondi […] uno tutt'altro che angelico, ma l'altro infernale” (107), che lui caratterizza come un ovvio annuncio cristiano, ma egli cita le descrizioni dei 'wraiths' come una prova della inconsistenza del male e sostiene che il male “appare chiaramente nelle persone che un tempo erano buone e quindi conoscono la via del ritorno a casa” (114). Sottolinea il fatto che il male è spesso rappresentato dall'oscurità e il bene dalla luce come “simboli dominanti di questi due mondi” (107). Spivack afferma “che lui [Tolkien] è uno scrittore filosofico con un sofisticato approccio alla metafisica” (23). Dal momento che è uno scrittore, dobbiamo analizzare le immagini da lui usate per capire la sua “teoria del bene e del male” (23). L'analisi di Spivack su Sauron o sugli Spettri dell'Anello assomiglia a quella di Shippey: spiega la visione agostiniana e si riferisce a Boezio ma afferma che “ha ricevuto il commento più completo nella Summa di Tommaso d'Aquino” (25) e nell'affermazione malum est non ens. Gunton sostiene: “Il Male è la corruzione del bene, mostruosa nel suo potere ma essenzialmente parassitica” (133) e pensa che Shipey fa “l'errore di tracciare in modo troppo categorico la distinzione male tra 'interno' e male 'oggettivo'” (14). Davidson si riferisce esplicitamente ad Agostino: “ Così Agostino e Tolkien sono d'accordo sul fatto che nulla è completamente e interamente male, perché una cosa come il male non può neppure esistere, dal momento che l'esistenza in sé è buona. Ed entrambi credono che mentre il bene è primario ed indipendente, il male è secondario e dipendente dal bene” (103).

È interessante come Birzer pensi che Tolkien non esplori il male in grande profondità, ma ritenga che appaia in entrambi i suoi possibili modi di manifestazione, diretta ed indiretta (Birzer 91). Tuttavia, non ricorre né ad Agostino, né a Boezio. Nella sua tesi di Dottorato, Ricardo Irigaray afferma che nei lavori di Tolkien non vi sia un male ontologico (sostanziale), perché ha mostrato, trattando della creazione, che non vi esiste il male in sé, ma vi si trova la corruzione di un essere creato buono che è la privazione del bene (cf. 71f). Dunque, egli analizza il male come Colpa in Melkor e Sauron e il male morale nell''umano' con enfasi sullo spirito possessivo di Fëanor, Thingol e Turgon (cf. 113-119). Nella mia personale analisi della concezione del male in Tolkien, condivido in gran parte questa posizione e cerco di mostrare come sia presente negli scritti di Tolkien la visione del male come entità priva di sostanza e i corollari che da questa idea discendono.



Uno sguardo più ravvicinato alle visioni agostiniana (e boeziana) del male

A prima vista, le argomentazioni di Shippey sembrano essere convincenti. Tuttavia, non sono sicuro che si basino su fondamenta solide perché mi sembra che la presentazione del male di Shippey come assenza di Bene non sia del tutto corretta. Per esempio, sembra che il suo uso del termine 'sostanza' differisca da quello filosofico e teologico tradizionale, perché lo impiega nel senso di 'materiale', cioè:

questo qualcosa è fluido (ma non senza sostanza) come la neve o la nebbia o il fumo. […] Per quanto concerne la questione materiale o immateriale, il Signore dei Nazgûl è in qualche modo privo di sostanza, poiché quando getta indietro il suo copricapo, sotto di esso non c’è nulla” (Autore del Secolo 158).
Gli Spettri quindi non sono esattamente 'immateriali', qualcosa che viene definito dalla loro forma (una torsione, una spira, un anello) più che dalla loro sostanza […]. E dal momento che sono ambigui in rapporto alla sostanza, se ne vedi uno, non puoi essere sicuro (secondo l'OED) se è vivo o morto (“Orcs, Wraiths, Wights” 190)

Ma si tratta di un uso di 'sostanza' molto moderno e va evitato in ogni modo se vogliamo parlare di filosofia antica. In essa, 'sostanza' come vocabolo della filosofia aristotelica (traduzione sia di ousia che di hypostasis) è un termine ontologico e significa avere un essere essenziale (esse) in contrasto con gli 'accidens' che è solo attraverso e nella sostanza. Cioè, il colore o la dimensione di una cosa sono accidens perché il loro essere dipende dall'essere della sostanza che ha quel colore o quella dimensione. Inoltre, la “sostanza” può essere la natura o l'essenza come principio formale di un ente esistente in concreto. La caratterizzazione di una cosa come priva di sostanza non significa che essa non conti, ma significa che essa non ha vera esistenza (esse) in sé. A maggior ragione, dovrei ricordare che il termine privazione (in greco steresis) è anch'esso usato da Aristotele nel contesto della materia e dalla forma , e significa privazione della forma di ciò che verrà all'esistenza. Cioè, prima che un tavolo sia prodotto dalla materia, viene privato della forma del tavolo.

Houghton e Keesee sono in disaccordo con la convinzione di Shippey che Tolkien potrebbe aver trovato la visione dualistica del male nella traduzione di Boezio fatta da Re Alfredo, perché – secondo Shippey – Re Alfredo aveva affrontato la brutalità degli invasori vichinghi e quindi aveva una visone del male differente da quella “agostiniana” , come di qualcosa a cui si deve resistere (cf. La via per la Terra di Mezzo 209, Autore del Secolo 166): “Alfred poteva avere una comprensione meno profonda di come il 'male sia nulla' rispetto a Boezio, ma entrambi sarebbero stati d'accordo sul confronto giornaliero con il male ; e questa concordanza tra i due rende strana e sbagliata la affermazione di Shippey.” (Houghton/Keesee 138).

