Tolkien e il poeta del Beowulf 1



di Tom Shippey




Tolkien si è mai interrogato sulla possibilità di essere la reincarnazione del poeta del Beowulf? Se qualcuno gli avesse mai posto questa domanda egli avrebbe certamente risposto: «No». A dire il vero, pare che in un’occasione gli fu effettivamente posta una domanda simile: «Lei crede nella reincarnazione?», e la sua risposta fu: «No, sono cristiano». Ciò nonostante, benché probabilmente rifiutasse l’idea della reincarnazione per le persone vere del mondo reale, Tolkien la inserì nelle sue opere di narrativa in diverse occasioni. Infatti, ci viene detto che i Nani hanno «molte strane storie e credenze a proposito di loro stessi e del loro destino nel mondo» e una di queste storie narra che, nella casa di Durin, per cinque volte nacque un bambino «talmente simile al suo Avo, che ricevette il nome di Durin» e che i «Nani erano in verità convinti che ognuno di questi eredi fosse la reincarnazione del Senza-morte» (SDA AppA.III). Inoltre, Tolkien era preoccupato dalla ricomparsa del nome Glorfindel: nel Signore degli Anelli Glorfindel è il signore degli Elfi che compare per aiutare gli Hobbit a fuggire dai Nazgûl e raggiungere Gran Burrone; nel Silmarillion, migliaia di anni prima, è invece un eroe di Gondolin ucciso da un Balrog sul passo di Cirith Thoronath. Per questa ripetizione ci sarebbe una spiegazione molto semplice: esistono infatti molte più persone che nomi ed è assai comune ricevere il proprio in onore di un eroe o di una figura leggendaria del passato. Tuttavia, Tolkien continuò a pensare che questo fatto dovesse essere più di una coincidenza e, alcuni anni dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli, scrisse una lunga spiegazione sulla rinascita e sulle abitudini degli Elfi riguardo ai nomi (“Of Rebirth”; MR, pp. 220-253, 300): il secondo Glorfindel era quindi il primo Glorfindel rinato. Infine, il più importante personaggio umano del Silmarillion è ovviamente Beren, l’unico essere umano mortale a cui sia stato concesso di tornare dalla morte, e Beren e Lúthien sono anche i nomi incisi sulle lapidi delle tombe di Tolkien e di sua moglie.

Nel mondo occidentale moderno l’idea della reincarnazione ha inoltre assunto un’aria esotica e orientaleggiante che, in effetti, avrebbe potuto indurre una persona come Tolkien a rifiutarla. Tuttavia, egli sapeva bene che delle tracce di questa credenza sono presenti anche nelle antiche tradizioni inglesi e scandinave. Questo potrebbe spiegare l’usanza, presente in tempi antichi e non ancora del tutto scomparsa, di dare ai bambini il nome di componenti della famiglia già deceduti, ma mai di parenti ancora in vita. Se in una saga islandese si incontra un personaggio chiamato, ad esempio, Véstein Véesteinsson è naturale concludere che costui sia nato dopo la dipartita del padre, un’inferenza rilevante anche per la controversa interpretazione della Saga di Gísli figlio di Súrr (si veda Kroesen 1982).2 La reincarnazione era quindi per Tolkien un’idea familiare, seppur sgradita, ed era dotata di radici autoctone.3

Tuttavia, ciò non significa che egli applicasse l’idea della reincarnazione a se stesso. Ad ogni modo, i commenti di Tolkien sul poeta del Beowulf che sono stati pubblicati evidenziano come egli sentisse un certo legame con il suo antico e totalmente anonimo predecessore, un legame che, quanto meno, era molto più stretto di quello meramente accademico. Da parte di Tolkien si percepisce infatti un forte senso di comunanza e una certa tendenza a ignorare i dibattiti sulla base del fatto che lui, dopotutto, conosceva ciò che era nella testa del poeta. Nella sua famosa conferenza del 1936 sul poema, Tolkien riassunse intere generazioni di studi con le seguenti parole:


Lentamente, con lo scorrere degli anni, l’ovvio (così spesso la rivelazione di una ricerca analitica) è stato scoperto: che abbiamo a che fare con il poema di un inglese che usava di nuovo materiali antichi e largamente tradizionali. (MF, p. 33)


Ma questa descrizione del poeta potrebbe essere altrettanto buona come descrizione di Tolkien stesso. «Un inglese»: su questo non c’è dubbio. Tolkien sapeva bene che il suo nome ha radici tedesche (esattamente come molti studiosi del passato hanno fatto notare che Beowulf doveva essere tedesco, danese o frisone), ma sapeva anche che queste radici sono vecchie di secoli (proprio come la storia del Beowulf) ed egli aveva ripetutamente affermato di sentirsi in tutto e per tutto un inglese delle Midlands occidentali, l’antica Mercia, dove la famiglia di sua madre, i Suffield, erano rimasti trincerati da tempo letteralmente immemore (Lettere, n. 44). «Che usa di nuovo materiali antichi e largamente tradizionali»: questa sarebbe un’ottima descrizione di ciò che Tolkien ha fatto ripetutamente nel Signore degli Anelli, e non descriverebbe nemmeno tanto male ciò che Tolkien stava facendo nel 1936, quando Il Signore degli Anelli non era nemmeno stato concepito ed egli lavorava alle varie versioni esistenti del “Silmarillion” che voleva ansiosamente inserire tra le antiche e troppo spesso dimenticate tradizioni inglesi.