Il principale protagonista della visione del male come senza-sostanza è Agostino il cui impatto sulla filosofia e sulla teologia è molto più importante del contribuito di Boezio; fu probabilmente il più influente Padre della Chiesa. Almeno nella filosofica continentale, è Agostino che viene citato come difensore di questa visione contro i manichei, e Boezio talvolta non è neppure nominato nei trattati filosofici o teologici sul male (cf. Häring or Historisches Wörterbuch der Philosophie). Basandosi su Plotino, Agostino, che, da giovane fu manicheo per nove anni, prova a superare il dualismo manicheo tra bene e male, che conduce ad una radicale differenza tra 'Essere' (Sein) e 'Nulla' (Nichts) (cf. Bonner 193-236). Houghton e Keesee tracciano una linea di continuità tra la concezione del male di Agostino e Boezio e quella di Platone nel dialogo Gorgia, mostrando come l'argomento di Agostino sia basato sul neo-platonismo (134f). Sfortunatamente, non spiegano la maggiore differenza tra neo-platonismo e dottrina cristiana. Agostino rifiuta le spiegazioni del manicheismo sul male come sostanza perché confliggono con la natura di Dio, poiché Dio è incorruttibile. Inoltre l'assunzione manichea dei due Regni è inconsistente perché il Regno delle Tenebre non può essere malvagio in sé dal momento che in esso vi sono caratteristiche che non sono affatto cattive. Il Male

non può essere sostanza, come credono i manichei, dal momento che una sostanza è o incorruttibile o corruttibile. Se è incorruttibile, allora la questione del male non sorge; se, al contrario è corruttibile e diventa corrotta, è chiaro che non era originariamente bene. Il Male, allora, non è una sostanza, ma piuttosto qualcosa che non è una sostanza, una mancanza, una privazione. Questo ci dà l'indizio alla vera definizione di Male. Il Male non è sostanza; non è assolutamente qualcosa. È, letteralmente, nulla. Il male è semplicemente privazione di bene” (Bonner 200).

Agostino deve la scoperta che il male è privazione ai neo-platonici, ma vi è grande differenza tra neo-platonismo e pensiero cristiano, a motivo della dottrina cristiana della creazione dal nulla. Inoltre, Plotino identifica il male con la materia e quindi insegna la necessità del male, idea totalmente aliena alla dottrina cristiana, espressa in Genesi 1, che Dio ha creato l'intero mondo e ciò era molto buono. “Le cose create sono buone; ci può essere una gerarchia delle cose create, in qualche modo più o meno buone, senza necessariamente coinvolgere qualsiasi esistenza del male. Il Male sorge dalla corruzione di una natura che è essenzialmente buona” (Bonner 204). Ancora, una cosa corrotta rimane buona fintanto che rimane una cosa naturale. Signora Filosofia, che in De consolatione philosphiae agisce come una persona ed istruisce Boezio, combina elementi da Gorgia (cf. iv. 2) ed Agostino. Ella afferma che “il Male non è nulla, dal momento che Dio non può farlo, e non c'è nulla che Dio non possa fare” (iii, 12,29, citato da Chadwick 239). “Infine, ella argomenta che se si è entrambi d'accordo (1) che Dio è onnipotente e (2) che Dio non può fare il male, allora la conclusione deve essere (3) che il male è nulla, dal momento che Dio che può fare ogni cosa , non fa questo (righe 80-82)”(Houghton/Keesee 135). Questo è un chiaro riferimento ad Agostino (Conf. Vii, 12, 18) ed una differenza con gli autori (in altro modo importanti) Plotino o Proclo, per i quali il male ha qualche esistenza relativa. L'argomento “si basa sull'affermazione di una perfetta autosufficienza di Dio” (Chadwick 239). Inoltre, Signora Filosofia nega che coloro che sono cattivi cessino di esistere e quindi possano fare qualcosa (cf. vi, 2, 99-121). Tutto ciò sembra abbastanza sorprendente, ma è la logica conclusione della visione che il male è inconsistente (senza sostanza): “Se, come abbiamo concluso ora, il male è nulla, dal momento che essi fanno solo il male, è ovvio che i malvagi non facciano nulla” (iv, 2, 118-121). Houghton e Keesee notano il paradosso di quest'affermazione: “Il nucleo di quel paradosso è che le persone cattive, in senso generale, esistono: possono essere incontrate nel mondo e possono, per esempio essere chiuse in prigione” (136). Evidenziano che la non esistenza del male non significa la pura interiorità del male o che ai malfattori non si debba resistere perché sono da commiserare (cf. 136). Inoltre, la teoria della privazione del bene non significa che il male non esista, ma “ha a che fare con qualcosa che è chiaramente riconosciuto essere una parte reale della vita umana e dell'esperienza. Assimilare la teorie del male come privazione alla negazione della realtà del male è confondere la teoria di cos'è il male con la negazione che esso esista” (Kane 44).

Possiamo riconoscere la visione platonica di una gerarchia delle cose e la visione che l'Essere in sé è buono e tutto ciò che esiste partecipa del vero Essere e della sua Bontà ed è perciò bene. La misura di tutte le cose è il Bene assoluto e tutto ciò che è, è buono. Un'entità che è in sé, e che fuori di se stessa appartiene all'Essere e per via della sua sostanziale definizione non può contenere qualcosa di malvagio. 'Essere' nella filosofia antica significa solo il vero Essere e male (malum) e Non-Essere. È importante ricordare lo sfondo idealistico di visioni quali quelle di Agostino e Boezio per evitare fraintendimenti come se 'Non-Essere' fosse un termine materialistico.