Le caratteristiche autoreferenziali di questa conferenza sono effettivamente così marcate che Tolkien, in alcuni casi, ha dovuto nasconderle deliberatamente. Difendendo l’importanza dei draghi contro i critici, egli disse in un passaggio che il poeta del Beowulf «stimava i draghi, tanto rari quanto tremendi, come fa ancora qualcuno» (MF, p. 37; corsivo mio). Chi era questo “qualcuno”? Poche pagine dopo aggiunge:


Anche oggigiorno (a dispetto dei critici) si possono trovare uomini non ignari della leggenda tragica e della storia, che hanno sentito parlare di eroi o li hanno visti davvero, e che nonostante questo sono stati presi dal fascino del mostro: più di un poema recente […] è stato ispirato dal drago di Beowulf; nessuno, per quanto ne so, da Ingeld figlio di Froda. (MF, p. 43)


La pubblicazione, a opera di Michael Drout, delle prime bozze di questa conferenza scritte da Tolkien ci ha permesso di notare che, quando egli parla di «più di un poema» riguardante i draghi, si riferisce, in effetti, esattamente a due opere: il suo stesso “Iumonna Gold Galdre Bewunden” e “Once the worm-laid egg…” di C.S. Lewis (Drout 2002, pp. 56-58, 110-114), esempi non esattamente convincenti di un gusto moderno e diffuso, come Tolkien stava cercando di sostenere, ma forse prove di un gusto condiviso con l’autore del Beowulf. Per quanto riguarda gli «uomini non ignari della leggenda tragica e della storia», a chi può applicarsi questa definizione meglio di Tolkien? E «che hanno sentito parlare di eroi o li hanno visti davvero»? Come Tolkien ben sapeva, il reggimento in cui aveva prestato servizio durante la Prima guerra mondiale, i Fucilieri del Lancashire, si era distinto per aver ottenuto più Victoria Cross (17) di ogni altro reggimento britannico o imperiale. Tolkien aveva quindi veramente incontrato degli eroi e combattuto con loro, come probabilmente aveva fatto il poeta del Beowulf. Tuttavia, entrambi preferivano scrivere di “mostri” e di esseri non umani, di miti piuttosto che di storia, per cui Tolkien riteneva, in maniera convincente, di essere l’uomo giusto per illustrarne il motivo.

Questi non sono gli unici esempi di autoreferenzialità dissimulati all’interno dei saggi di Tolkien, poiché essa si è fatta sempre più esplicita nel corso del tempo. Quando Tolkien fece scherzosamente notare al pubblico della sua conferenza “Sulle fiabe”, poi divenuta un saggio, che così come i racconti degli uomini sulle fate riguardano spesso la Fuga dalla Morte, «i racconti degli elfi sugli uomini sono indubbiamente ricolmi della Fuga dall’Immortalità» (SF, p. 85, t.n.), nessuno aveva la minima idea di cosa stesse parlando. Per quanto ne sapeva il pubblico non esistevano «racconti degli elfi sugli uomini», ma effettivamente oggi noi sappiamo invece che non era così: la storia di Beren e Lúthien esisteva infatti già in svariate versioni, note solo a Tolkien e a pochi suoi amici. Ad ogni modo, come accade nei rapporti su esperimenti scientifici, per convenzione nella saggistica l’autore dovrebbe astenersi dai giudizi personali e, per tornare al Beowulf, Tolkien riuscì a farlo perfettamente nei suoi tre principali commenti al poema che sono stati pubblicati: la conferenza del 1936; il saggio “Tradurre Beowulf”, aggiunto come prefazione alla traduzione del poema a cura di Clark Hall e C.L. Wrenn pubblicata nel 1940;4 e le conferenze del 1963 pubblicate postume sotto il titolo di Finn and Hengest.5

Queste pubblicazioni hanno avuto fortune sorprendentemente diverse: la conferenza del 1936 è generalmente considerata il punto di partenza per quasi tutta la critica moderna al poema e potrebbe benissimo essere il saggio più citato negli studi umanistici di tutti i tempi; riguardo le opinioni di Tolkien sulla traduzione esiste solo qualche riferimento sparso e il mondo accademico ha invece essenzialmente ignorato la pubblicazione del 1982. Tutto ciò è normale quando si parla di Tolkien: alcuni dei suoi saggi (forse tre) meritano di essere definiti “fondamentali nel loro campo”, mentre gli altri sarebbero invece sprofondati nell’oblio senza lasciare alcuna traccia se non fosse stato per la loro relazione con le sue opere di narrativa. Tuttavia, ciò che dava forza a tutti i suoi scritti accademici, che riguardassero il Sir Gawain, l’Ancrene Wisse, le fiabe o il Beowulf, era la convinzione che il suo identificarsi con gli autori antichi, che egli credeva fermamente provenissero dalla sua stessa terra e parlassero il suo stesso (primitivo) linguaggio, gli conferisse una comprensione privilegiata di ciò che loro avevano pensato e voluto dire. In nessun caso questa identificazione fu più forte che con lo sconosciuto poeta del Beowulf.

In apparenza, questa identificazione non ha molto senso. Avendo venduto centinaia di milioni di copie (nessuno conosce il numero esatto, che però è stato di certo considerevolmente accresciuto dal vasto numero di spettatori della recente versione cinematografica) Il Signore degli Anelli è uno dei romanzi di maggior successo di tutta la storia della narrativa e ha avuto risultati notevoli, se non prodigiosi, fin dalla sua prima pubblicazione. Al contrario, il Beowulf è sopravvissuto per quasi ottocento anni solamente come singolo manoscritto, sul quale, per quanto ne sappiamo, solo quattro persone vi hanno posato gli occhi, tre delle quali non ne conoscevano la trama.6 Tuttavia, le differenze non sono così enormi come possono sembrare. Da una parte, il Beowulf è ora una delle opere più conosciute della storia della letteratura, tradotto in molte lingue e di nuovo esistente in milioni di copie (cosa che il suo ignoto autore non avrebbe mai potuto immaginare). Sembra che negli ultimi duecento anni siano stati scritti più articoli accademici su di esso che su ogni altra opera letteraria inglese, incluso perfino l’Amleto, benché si possa inoltre dire che oggi non sappiamo ancora quasi nulla di certo delle sue origini e dei suoi scopi. Dall’altra parte, bisogna ricordare che, per gran parte della sua vita, anche Tolkien considerò le sue opere, inclusi Il Silmarillion e Il Signore degli Anelli, come singole copie manoscritte che avrebbero potuto non trovare mai un pubblico. All’inizio di “The Notion Club Papers” Tolkien immagina un futuro in cui la sua opera sia diventata, proprio come il Beowulf, un polveroso manoscritto anonimo, dall’autore dimenticato, esaminato dagli studiosi nel tentativo di risalire alla sua provenienza tramite il tipo di carta e di calligrafia, e grazie ai riferimenti interni che possano aiutare a collocarlo temporalmente (SD, pp. 155-158). Proprio come il poeta del Beowulf, Tolkien è stato un autore largamente ignorato per la maggior parte della sua vita. Probabilmente sperava nella stessa inversione di fortuna di cui aveva beneficiato il suo predecessore, inversione prontamente avvenuta.