Mentre Agostino e Boezio sono in quasi totale consonanza nelle loro visioni del male, una differenza può essere vista nel fatto che, secondo Boezio, il “male senza sostanza può essere dimostrato con il puro intelletto” (Chadwick 240). Chadwick ritiene che gran parte degli argomenti di Boezio “dipendano dal Gorgia di Platone” (Chadwick 240) e un'esegesi di questo dialogo è l'apice delle argomentazioni di Boezio concernenti il problema morale del male.

Un critico potrebbe ribattere – similmente a Shippey - “che il Male, come lo sperimentiamo nel mondo, è qualcosa di sgradevolmente positivo. […] In effetti, la situazione del mondo sembra proprio suggerire una forza positiva del Male” (Bonner 205). Similmente a Boezio (cf. iv), Agostino fa riferimento ad “una visione a lungo termine” che deriva dal suo senso di armonia nell'ordine delle cose create. Il nostro dispiacere per un dettaglio può essere una conseguenza della nostra incapacità di vedere il disegno nel suo complesso. “Boezio sta dicendo infatti che molti dei mali che causano danni sono inevitabili perché il mondo in cui viviamo, un mondo di incompatibilità, di limitazioni ed imperfezioni naturali, non può essere quello che è senza di essi” (Chadwick 241). Nella sezione di prova iv,6 Filosofia “Boezio insegna che tutte le sorti sono benefiche” (Chadwick 244, citato anche da Shippey).

Questa visione è filosoficamente per certi versi insoddisfacente e uno dei problemi principali di questa argomentazione è menzionato da Shippey nella discussione sulla visione boeziana; potrebbe spingere a non resistere al male e quindi esporre molti altri alla sofferenza. Si potrebbero citare anche I Fratelli Karamazov di Dostojevski, ove Ivan non accetterà la sofferenza di un singolo bambino, se questo fosse necessario per il Regno di Dio (cf. Verweyen 204f). Sfortunatamente Houghton e Keesee non si occupano di questo problema all'interno delle visioni agostiniana e boeziana.

Tuttavia, Agostino procede oltre e afferma che la causa del male è il peccato e l'uomo è responsabile per il peccato. Il peccato non era dovuto al possesso del Libero Arbitrio, che in sé è buono, ma “al traviamento di questo bene intermedio” (Bonner 209). Il fatto che la spiegazione di Agostino sull'origine del male abbia a che vedere esclusivamente con l'uomo può essere una conseguenza delle circostanze da cui è nato il suo scritto, essendo esso diretto contro la visione manichea del male come essere positivo e volendo Agostino discolpare Dio da qualsiasi accusa di male e sostenere, appunto, la responsabilità esclusiva dell'uomo.

Houghton e Keesee affermano che la tradizione neo-platonica

ci insegnerebbe a vedere il male sinotticamente, se guardando ad esso paradossalmente si considera nello stesso tempo che il male è 'nulla' (e quindi da compatire) ma è anche 'qualcosa' (a cui resistere). Una tale omogenea visione tiene conto di molti elementi del SdA più efficacemente di quanto non faccia il vedere quegli elementi come ambiguamente illustrativi di due contraddittorie visioni del male (138)

A parte le carenze filosofiche di Agostino e dei neo-platonici che citerò in seguito, sono in grado di sostenere questa asserzione. I riferimenti ad Agostino di Houghton e Keesee ed all'Aquinate per spiegare il collegamento delle ultime domande del Padre Nostro con Frodo a Sammath Naur è anch'esso convincente: “Questi dottori non vedono la tentazione come interiorizzata, perché nella loro comprensione la tentazione può venire da Dio o da Satana: se il conflitto interiore fosse tutto ciò che conta, non ci sarebbe nessuna utilità nell'insistere sulla distinzione tra gli elementi esterni”. In questo modo la forza attiva del male può travolgere la persona senza aver bisogno di un appoggio interno, se Dio non aiuta questa persona. La domanda “non indurci in tentazione” quindi non significa solo che Dio non ci tenti, ma piuttosto che egli non ci permetta di incontrare tentazioni irresistibili o che che egli non ci debba abbandonare alla tentazione. Mentre non possiamo sapere quante tentazioni dobbiamo aspettarci di affrontare, Dio sa e può essere implorato per agire su questa conoscenza. Houghton e Keesee interpretano la seconda di queste petizioni con Agostino e Tommaso d'Aquino, non come “una richiesta di essere protetti da qualcosa che potrebbe accaderci nel futuro” (149), ma piuttosto come “dichiarazione per essere liberati (“libera nos”) dal male in cui gli esseri umani già si trovano, come conseguenza di un peccato precedente” (149). A mio parere, non vi è veramente un contrasto “tra il non abbandonarci di Dio alle forze del male nel futuro e il suo liberarci ora dal risultato del passato” (Houghton/Keesee 149), ma piuttosto due aspetti complementari dell'unica grazia di Dio, della giustificazione del peccatore (cf. Menke 213f). Liberando il peccatore dai risultati del passato, Dio lo abilita a resistere a future tentazioni e quindi il non abbandonarci di Dio nel futuro è una conseguenza della giustificazione che libera dai risultati del passato (cf. il decreto sul Peccato Originale del Concilio di Trento, Denzingeer 1515)15.