Tali fatti possono spiegare una certa simpatia, una comunanza, fra Tolkien e il poeta, ma esistono tra i due legami più profondi? A questo punto è necessario affrontare il problema centrale degli studi sul Beowulf: ciò che noi sappiamo (o pensiamo di sapere) sul poema non corrisponde per niente a ciò che esso sembra affermare riguardo a se stesso. Per dirla chiaramente, quasi tutti i critici oggi concordano con l’opinione di Tolkien che debba trattarsi dell’opera di un letterato inglese cristiano. Ma il poema, con generale disagio, non menziona mai né l’Inghilterra, né la Britannia, né alcun personaggio inglese, fatta eccezione per due casi marginali e comunque dubbi (i personaggi di Hengest e Offa) riguardo ai quali solo una cosa è certa: essi vivono ancora sul continente europeo, qualunque cosa accada loro in seguito e chiunque siano i loro discendenti. Inoltre, malgrado il poema citi la Bibbia, e frequentemente anche Dio, i riferimenti riguardano sempre l’Antico Testamento, mai il Nuovo, e non viene mai menzionato Cristo né alcuno dei suoi epiteti consueti in antico inglese, come “il Redentore”, “il Guaritore”, ecc. Sembra che i riferimenti specificamente cristiani siano stati deliberatamente evitati. Infine, malgrado il poeta sembri conoscere il verbo “scrivere” (writan in antico inglese) usandolo due volte, esso, in un’occasione sicuramente e nell’altra molto probabilmente, non è utilizzato con il significato di “scrivere”, bensì con quello più antico di “tagliare” o “incidere rune”. Analogamente, il poeta usa il calco (for)scrifan, dal latino scribere (che in tedesco, ad esempio, diventa schreiben), termine normalmente usato per “scrivere” ma che nel Beowulf assume invece il significato di “condannare”. Se ci si basa quindi sugli indizi interni, il poema non sembra scritto da un letterato inglese cristiano, bensì composto oralmente da uno o più analfabeti scandinavi pagani. A partire dalla conferenza di Tolkien del 1936, quasi nessuno ha più dato credito a questa ipotesi, mentre prima essa era un’opinione comune, seppure con diverse variazioni sul tema. L’approccio più diretto alla questione è stato probabilmente quello di Gregor Sarrazin, un professore tedesco che sosteneva che il poema fosse una traduzione in antico inglese di un precedente poema norreno che chiamò *Byggviskviða Grindilsbana. Sicuramente una risposta sensata a un problema reale, peccato non avesse assolutamente alcuna prova a suo sostegno.

Tolkien aveva una risposta diversa che inserì cautamente e indirettamente nella sua conferenza del 1936. In questo caso, il problema è che, una volta trovato il modo di districarsi tra la terribilmente complessa e affascinante retorica di Tolkien, la risposta si basa sulla sua convinzione di sapere esattamente quando e perché il poema era stato scritto, nonché cosa passasse nella mente del poeta mentre scriveva. Quando era stato scritto il poema? Tolkien dice di accettare «completamente e senza discussioni l’attribuzione del Beowulf all’“età di Beda”» (MF, p. 48), sarebbe a dire approssimativamente nel 700-730 d.C. Ci sono state molte discussioni intorno a questo argomento e, al momento, il consenso generale data il poema a circa 250 anni più tardi.7 Tolkien riteneva che il poema dovesse provenire da un’epoca in cui la conversione al Cristianesimo fosse già avvenuta e la nuova religione fosse consolidata, ma non così tanto da far scomparire la memoria dell’era pagana, un’era in cui, malgrado Tolkien non lo dica mai, fosse forse ancora presente il ricordo di nonni morti da pagani e quindi, in senso stretto, privati della possibilità della salvezza. Tolkien chiama ripetutamente quest’epoca «tempo di fusione», «una fusione che si è verificata al punto esatto in cui vecchio e nuovo s’incontrano», «un pregnante momento di equilibrio» (MF, pp. 48-49, 52). Quando si collochi questo momento dipende da dove ci si trova, poiché la conversione ebbe luogo in periodi differenti in diverse parti dell’Inghilterra, approssimativamente tra il 600 e il 700 d.C. Tolkien non offre alcuna opinione su questa questione, ma è piuttosto chiaro riguardo «l’atteggiamento dell’autore, la forma essenziale della sua percezione immaginativa del mondo» (MF, p. 48). L’autore stava guardando «nel baratro alle sue spalle […] cogliendo la loro tragedia comune [dei racconti antichi] fatta d’inevitabile rovina, e tuttavia sentendo questo in modo più intensamente poetico poiché egli stesso era lungi dalla diretta pressione del loro sconforto» (MF, pp. 52-53, t.n.). Il poeta guardava quindi indietro, consapevole di un certo anacronismo, di un contrasto fra la propria epoca e quella di cui stava scrivendo e, in particolare, era un cristiano che guardava con amore e compassione ai popoli che sapeva essere stati pagani e che gli sarebbe piaciuto poter definire “pagani virtuosi”.