Houghton e Keesee citano un abbozzo di lettera di Tolkien del 1956 in cui collega con Cor 9,12-13, queste domande del Padre Nostro e la scena di Sammath Naur: “Va ammesso un fatto: le creature incarnate, alla fine, non possono resistere al potere del Male nel mondo, sebbene siano 'buone', e lo Scrittore della Storia non è uno di noi” (Letters 252). A Sammath Naur, Frodo si trova nella posizione descritta da Agostino e dall'Aquinate: “tentato al punto di abbandonare ogni resistenza, e circondato dalla presenza stessa del male” (Houghton /Keesee 150). Vorrei aggiungere una citazione di un abbozzo di lettera del settembre 1963 che può appoggiare questo punto di vista e fa un accenno al modo in cui Tolkien comprendeva la grazia. Tolkien vi scrive una nota a margine: “A Frodo fu data la 'grazia': prima di rispondere alla chiamata (alla fine del Concilio di Elrond) dopo lunga resistenza ad una completa resa; e più tardi, nella sua resistenza alla tentazione dell'Anello (in certi casi, quando rivendicarlo, e così rivelarlo, sarebbe stato fatale), e nella sua resistenza a paura e sofferenza. Ma la grazia non è infinita, e generalmente sembra, nell'economia divina, limitata a ciò che è sufficiente per l'adempimento di un incarico fissato per uno strumento in una configurazione di circostanze e di altri strumenti” (Letters 326).

Houghton e Keesee concludono il loro articolo con l'affermazione che Tolkien

offre un complesso e sfumato accertamento della natura del male. Ma questa visione non è un abbandono di Boezio; è coerentemente paradossale, piuttosto che ambiguo o contraddittorio. Radicato fermamente nella tradizione neo-platonica, Tolkien ne ISdA percepisce la vera natura del male: nulla, pertanto paradossalmente potente. (151)

Per quanto sembri convincente leggere Tolkien alla luce di una tradizione neoplatonica, questo è in qualche modo insoddisfacente per un filosofo o un teologo di oggi, se pensa che la rappresentazione del male fatta da Tolkien si armonizzi con visioni attuali del male che sorgono da discussioni filosofiche o teologiche degli ultimi secoli e vanno oltre alla visione neoplatonica (cf. Kreiner 126-139). Per quanto possa appoggiare la loro analisi della natura del male nel Tolkien de Il Signore degli Anelli, intendo spiegare la stesse caratteristiche con un'altra visione del male, cosicché la principale differenza tra la visione di Houghton e Keesee e la mia risiede nei presupposti filosofici e teologici. Quindi, intendo discutere principalmente della visione del male da me sostenuta che ha certe somiglianze con la loro visione e indicare alcune carenze della visione di Agostino e Boezio, senza riproporre in dettaglio un'analisi della concezione del male ne Il Signore degli Anelli.



I principali punti di una più articolata concezione del male



La visione neoplatonica-agostiniana del male come assenza di bene ebbe grande influenza fino al 19° secolo: la possiamo trovare negli scritti di Anselmo come pure in Tommaso d'Aquino o Leibniz. Combinandosi con la rottura dell'essenza/natura con la metafisica (Wesensmetaphysik), fu gradualmente sostituita. Al presente, questa visione non può essere del tutto convincente ma contiene alcuni importanti aspetti su cui è bene riflettere. Una carenza è stata menzionata prima in connessione con l'agostiniana e la boeziana 'visione di lungo termine'; un altro aspetto problematico di questa visione è la distinzione filosofica radicale tra essere e nulla, un altro ancora che è combinato con una visione spiritualista e individualista della fortuna e quindi con una profonda distanza tra materia e corpo. Inoltre, ci sono alcuni problemi per spiegare il male morale come privatio boni (cf. Kreiner 135f). In effetti non erano possibili nuove interpretazioni fino al riconoscimento della storicità dell'uomo. Le visioni di Hegel e Agostino hanno in comune che la qualificazione del male astratta dall'individuale potrebbe essere alla fine una tautologia non essendo combinata con un'esperienza della realtà (cf. Häring 81f). Ora volgiamoci ad alcune nuove concezioni del male.

Il primo filosofo che intendo citare è Immanuel Kant, perché nel suo lavoro sulla filosofia della religione, La religione entro i limiti della sola ragione, esamina il problema del male. Secondo la sua posizione rigorista (che è basata non solo sulle riflessioni della filosofia trascendentale, ma anche su una base empirica), la radice comune del bene e del male sta nella libertà umana e il male consiste nel subordinare la moralità rispettivamente al desiderio o all'inclinazione. Una tale subordinazione porta ad una corruzione della massima suprema e quindi Kant definisce l'uomo naturalmente e radicalmente malvagio. Sebbene veda il fondamento del male nel soggetto, non nega la forza del male e la sua concezione dei due poteri propulsori, il morale e il malvagio, combina l'ambiguità dell'esperienza del male come una forza sia interna che esterna. Per Kant è importante la filosofia pratica che ogni uomo ha la possibilità di agire moralmente perché ogni uomo conosce la legge morale dentro di sé e sa che deve seguirla. Uno dei problemi della visione di Kant consiste nella non esistenza di una spiegazione dell'essere malvagio perché Kant dice che l'origine razionale di questa inclinazione, la subordinazione, non si può scoprire. Inoltre, l'esame di Kant risiede entro i limiti della sola ragione e quindi esclude tutte le questioni 'trascendenti' dove non può dare suggerimenti per risolvere i problemi che sorgono dalla credenza in un Dio benevolente che creò il mondo e l'uomo come sua immagine.