La questione della salvezza, o meglio dei pagani virtuosi, sembra essere stata argomento di discussione per gli Inklings: Lewis offre infatti la sua visione nell’ultimo libro delle Cronache di Narnia, L’ultima battaglia (1956), e più indirettamente nel suo ultimo romanzo A viso scoperto (1956). Qualcuno potrebbe però giustamente chiedere: cosa aveva a che fare Tolkien con la loro situazione? Egli non si trovava certamente in una situazione simile a quella del poeta del Beowulf che stava guardando «nel baratro alle sue spalle»: all’epoca di Tolkien l’Inghilterra era totalmente cristiana da almeno mille anni, anche considerando la ricaduta pagana del periodo vichingo. Certo, ma in futuro? Tolkien magari non poteva guardare nel baratro del paganesimo alle sue spalle ma, nel 1936, poteva certamente vederlo davanti a sé. Come disse egli stesso, benché non possiamo sapere in quale misura stesse parlando in modo specifico dell’ideologia nazista, l’immaginazione pagana nordica «ha avuto il potere […] di rivitalizzare il suo spirito anche ai nostri tempi» (MF, p. 57). A questo riguardo Tolkien fu un profeta migliore di quanto avrebbe voluto: settant’anni dopo, infatti, l’Inghilterra è in tutto e per tutto un paese “post-cristiano”, in misura ancora maggiore del resto d’Europa. A questo punto si può dire che, mentre nella visione di Tolkien il vecchio poeta era un cristiano che volgeva indietro il suo sguardo, con ammirazione e pietà, al periodo pagano e che (anche se ancora non lo poteva sapere) si trovava sull’orlo di una nuova e ancor più pericolosa sfida pagana, così Tolkien era un cristiano che volgeva indietro il suo sguardo alle tradizioni pagane (sebbene da molto più lontano) e si trovava sull’orlo di nuove e ancor più pericolose sfide pagane, interne ed esterne, che dovevano essere fronteggiate ancora una volta.

Entrambi gli autori reagirono in modo molto simile. Entrambi crearono un mondo anacronistico, popolato di pagani virtuosi il cui paganesimo non è mai (in entrambi i casi quasi mai) messo apertamente in discussione. Entrambi i mondi sono stati in qualche modo “epurati”, ossia in entrambi i casi sono stati rimossi elementi che ci si sarebbe potuti aspettare di trovare ma che avrebbero potuto dare fastidio e far sembrare i personaggi meno virtuosi. Infatti, nel Beowulf non ci sono schiavi e, nonostante recenti scavi a Lejre8 (il sito tradizionalmente riconosciuto come sede di Heorot, la grande sala del poema) abbiano portato alla luce un esempio tanto chiaro quanto raccapricciante di sacrificio umano, nel Beowulf non sono presenti sacrifici umani. In effetti, c’è una sola citazione di divinità pagane, adorazione di idoli e sacrifici al diavolo in un passaggio (versi 175-188) che Tolkien segnala esplicitamente come non originale (MF, pp. 84-87). Il Beowulf, nonostante le innumerevoli citazioni di Dio, cala in effetti i personaggi in un mondo sostanzialmente privo di una religione organica: si tratta di un mondo pagano senza veri pagani.

Tolkien riteneva che questa non fosse una coincidenza (come molti continuano invece a pensare) e il mondo eroico della sua Terra di Mezzo è molto simile all’eroica “Isola che non c’è e non c’è mai stata” immaginata dal suo predecessore. Infatti, nemmeno i Cavalieri di Rohan, nonostante le loro caratteristiche semi-barbariche, hanno degli schiavi e, malgrado i labili riferimenti a una religione pagana sullo sfondo nei toponimi come Harrowdale (la valle dello hearh, il tempio pagano)9 e Halifirien (la montagna sacra), non sono presenti sacerdoti e non si vede mai nessuno praticare alcun culto religioso. Durante i funerali di Théoden si possono osservare alcuni aspetti di rituali pagani attestati: il grande tumulo eretto, il cerchio di cavalieri, il menestrello che intona un lamento funebre, la sepoltura con armi e oggetti preziosi. Una sepoltura molto simile a quella di Beowulf (benché essa comprenda anche la cremazione, che Tolkien non approvava) eppure non si fa menzione, ancora una volta come nel Beowulf, di altri elementi pagani come l’uccisione di un cavallo, un falco, un segugio e uno schiavo da seppellire insieme al padrone. I Cavalieri, così come gli eroi del Beowulf, non fanno questo genere di cose, benché gli antichi pagani germani del mondo reale le facessero sicuramente. Tolkien mostra inoltre una certa consapevolezza della natura immaginaria e non realistica del mondo da lui creato inserendovi un forte elemento anacronistico, particolarmente evidente negli Hobbit con la loro “erba pipa” (tabacco), le loro “tate” e “patate”, i loro rabbits e coneys (“conigli”), tutti elementi sconosciuti nel reale mondo antico.

Il punto di contatto più importante fra i due scrittori è però un altro: posti di fronte a un complesso dilemma fatto di simpatia per una tradizione e dedizione a un’altra, i due hanno reagito allo stesso modo. Entrambi, come disse Tolkien, hanno costruito un artefatto che fosse loro congeniale, un artefatto che molto probabilmente poteva essere frainteso. Nella sua ampia allegoria della casa e della torre, Tolkien suggerì che gli studiosi, nei loro tentativi di comprendere il poeta del Beowulf, lo avevano considerato come colui che aveva costruito la torre, mentre loro avrebbero preferito che egli avesse ricostruito l’antica casa da cui aveva tratto le pietre per la sua opera e non riuscivano a capire per quale ragione avesse fatto una cosa del genere: «Ma dalla cima di quella torre», spiegava Tolkien, «l’uomo era stato in grado di spingere lo sguardo sino al mare» (MF, p. 31). Allo stesso modo, Niggle, il personaggio di Tolkien in “«Foglia» di Niggle” (un’autopresentazione piuttosto evidente da parte di Tolkien), decide di dedicarsi alla pittura di foglie e poi di un Albero. Tuttavia, nessuno capisce o valorizza il suo lavoro e le ultime parole dette su di lui nel mondo reale sono: «Niggle! […] Non sapevo che dipingesse» (Albero, p. 132). Niggle, l’antico poeta e Tolkien: tutti loro (disse lui stesso) verranno capiti solo nell’aldilà.

Il Beowulf influenzò quindi Tolkien solo come modello generale, seppure ben accetto? L’influenza del poema sui suoi racconti di fantasia durò almeno cinquant’anni e un capitolo delle Due Torri deriva, tanto in linea generale quanto nei dettagli, da esso. L’arrivo di Aragorn e dei suoi compagni a Meduseld nel capitolo “Il re del Palazzo d’Oro” segue quasi esattamente il protocollo suggerito dal Beowulf ai versi 229-405: prima prova, congedo dal primo sfidante, seconda prova con le guardie alla porta, abbandono delle armi fuori del palazzo, udienza in piedi di fronte al trono. La famosa decisione di Hama riguardo il bastone di Gandalf, «nel dubbio, un uomo di valore avrà fiducia nella propria saggezza» (SDA DT.III.VI), è contemporaneamente una traduzione e un commento dell’oscuro e spesso frainteso proverbio del guardacoste danese riportato ai versi 287-289 del poema.10 Lo stesso nome Meduseld aggiunge solo la lettera maiuscola a una parola usata nel poema al verso 3065, in cui mid his mágum meduseld búan, ossia “abitare nella sala dell’idromele con i propri parenti”, significa semplicemente “vivere”.11 Tolkien trasse quindi dal poema una chiara visione della natura del comportamento eroico, ma vi sono almeno altri cinque o sei modi in cui il poema gli ha suggerito idee importanti, alcuni dei quali basati solamente su seri e accurati studi del lessico (non bisogna mai dimenticare che Tolkien era la persona più preparata del mondo in questa materia).

Ho già accennato in precedenza a uno di questi modi: potrebbe essere una coincidenza, ma probabilmente non lo è, che sia il Beowulf sia Il Signore degli Anelli usino la parola hæðen, o heathen (“pagano, idolatra”, in relazione a esseri umani), esattamente due volte. L’uso di questa parola implica naturalmente che l’utilizzatore sia un Cristiano, ma essa possiede anche un inevitabile senso dispregiativo. Il poeta del Beowulf era consapevole del fatto che i suoi antichi personaggi dovevano essere pagani (così pensava Tolkien) ma non voleva condannarli per questo: quindi, pur usando la parola heathen per descrivere Grendel e il tesoro del drago, due volte in ciascun caso, evitò deliberatamente di utilizzarla riferendosi a delle persone, fatta eccezione per quelle due volte in cui si nota una crepa nella facciata. Nel verso 179 il sacrificio agli idoli viene bollato come hæÞenra hyht, “speranza dei pagani”, mentre al verso 1983 la zia di Beowulf, Hygd, porta la coppa hæðnum to handa, “alle mani dei pagani”, ossia a Beowulf e ai suoi parenti. Nel secondo caso, però, qualcuno ha cancellato la seconda lettera della parola hæðnum in un apparente segno di disapprovazione o tentativo di correzione. Nel 1936 Tolkien riteneva che il primo caso potesse trattarsi di una contraffazione, completamente diversa da quanto aveva realmente scritto il poeta. Eppure è strano che Il Signore degli Anelli, proprio come il Beowulf, in generale eviti accuratamente di definire pagani i suoi personaggi, malgrado essi debbano esserlo, ma con due eccezioni, ancora una volta esattamente come il Beowulf. Denethor, uccidendosi e portando con sé il figlio Faramir, dice infatti: «arderemo come facevano i re pagani» (SDA RR.V.IV, t.n.);12 e Gandalf, rimproverandolo, ripete all’incirca le stesse parole: «solo i re pagani, schiavi dell’Oscuro Potere, si comportavano in questo modo, suicidandosi in preda all’orgoglio e alla disperazione, assassinando i loro cari per facilitare la propria morte» (SDA RR.V.VII, t.n.).13 Tolkien potrebbe essere giunto a pensare che le due eccezioni del Beowulf non fossero errori, bensì casi da imitare: in entrambe le opere si può vedere un autore cristiano che guarda a personaggi pagani virtuosi, o non proprio pagani, posti in secondo piano o contrapposti ai personaggi principali, con un paganesimo, reale e assolutamente non virtuoso, solo vagamente percepibile perfino in un remoto passato.

Tolkien potrebbe aver inoltre tratto dal Beowulf anche un suggerimento su come trattare la difficile negoziazione tra cristiani e pre-cristiani: un suggerimento che riguarda i Valar. Come è già stato fatto notare, quando Tolkien iniziò a scrivere dei Valar nei Racconti perduti essi somigliavano molto alle divinità dei pantheon pagani norreno, celtico e classico. Col passare del tempo, Tolkien smussò sempre più questo effetto, poiché la comparsa di vere divinità avrebbe contraddetto il Primo comandamento. Giunti al periodo in cui fu composto il Silmarillion, i Valar erano diventati decisamente subordinati all’Uno ma, in quanto semidivinità, potevano comunque essere accettabili nell’opera di un autore cristiano? Probabilmente Tolkien si consolava con il pensiero che il poeta del Beowulf si fosse posto lo stesso dilemma prima di lui, giungendo a quella che poteva essere una soluzione simile. All’inizio del poema, il popolo danese è in lutto perché ha perso il proprio re: Scyld Scefing era arrivato tra loro sulle onde in un modo miracoloso, aveva riordinato il regno ed era morto. Il suo popolo lo pone quindi, in vero stile pagano, su una barca carica di tesori e la affida alle onde, come se essa possa riportarlo nel luogo da cui era giunto. Con un tipico eufemismo inglese, il poeta dice che i Danesi «non gli lasciarono doni minori […] di quelli che gli avevano procurato coloro che lo avevano inviato all’inizio». Chi sono “coloro”? Il poeta non offre altri indizi, anzi in effetti nega di conoscere la risposta, ma non ci sono dubbi riguardo alla parola “coloro”, Þá in antico inglese. Questa parola è utilizzata 62 volte in varie parti del poema, ma questo è l’unico passaggio in cui viene evidenziata da un’allitterazione, come se il poeta avesse voluto farla notare: avrebbe potuto scrivere “Lui” e attribuire il miracolo a Dio ma, per chissà quale ragione, preferì attribuirlo a un misterioso gruppo di esseri in possesso di poteri sovrannaturali e pronti a usarli, in rare e selezionate occasioni, per il bene dell’umanità. Le somiglianze con i Valar sono quindi molto forti.