Un'altra importante visione del male è quella di Karl Barth (1886-1968), forse il più importante teologo protestante del 20° secolo, sebbene una sua influenza su Tolkien debba essere esclusa. La sua visione è molto interessante e degna di approfondimento perché nella sua teologia della creazione tratta il male come reale, sebbene lo definisca la 'nullità' (das Nichtige) (cf. Häring 83-88). Come Shippey, pensa che il male sia la causa di troppi effetti per degradarlo ad una assenza, ma è molto difficile dire cos'è. Barth dissente con entrambe le visioni tradizionali del male come un'assenza e come una realtà, così rompe con il principio del pensiero occidentale, che ha sempre distinto tra Essere e Nulla. Il Male non agisce né dal creatore alla creazione, né dalla creazione al creatore, ma un terzo modo di agire (cf. Barth 330). La necessità di parlare in questo modo significa che il nostro stesso pensiero è spiazzato da questa nullità. Basato sul pensiero che il male è ciò che è visto come male su Gesù Cristo, egli definisce questa nullità come la negazione completa della creazione e della sua natura (cf. 353). Con ciò assume una posizione fondata sull'azione o sulla storia. Il male è un responsabile, inescusabile e oscuro atto dell'uomo (cf. 347-352) ed allo stesso tempo, è un evento del quale noi soffriamo (353-355). Guardando a Gesù Cristo, il male appare nelle categorie del potere. Il male vuole distruggere e rafforza questa volontà per distruggere incondizionatamente. Benché Barth affermi la concretezza della nullità, sostiene anche che la nullità non perdura, che non ha contenuto, perché Dio non vuole crearlo. In questo senso è: senza contenuto e vuota (cf. Barth 417). Così, Barth, ritorna all'ontologia tradizionale. A causa della sconfitta finale del male, esso può essere ora considerato come sconfitto e sottomesso. Quindi, il male ora e qui è già illusione, benché sia ancora efficace e possa uccidere. Così, Barth prova a rompere con la tradizionale visione ontologica del male come inconsistente (o senza sostanza), per riflettere sul male come concreto, efficace, ma a causa dell'assunzione di un Dio benevolente che non vuole il male e quindi non lo crea, torna alla definizione di male come essere senza sostanza e vuoto.

Ora, prendiamo in considerazione un'altra visione del male, espressa dal penultimo Vescovo di Aachen (1929-1994), Klaus Hemmerle, in un breve articolo di enciclopedia scritto quando era professore di Teologia Fondamentale a Bochum. A mio parere si tratta di una concezione molto convincente perché da un lato evita i problemi teologici e filosofici della visione dualistica, poiché il male è visto come la negazione del bene ed è inconcepibile senza il bene. Dall'altro lato, evita i punti deboli di una visione del male come interiore secondo le critiche di Shippey e Bonner. Inoltre, evita gli aspetti problematici della visione agostiniana che ho criticato in precedenza. Quindi, seguo questa concezione e la considero come adeguata per spiegare gli interventi del male nel Il Signore degli Anelli.

Hemmerle comincia con una introduzione al problema teologico del male, che sorge quando Dio è pensato come pura sorgente di bene e quindi non può essere autore del male, ma “il fatto del male, che è contrario a Dio, punta lontano da Dio e verso Dio. Il Male non può essere dovuto a Dio, ma (il male) deve essere responsabile per ciò di cui è responsabile il male. Dal punto di vista di Dio, il male è male, ma dal punto di vista del male, in che modo Dio è Dio?” (471). È teologicamente necessario chiarire il fondamento della possibilità del male per render giustizia alla santità di Dio. Quindi, la questione della localizzazione, della sconfitta e della 'fine' del male nel regno di Dio rimpiazza e completa la questione del fondamento della possibilità del male.