È probabilmente già stato fatto notare che, per quanto Tolkien abbia letto il Beowulf molto attentamente, l’ha fatto non come critico letterario ma come filologo: la sua attenzione tendeva a essere attirata dai piccoli dettagli, spesso estremamente tecnici. Tuttavia, si può dire che uno degli aspetti migliori della filologia è il modo in cui anche il più piccolo dettaglio può spalancare vasti panorami di possibilità e, oltre a ciò, stabilire collegamenti naturali tra l’antico e il moderno o perfino con gli eventi della propria vita. Tolkien pensava certamente che questo fosse il suo caso e ciò deve aver rinvigorito ulteriormente quello che, in precedenza, ho definito un legame molto più stretto di quello puramente accademico. Di tutto ciò posso dare tre ulteriori esempi.

Il primo riguarda l’idea della “malia del drago”: Tolkien usa questa terminologia nell’ultima pagina dello Hobbit per descrivere il destino del Governatore di Città del Lago che «essendo di quella razza che prende facilmente certe malattie […] presa con sé la maggior parte dell’oro [di Smaug], fuggì, e morì di fame nel Deserto, abbandonato dai suoi compagni» (LH, XIX). La “malia del drago” è ovviamente l’avidità, ma una sua forma estremamente specifica, più passiva che attiva (infatti coloro che ne sono affetti preferiscono accumulare piuttosto che spendere e dar sfoggio della propria ricchezza) e strettamente legata all’amore per l’oro. Sebbene questa espressione sia usata riferendosi solo al Governatore, anche Thorin Scudodiquercia ne è chiaramente affetto, così come ovviamente lo stesso Smaug. La malattia sembra essere piuttosto contagiosa: Bilbo «non faceva i conti […] con il potere che esercita l’oro lungamente covato da un drago» (LH, XV; corsivo mio). Infine, Tolkien e Lewis riconoscevano questa malattia come uno dei vizi più caratteristici e meno riconosciuti dell’era moderna, ma le sue origini sono nel Beowulf e Tolkien ci stava meditando molto prima di scrivere Lo Hobbit. Nel 1923 Tolkien pubblicò una poesia intitolata “Iumonna Gold Galdre Bewunden” che, in tutte le sue versioni, segue le vicende di un tesoro che passa da un elfo, a un nano, a un drago, a un eroe e, in ciascuno di questi passaggi, riesce a corrompere e a tradire il suo possessore. Il titolo del poema è tratto dal verso 3052 del Beowulf e significa “l’oro degli uomini antichi, avvolto di incantesimi”: esso si riferisce al tesoro del drago, appena conquistato dall’eroe a costo della sua vita, e in questo contesto implica (anche se, come sempre accade quando si tratta del Beowulf, le interpretazioni sono controverse) che il tesoro potrebbe essere affetto da una maledizione o protetto da un incantesimo, come quelli che i nani solevano apporre ai tesori rubati ai troll, e che potrebbe o meno aver influito sulla decisione di combattere il drago da solo (Coraggio? Avventatezza? Avidità?).

C’è un’altra questione legata al tesoro del Beowulf che nasce dall’uso della parola searu e dei suoi vari composti. Ho già approfondito altrove questo argomento (Shippey 2005, pp. 247-248), per cui qui mi limiterò a dire che i significati a essa associati nel poema, e in altre opere in antico inglese, includono: “tesoro”, “armatura”, “abilità, in particolare quella della fabbro” e “tradimento”. All’apparenza tutti questi significati sembrano avere ben poco in comune e questa parola è regolarmente tradotta dai moderni esperti in modi diversi a seconda del contesto. Tolkien pensava però che in tutto ciò ci fosse una logica evidente e cercò di spiegarla inserendo tutti i possibili significati in un ritratto della psicologia nanesca, così com’è descritta all’inizio dello Hobbit: «l’amore per le belle cose fatte con le proprie mani, con abilità e magia» (LH I), una frase che si riferisce al tempo stesso agli oggetti preziosi, alle armature di mithril, agli oggetti artigianali e agli incantesimi e che, nel suo contesto, contiene già tracce di avidità, ferocia e gelosia, i germi della “malia del drago”.

Questa malattia non colpisce solo nani e draghi, come ha messo in chiaro la poesia di Tolkien in tutte le sue versioni del 1923, ma anche elfi e uomini. Il nome Saruman non è altro che la versione in antico merciano di searu-man e porta con sé le stesse implicazioni del suo uso nel Beowulf: prima di tutto l’astuzia, un «cervello fatto di metallo e d’ingranaggi», come dice Barbalbero (SDA, DT.III.IV); l’avidità e il desiderio come principali competenze; una lenta corruzione dei buoni propositi originali e, qui Tolkien ha fatto un’aggiunta ai significati attestati in antico inglese, l’odio per il mondo naturale, in particolare gli alberi. Tuttavia, Tolkien trasse questo ultimo significato dalla sua esperienza personale: è infatti risaputo che, durante la sua infanzia, Tolkien giocava attorno al mulino di Sarehole, dove venne spaventato dai due mugnai del posto, “l’Orco Bianco” e “l’Orco Nero”, e con il tempo vide scomparire il bucolico e idillico paesaggio del Worcestershire (com’era allora),14 inghiottito dalle industrie di Birmingham. Saruman scaturì dal mulino di Sarehole, centro di una forma di “malia del drago”. Ma cosa aveva a che fare il mulino di Sarehole con il Beowulf? E la prima parte del suo nome deriva veramente dalla parola searu-, o (nel Worcestershire) saru-? L’Oxford Dictionary of Place-Names suggerisce che la prima parte del toponimo possa essere un nome di persona oppure un antenato del moderno sere, che significa “grigio, appassito” in opposizione a “verde” riferito ai vegetali, e non avrebbe quindi nulla a che fare con tesori, mulini e macchine. Tuttavia, Tolkien avrebbe visto una connessione chiara e piena di significato: la “malia del drago” fa invecchiare e appassire chi ne è affetto allo stesso modo in cui egli distrugge il proprio ambiente. Gli spunti derivanti dal Beowulf potevano essere quindi perfettamente applicabili al mondo moderno e nella letteratura di Tolkien conobbero un esteso sviluppo.