Hemmerle quindi dirige la discussione verso il fenomeno del male e enumera tre punti principali. Primo, analizza il male come antitesi al bene, Questo è il “tratto distintivo del male che colpisce immediatamente” (472) perché è inconcepibile senza il bene, ma il bene non richiede il male, quindi “il male esiste in virtù del bene e non viceversa” (472). È la diretta contraddizione del bene che rende il male male, quindi il male non è solo assenza, carenza, ma qualcosa di più della “applicazione del concetto di male, che non è bene, al dominio della volontà morale” (472). Perciò, è il rifiuto intenzionale del bene che deve essere distinto da ciò che è semplicemente cattivo . “Male è un concetto meno esteso di cattivo, ma più fondamentale” (472). Il male è male 'in quanto' malvagio, conscio di se stesso come negazione del bene. Perché un male 'innocente' non sarebbe male, la volontà è necessaria, così “'male' è predicato della volontà o, indirettamente, del modo di essere di alcuni esistenti posseduti da una certa direzione della volontà” (472), ma non semplice debolezza della volontà. La seconda principale caratteristica che elenca Hemmerle è il male come auto-contraddizione, perché non è solo in contraddizione con il bene, ma anche in contraddizione con se stesso. Poiché è affermato, è posto, è 'positivo' e “questo gli dà la sua particolare apparenza di dura, resistente realtà” (472), ma come il rifiuto, l'assenza di bene, questo è negativo, “di qui l'intrinseca 'vuotezza' del male” (472). Entro la sua negazione posta dalla volontà, c'è un'ulteriore contraddizione tra bene e bene, perché la volontà malvagia da una parte contesta il riconoscimento del bene come tale e dall'altra parte pretende che sia il bene ciò che egli pone nella sua contestazione. “Qualsiasi cosa voglia la volontà, essa afferma che quella cosa è bene per il fatto stesso che sia voluta”(472). 'Bene' significa che le cose dovrebbero essere in questo modo, e 'volere' significa affermare come qualcosa dovrebbe essere. “Persino qualcuno che vuol essere soltanto malvagio nell'interesse dell'essere malvagio, pensa sia bene ribellarsi, cioè, essere malvagio” (472). In questo punto, si può notare una importante analogia con la visione menzionata da Lewis. Il male può in questo modo essere descritto come un conflitto del bene con il bene nella volontà. La volontà cancella qualcosa presente ad essa come bene e lo sostituisce con qualcosa che è posto da lei come bene. “La formulazione della volontà buona è «Poiché questo è bene, io voglio questo». Quello della volontà malvagia è: «questo è bene perché lo voglio»” (472). Come trascendentali 'essere' e 'bene' sono identici nel senso che 'bene' significa qualcosa che è ammesso all'esistere, ed 'essere' significa quello che dovrebbe essere, non solo 'essere là', ma, come è stato detto, [significa] quello che è presente in ogni essere dal suo esistere. Bene come tale è, quindi, la pienezza che comprende e che trascende tutti gli esseri, l'unica sorgente che conferisce ogni cosa, porta a compimento ogni cosa e così è in armonia con se stesso” (473). In sé la volontà finita è stabilita nell'essere dalla sua origine; è qualcosa che si vuole che sia e può per parte sua affermare se stessa. La volontà finita è qualcosa a cui è garantito essere l'origine del suo accordo con l'origine incondizionata e conseguentemente la sua attività coinvolge un dualismo: è la sorgente della decisione del suo stesso essere e con esso, consentendo l'attività, è la sorgente di ogni altra cosa. Ma prima, decide di sé e di ogni cosa, deve porsi in armonia con la sorgente primordiale, deve “per sua parte accettare come bene quello che è stato già determinato e garantito come buono a suo riguardo. Per la volontà finita, il bene consiste nell'accordo del suo proprio consenso al bene con l'incondizionato fiat di Dio” (473). La volontà divina è interpretata attivamente dalla sua obbedienza; le dà contorni e forma. Questa concordanza viene affermata in ogni atto della volontà. La volontà proclama volendo: “Veramente dovrebbe essere così” (473) ed afferma il suo accordo con la sua propria condizione. “L'affermazione di quell'accordo non è, tuttavia, garanzia a se stessa; c'è un'intrinseca possibilità di disaccordo, e questa è la possibilità del male” (473). Questo disaccordo con il bene è la terza caratteristica del fenomeno del male. Poiché è bene essere come qualcosa che si dovrebbe essere, il male non può avere l'essere come suo contenuto. Il contenuto del male è la negazione, la cancellazione, la distruzione, la deformazione o la distorsione del bene o di un buon contenuto. Nello stesso tempo qualcosa è affermato e posto come bene. “In effetti la volontà malvagia vuole sempre qualcosa di buono, anche solo il suo potere di volere, che, come tale, è naturalmente buono. Persino l'auto-distruzione pone come bene il potere attraverso cui può essere raggiunta, la vera e propria energia che è buona in origine” (473) Quindi il male nel male è la disunione del bene con se stesso. Tutto quello che è, è bene (perché è), ma solo in relazione al bene assoluto e dipendendo da esso. Esso è bene solo se in accordo con il Tutto e l'Incondizionato in accordo con se stesso . Ogni cosa è posta in ordine dal bene e quell'ordine è prima di una decisione finita e deve essere portato ad una nuova realizzazione attraverso la decisione. “Il male è il disaccordo dell'essere con se stesso e così con l'assoluto; è il disaccordo del suo volere con se stesso e con l'assoluto, ed infine con ciò che vuole, che non è voluto dalla sorgente primordiale dell'assoluto nel modo in cui il male afferma essere voluto” (473f).

Nella sua discussione sul male nel mondo, Hemmerle esclude una interpretazione dualistica a causa dell'intrinseca dipendenza del male dal bene: “Il 'male' non è qualcosa di indipendente, esistente in sé, ma solo in un'esistente (e per questo fondamentalmente buona) volontà”(474). Dal momento che sgorga dalla volontà, è localizzato nella volontà individuale in sé e non in un potere al di sopra dell'individuo. Ancora, poiché la volontà è sempre correlata al tutto, questo tutto è portato alla disarmonia dalla persona che vuole male e il potere irradiante del male è capace di portare il mondo stesso alla disarmonia e di provocare altre volontà. “Attraverso questo cosmico potere di disarmonia e tentazione e attraverso l'accordo di un numero di volontà 'malate', il male ottiene un''indipendenza' secondaria che, per quanto apparente, è tuttavia efficace” (474).

Alla questione della possibilità del male non è stato ancora risposto, ma secondo Hemmerle, l'analisi in sé indica la risposta. La volontà limitata è per natura buona, in quanto: “auto-trascendenza che acconsente a tutto l'essere e conseguentemente all'unità con se stessi” (474). A causa della sua finitezza, è contingente e la sua esistenza è nelle tensioni degli accidenti con la sua essenza. La sua essenza è principalmente propria, ma anche 'altra' da sé e quindi la volontà finita dovrà realizzare quest'altro da sé come suo nel completare se stessa. “Quindi compie necessariamente ciò che raggiunge come bene, ma ciò che raggiunge come bene, sempre lo porta a termine da sé e dunque non di necessità” (474). Questo implica ontologicamente la possibilità di un'attività divergente, di disarmonia e così di male. Questo è possibile solo attraverso la volontà finita che dovrebbe da sé neutralizzare la sua subordinazione alla volontà divina, “in accordo non con se stessa, ma con Dio, per essere 'come Dio', una con lui e allo stesso tempo abbastanza altra da lui” (474). La deformazione della somiglianza creata è il rischio della decisione di Dio di permettere alla sua immagine di esistere in questa somiglianza. “L'essere del pensiero finito è il fondamento della possibilità del male”.