Lo stesso si può dire per un’altra parola che compare nel Beowulf: sceadu, shadow (“ombra”) in inglese moderno (le due parole si pronunciano quasi allo stesso modo, malgrado la diversa compitazione). Nel Signore degli Anelli Tolkien la usa spesso con la lettera maiuscola, trasformandola in the Shadow (“l’Ombra”) e utilizzandola come abbreviazione per indicare il potere di Mordor. C’è una sorta di sfida in questo utilizzo, poiché di fatto le ombre non esistono (di certo sono un’assenza più che una presenza) e qualcuno potrebbe dire che, di conseguenza, non possono avere alcun potere. Tuttavia, il poema in antico inglese Solomon and Saturn pone l’enigmatica domanda: «Quali cose inesistenti esistevano?», e l’altrettanto enigmatica risposta è «le ombre», come se il poeta credesse che esse potessero essere sia assenza sia presenza (Shippey 1976, p. 94). È questo il caso del Signore degli Anelli: si confronti «Nella terra di Mordor, dove giacciono le Ombre» (SDA, CA.I.II, t.n.) nella poesia degli Anelli con, l’ancor più sinistro, «A Mordor, dove vi sono le Ombre» (SDA CA.I.XI) nella “Caduta di Gil-galad” cantata da Sam. Le ombre sono come gli spettri: ci sono ma non ci sono, sono morti ma non morti. Questa sinistra idea è suggerita, ancora una volta, da due difficili passaggi del Beowulf. Ai versi 705-707 il poeta dice riguardo a Beowulf e ai suoi seguaci che attendono a Heorot l’arrivo di Grendel, il mangiatore di uomini:



þæt hie ne móste,

se synscaþa

þæt wæs yldum cúþ,

þá Metod nolde,

under sceadu bregdan.

«Era noto agli uomini che, quando non era volontà di Dio, non era permesso all’empio predatore di trascinarli nell’ombra». Cosa significa «trascinarli nell’ombra»? E ancora più importante: malgrado il poema sembri voler essere rassicurante, non lo è affatto. Infatti, a Grendel non era permesso di trascinare nell’ombra gli uomini solo se questa non era la volontà di Dio e ciò implica che, in alcuni casi, questa potesse essere la volontà di Dio, come era successo in precedenza nel caso di Grendel e come è esperienza comune a tutti. Nel Beowulf l’“ombra” è un potere e potrebbe perfino essere un potere fisico e realmente esistente. Nel verso 650 re Hrothgar lascia il suo palazzo perché sa che, con il calare della notte, scaduhelma gesceapu scriðan cwóman, cioè letteralmente “forme di elmi d’ombra giungevano a grandi passi”. I traduttori trattano questa frase in modi diversi, optando spesso per qualcosa di simile a “con il favore delle tenebre” per spiegare o parafrasare l’espressione “elmi d’ombra”. Tolkien pensava invece che i poeti anglosassoni solitamente intendevano proprio ciò che dicevano: “elmi d’ombra” è infatti parte della sua descrizione degli Spettri dell’Anello. Ma ancora più importante è la compresenza, nello stesso verso del Beowulf, di shape (“forma”) e shadow (“ombra”). Infatti le ombre diventano mortalmente pericolose quando prendono una propria forma, passando dall’essere assenza all’essere presenza, e tutto ciò è ancora una volta parte fondamentale dell’immagine degli Spettri dell’Anello creata da Tolkien: unica, originale e inimitabile, ma allo stesso tempo dotata di solide radici nel lessico degli antichi poemi.

Il mio ultimo esempio è sfuggito per molto tempo alla mia attenzione, malgrado un evidente indizio avuto da Tolkien stesso. Nel suo fin troppo trascurato Finn and Hengest Tolkien prende in considerazione la relazione fra “L’episodio di Finnsburg” del Beowulf, il racconto di un poema che si dice venga cantato nel palazzo di Hrothgar dopo la sconfitta di Grendel, e il Frammento di Finnsburg, un frammento sopravvissuto di circa cinquanta righe facente parte di un poema indipendente anglosassone che tratta lo stesso argomento. La spiegazione di Tolkien dei due scritti è complicata e segue una linea completamente diversa da quella della sua conferenza del 1936, ma si concentra sugli eroi Hnæf, Hengest e l’eroe degli Iuti Gárulf, descritto nel Frammento come déormód hæleÞ, “eroe veemente”. Il secondo eroe è entrato nella storia come il leggendario fondatore del Kent e dell’Inghilterra, sempre che lo Hengest del poema fosse il leggendario Hengest, come Tolkien pensava. Hnæf è stato quasi completamente dimenticato, mentre Gárulf è raramente ricordato o citato perfino dagli studiosi di antico inglese. Tolkien riteneva invece che essi avessero forti punti di contatto con il suo ambiente e con la sua vita personale. Il toponimo Hinksey, appena fuori Oxford, è descritto nell’Oxford Dictionary of Place-Names come derivante da hengestes-leg, “l’isola dello stallone”, ma Tolkien pensava che avrebbe potuto derivare altrettanto facilmente dal nome dell’antico eroe. Inoltre, riteneva che il nome Hnæf sopravvivesse nel cognome “Neave”, portato da sua zia Jane Neave che viveva a Bag End. Il paese di zia Jane nel Worcestershire è Darmston, che l’Oxford Dictionary of Place-Names fa derivare senza dubbi dall’antico inglese Déormódes-tún, “dimora di Déormód”. In questo caso Déormód è un nome proprio, mentre nel Frammento di Finnsburg è usato come aggettivo per descrivere Gárulf. Tuttavia, in antico inglese nomi propri e aggettivi sono difficili da distinguere (gli Anglosassoni non usavano le maiuscole come facciamo noi) e la storia dei poemi in antico inglese, specialmente nel caso del Beowulf, è piena di casi incerti, dibattuti o non riconosciuti.