Hemmerle conclude il suo articolo con la sconfitta del male attraverso la morte di Gesù e la sua resurrezione. L'obbedienza fino alla morte di Gesù è la realizzazione compiuta dell'atto di radicale accettazione del volere di suo Padre: così Gesù ha giudicato e rifiutato il male, “e da questo egli, amorevolmente, assunse la colpa e il peccato del mondo e fu 'conformato' ad esso nella sua somiglianza, sulla croce” (474). La nascita di un nuovo uomo e l'inizio di una nuova creazione con la resurrezione della Pasqua è la rivelazione e la conferma della nuova armonia tra Dio e il mondo. La sconfitta del male avviene quando l'amore di Dio e l'amore del figlio, che abbraccia il Padre e il peccatore, si collegano entrambi di nuovo.

Lo Spirito del Figlio produce lo stesso amore nel redento; sconfigge il conflitto nella volontà finita tra il dover determinarsi e il dover permettere di essere determinati: l'amore vuole come suo proprio ciò che vuole l'amato; è un'ininterrotta, diretta unione dell'uomo con Dio e la sua autorevole volontà creativa, dell'uomo con se stesso, e con il mondo prodotto nell'essere dalla volontà amorevole di Dio (475)

Per riassumere questo concetto di male, possiamo citare varie principali caratteristiche. La prima, che il male non è stato creato e non potrebbe essere creato da Dio, ma Egli come creatore del mondo è responsabile per la creazione di esseri liberi che possono agire contro la sua volontà, agire cioè in modo cattivo. Il male, come assenza o mancanza di bene è in sé non essere e quindi non può creare o annientare qualcosa, può solo distruggere. Appare come l'antitesi del bene, come auto-contraddizione e come discordia con il bene. Se è non essere in sé, può apparire solo come fenomeno e non essere stato cattivo in origine ma deve diventare male. Dal momento che scaturisce dalla volontà, che è correlata all'intero, ha un potere di irradiazione che conduce alla sua diffusione.



La visione del male di Hemmerle e Il Signore degli Anelli

Basandomi sull'analisi della visione del male ne Il Signore degli Anelli presentata da Houghton e Keesee, che mostra che questa è una paradossale ma fondata visione che “spiega molti elementi del SdA più efficacemente di quanto non faccia il vedere quegli elementi come ambiguamente illustrativi delle due contraddittorie visioni del male” (138), sto per citare solo le principali caratteristiche della visione di Hemmerle del male applicandole a Il Signore degli Anelli.

Primo. Evita il pericolo della visione di lungo termine agostiniana e boeziana menzionata da Shippey e Bonner che potrebbe portare alla conclusione che la risposta corretta sarebbe un rifiuto di resistere al male. Se il male scaturisce dalla volontà ed ha un potere di irradiazione, gli si può resistere e gli deve resistere perché la discordia della volontà con se stessa e con l'Assoluto non dovrebbe essere e la volontà è invitata da se stessa ad essere in armonia con la volontà divina.

Secondo. Questa visione non nega gli effetti 'fisici' del male, ma li spiega attraverso l'interdipendenza delle volontà per mezzo della quale il tutto è portato alla disarmonia (possiamo applicare questo alla visione che Melkor/Morgoth ha corrotto l'intera materia di Arda cf. MR 394ff), per questo può apparire come una forza esterna e influenzare altre volontà. Inoltre, la concezione di peccato originale e la concupiscenza come suo effetto può aiutare a capire questa visione perché benché siano forse sperimentate come forze esterne, non sono un potere sulle volontà individuali, ma un potere dentro la volontà che incita l'uomo al peccato. Questa concezione tenta di spiegare la tensione tra l'esperienza umana di essere incitato al peccato e la sua vocazione alla santità. Forse nessuno meglio dell'apostolo Paolo ha espresso questa differenza tra volere il bene ma non farlo e fare il male ma non volerlo:

Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. (Rm 7,15-23).

Una tale visione può spiegare l'esperienza dell'Anello come una creatura senziente, può spiegare perché appare a Frodo che il desiderio di mettere l'Anello sta venendo dall'esterno, perché la sua volontà sembra essere travolta da una forza superiore e perché Frodo sente il potere dell'Anello tanto più fortemente quanto più si avvicina a Mordor. In questo modo questa visione può, in terzo luogo, spiegare entrambe le esperienze dell'Anello come amplificatore psichico e forza esterna (nelle parole di Shippey, Houghton e Keesee “vedrebbe l'Anello come una forza esterna che inganna l'individuo e così produce un male interiore” [143]). Poiché il male scaturisce dalla volontà e - a causa del suo potere irradiante da una parte - può colpire pensiero e cuore della persona buona, allora è necessario che Frodo prenda l'Anello e dall'altra parte non è sufficiente metterlo da parte perché a causa di questa disarmonia non risulti poi travolto . Hoghton e Keesee affermano che nelle “gesta dei vari personaggi con l'Anello, emerge un rimarchevole consistente quadro neoplatonico della loro natura, e della natura del male” (143). Suggerisco solo un'altra possibilità di capire l'Anello che ho esaminato in un altro articolo: l'Anello ha grandi somiglianze con una visione neoscolastica (cf. Scheeben), ma presenta anche (cf. Rahner 113-121) una visione del Peccato Originale (cf. Rom 7), che, secondo Scheeben, può sembrare un potere vivente nella carne e nelle membra, prendendo possesso della natura, assoggettandola alle sue leggi e governando la volontà di una Persona attraverso la natura (cf. 676).