Durante il suo ultimo anno di vita, Tolkien menzionò diverse volte i casi di Hinksey e Neave nelle nostre conversazioni , ma non nominò mai Darmston. Tuttavia, è quasi certo che cercò questo nome in The Concise Oxford Dictionary of English Place-Names (i nomi sono probabilmente l’argomento che più a lungo lo ha affascinato) ed è anche estremamente probabile che egli abbia notato il nesso con il Frammento di Finnsburg. Cosa pensasse di questo caso particolare non mi è noto ma, in generale, ritengo che la sua conclusione riguardo questi casi di continuità tra la poesia antica e la vita moderna sia perfettamente chiara. Tolkien pensava infatti che gli eroi dell’antichità non fossero scomparsi ma fossero ancora presenti: nel paesaggio, nei nomi e, probabilmente, nel patrimonio genetico. Questi eroi, così come i poemi che parlavano di loro e i concetti che essi incarnavano, potevano non essere più molto noti e riconosciuti, ma almeno le idee erano ancora vive, forti e parte integrante dell’esperienza personale di Tolkien così come di molte altre persone, se solo fossero state in grado di capirlo. Per quanto riguarda il Beowulf, esso incarnava molta più saggezza ed era molto più significativo di quanto perfino gli studiosi avessero mai compreso, e quella saggezza e quei significati potevano benissimo essere proposti, e capiti, a un pubblico del XX e XXI secolo. In effetti, la saggezza contenuta nel poema può essere trascurata dalle persone solamente a loro rischio e pericolo, e la profondità della comprensione di Tolkien di quel tipo di saggezza suggerisce, per usare una frase già usata in due occasioni, un legame molto più stretto, tra lui e il poeta, di quello meramente accademico, anche se quel legame non si potrebbe definire innato o ereditario.


[ Traduzione autorizzata di Cristina Arnaboldi a cura di Alberto Ladavas]



BIBLIOGRAFIA


  1. Opere di J.R.R. Tolkien

Lettere: La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, a c. di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien, Bompiani, Milano 2004.

MF: Il Medioevo e il fantastico, a c. di Christopher Tolkien, Luni Editrice, Milano-Trento 2000.

MR: Morgoth’s Ring, a c. di Cristopher Tolkien, HarperCollins, London 1993.

SD: Sauron Defeated, a c. di Christopher Tolkien, HarperCollins, London 1992.

SDA: Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2003.

SF: “Sulle fiabe”, in Albero.

Albero: Albero e foglia, Rusconi, Milano 1976.


  1. Altre opere

Bratman, David (1999), “Tolkien and the Counties of England”, Mallorn 37, pp. 5-13.

Drout, Michael C. (2002) (a c. di), J.R.R. Tolkien: Beowulf and the Critics, Medieval and Renaissnace Texts and Studies 248, Arizona Center for Medieval and Renaissnace Studies, Tempe.

Kroesen, R. (1982), “The Enmity between Thorgrímr and Vésteinn in the Gísla saga Súrssonar”, Neophilologus 66, pp. 386-390.

Shippey, Tom – Haarder, Andreas (1998), Beowulf: The Critical Heritage, Routledge, London and New York.

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Shippey, Tom (1978), Beowulf, Edward Arnold, London.

Shippey, Tom (2005), La via per la Terra di Mezzo, Marietti 1820, Genova-Milano.

Shippey, Tom (2005d), “The Merov(ich)ingian Again: damnatio memoriae and the usus scholarum” in Andy Orchard (2005) (a c. di), Latin Learning and English Lore: Essays in Honor of Michael Lapidge. University of Toronto Press, Toronto, pp. 389-406.


1Questo saggio è nato come conferenza tenuta, su invito, alla Truman State University, Missouri, il 30 marzo 2001. Ringrazio la Dott.ssa Christine Harker per avermi dato la possibilità di intervenire e di sviluppare alcuni concetti.

2La saga di Gísli figlio di Súrr, a c. di Gianna Chiesa Isnardi, Jaca Book, Milano, 1985. (N.d.C.)

3In una lettera a un interlocutore cattolico, Tolkien fornisce un’ulteriore prudente difesa della reincarnazione come possibilità per «alcuni tipi di creature razionali incarnate» (Lettere, n. 153).

4Il saggio è disponibile in italiano nel volume MF. (N.d.C.)

5Finn and Hengest: The Fragment and the Episode, a c. di Alan Bliss, George Allen & Unwin, London 1982. (N.d.C.)

6Shippey-Haarder 1998, pp. 1-2.

7Personalmente penso che Tolkien avesse ragione e che sia l’opinione moderna a essere errata, per ragioni in parte esposte in Shippey 2005d.

8È appena stato scoperto, si veda il resoconto di Tom Christensen sui più recenti scavi a Niles, ma Tolkien era sicuramente a conoscenza di ritrovamenti simili.

9Il toponimo è stato reso nell’edizione italiana del SDA con Clivovalle. (N.d.T.)

10Per una discussione di questo argomento di studio si veda Shippey 1978, pp. 12-14.

11Meduseld è il palazzo di Théoden, mentre Edoras è il nome delle corti e degli altri edifici che lo circondano (si veda SDA, DT.III.VI). Anche quest’ultimo nome è stato creato aggiungendo una maiuscola a una parola del Beowulf, questa volta presente al verso 1037, cambiandola leggermente dalla sua forma in sassone occidentale a quella in merciano. Come accade spesso, Tolkien rende più chiaro il significato di parole appartenenti ad antichi poemi integrandole all’interno dei suoi racconti.

12L’attuale edizione italiana del SDA riporta una traduzione errata: «arderemo come facevano i re primitivi». (N.d.C.)

13Nuovamente, l’attuale edizione del SDA riporta una traduzione errata: «Solo i re schiavi dell’Oscuro Potere si comportavano nella loro empietà in questo modo […]». (N.d.C.)

14Oggi è nel Warwickshire, solamente perché il confine della contea fu modificato nel 1911 (vedi Bratman 1999).