Il fatto evidenziato da Houghton e Keesee che il male appare come equivoco soggettivo, come incomprensione o falsità, cosa che si vede chiaramente in Saruman, nei Nazgûl e persino in Sauron (cf. 138ff), corrisponde alle caratteristiche del male come conflitto di bene con bene nella volontà e come discordia entro il bene menzionato da Hemmerle (cf. 472f.). È comune alle due visioni che non ci può essere un desiderio del male in quanto male e la malvagità di Sauron è piuttosto “un desiderio disordinato per un bene particolare (vale a dire, il potere), e come tale è anche una debolezza” (Houghton/Keesee 142).

Basate su questa visione del male, le questioni complementari della sesta e della settima richiesta del Padre Nostro menzionate da Tolkien e Shippey esprimono il desiderio di una volontà in armonia con la volontà divina in noi stessi – visione simile a quella di Agostino e dell'Aquinate menzionata da Houghton e Keesee come il desiderio di Dio di non abbandonarci alla tentazione – e il desiderio di protezione dalla disarmonia del mondo stesso e del suo potere di costringere altre volontà, in altre parole: liberarci dai risultati del passato. Ma questo ha la sua sorgente non in una forza esterna, in un principio primordiale del male, ma nella volontà individuale in sé.



Conclusione

Ho provato a spiegare perché non è necessario considerare due differenti concetti di male per spiegare la descrizione del male ne Il Signore degli Anelli. Sebbene l'interpretazione del prof. Shippey appaia convincente, con Hughton e Keesee penso che il suo background filosofico non sia del tutto solido. Uno sguardo più attento alla discussione filosofica e teologica sul male rivela che il concetto di male come senza-sostanza (o inconsistente) non significa che è solo interno ma che sembra anche essere una forza proveniente dall'esterno e le si deve resistere. Volevo delineare una visione del male che fosse basata sulla non-sostanzialità del male e combinasse l'esperienza del male come realtà, come potente forza, con la dottrina cristiana di Dio come pura sorgente di bene che non può essere autore del male, ma quel male non può essere pensato in sé ed esiste in virtù del bene che esclude una interpretazione dualistica del mondo. A mio parere, questa visione del male spiega in modo filosoficamente coerente la descrizione del male ne Il Signore degli Anelli nei suoi differenti aspetti.

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--------- Morgoth’s Ring. The History of Middle-earth X. London: HarperCollins, 1994.

Verweyen, Hansjürgen. Gottes letztes Wort. Grundriss der Fundamentaltheologie. Regensburg: Pustet 32000.

Zimbardo, Rose A. “Moral Vision in The Lord of the Rings.” Understanding The Lord of the Rings: The Best of Tolkien Criticism. Ed. Rose A. Zimbardo and Neil D. Isaacs. Boston / New York: Houghton Mifflin, 2004, 68-75.

[traduzione di Alberto Quagliaroli di Different concepts of evil in The Lord of the Rings, tratto da Aa. Vv, The Ring Goes Ever On, proceedings della Tolkien Conference di Brimingham 2005]

1Voglio ringraziare Dr. Rainer Nagel per aver corretto molti miei errori di linguaggio e David Wakefield per gli utili commenti

2In Italia pubblicato da Simonelli Editore.

3In Italia pubblicato da Marietti 1860.

4Il Signore degli Anelli, Diciassettesimo volume; Parte terza. Libro sesto; Capitolo I - La Torre di Cirith Ungol.

5Il Signore degli Anelli, Quinto volume; Parte prima. Libro secondo; Capitolo II - Il Consiglio di Elrond.

6Il Signore degli Anelli, Quattordicesimo volume; Parte seconda. Libro quarto; Capitolo X - Messer Samvise e le sue decisioni.

7Il Signore degli Anelli, Quattordicesimo volume; Parte seconda. Libro quarto; Capitolo X - Messer Samvise e le sue decisioni.

8Il Signore degli Anelli, Secondo volume; Parte prima. Libro primo; Capitolo II – L'ombra del passato.

9Il Signore degli Anelli, Secondo volume; Parte prima. Libro primo; Capitolo XI – Un coltello nel buio.

10Il Signore degli Anelli, Ottavo volume; Parte prima. Libro secondo; Capitolo X – La compagnia si scioglie.

11Il Signore degli Anelli, Tredicesimo volume; Parte seconda. Libro quarto; Capitolo VIII – Le Scale di Cirith Ungol.

12Il Signore degli Anelli, Diciassettesimo volume; Parte terza. Libro sesto; Capitolo III - Monte Fato.

13Il Signore degli Anelli, Diciassettesimo volume; Parte terza. Libro sesto; Capitolo III - Monte Fato.

14Il Signore degli Anelli, Diciassettesimo volume; Parte terza. Libro sesto; Capitolo III - Monte Fato.

15Si dovrebbe menzionare il fatto che la traduzione inglese della settima richiesta del Padre Nostro dissolve un'ambiguità presente nella versione del testo greco, perché il genitivo tou ponerou in Mt 5,13b può essere il genitivo di ho poneros (il Male) o to poneron (il male come nome astratto). Quindi, la richiesta nel testo greco può essere una domanda per la liberazione dal Demonio – una tradizione che è fortemente presente in alcune Chiese Ortodosse. Sono debitore di questa sottolineatura verso la discussione di una mia conferenza a Birmingham.