Una riserva di saggezza’: i proverbi in Tolkien1


di Tom Shippey


(traduzione di Valentina Fatichenti)



Non dovrei sorprendere nessuno affermando che Tolkien si interessò fin dalla più tenera età in generi letterari piuttosto inaspettati. Uno di questi erano le ninne nanne: riscrisse ‘Il Gatto e il Violino’ e ‘L’uomo della Luna’ pubblicandoli in maniera indipendente come poesie, rielaborando il secondo nella scena del Puledro Impennato de Il Signore degli Anelli. Un altro genere furono gli indovinelli: scrisse gli ‘Enigmata Anglo-Saxonica Nuper Inventa Duo’, o ‘Due Indovinelli anglo-sassoni di Recente Scoperta’ negli anni ’20, ancora una volta rielaborando ed espandendo un po’ di questo materiale ne Lo Hobbit, qualche anno più tardi. Un terzo sono le fiabe e non c’è bisogno di dilungarsi sull’interesse, accademico e creativo, che Tolkien nutrì per esse. Il quarto furono i nomi, sia quelli di luoghi che quelli di persone. Mi azzarderei a dire che Tolkien non ha mai smesso di pensare a questo genere. Non poteva posare lo sguardo su un cartello stradale o su un registro del telefono senza mettersi a riflettere sull’etimologia del nome. La sua capacità di inventare nomi è palese ne Il Cacciatore di Draghi, Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion e in qualsiasi altra sua opera, eccetto, stranamente, Lo Hobbit.

La prima domanda che mi faccio è: che cosa collega questi generi così diversi fra loro? E mi rispondo: sono tutti generi che io chiamo ‘sopravvissuti’. Nell’epoca moderna essi esistono in una forma perfettamente familiare, quotidiana. Ma c’è ogni evidenza che siano anche molto antichi. Ci riportano quindi a una sorta di continuità fra l’antico e il moderno alla quale Tolkien dava estrema importanza, nonostante sia molto poco accademica (che gli accademici in realtà raramente prendono in considerazione, e tantomeno studiano). In effetti tutti questi generi sono diventati déclassé. Sono stati accantonati, come le fiabe e le ninne nanne, come mero patrimonio dei bambini e delle nonne - Jacob Grimm chiamò queste ultime ammen und spinerinnen, ‘nonne e zitelle’2 - e si ha l’impressione che tali nomi abbiano perso il significato di un tempo. Ma per alcuni, questo le rende particolarmente preziose. Cose che sono note per essere prive di valore, o significato, restano pure.

Sono come i testi sopravvissuti della poesia anglosassone, di valore immenso, dimenticati in biblioteche di second’ordine e disorganizzate, utilizzati come taglieri o poggia bicchieri e perciò non conservati ma gettati via da bibliotecari furbi in cerca di maggior spazio da utilizzare per pubblicazioni permesse dal governo. Tolkien, come altri filologi, aveva un occhio di riguardo per i generi sopravvissuti e dava molta importanza alle informazioni sul passato che essi contenevano, che contribuivano (in un modo o nell’altro) a rendere importante per il presente.

Ciò che intendo dire è che c’è un altro genere sopravvissuto che Tolkien teneva in grande considerazione: si tratta dei proverbi, o massime, o saggi consigli. Questi sono anche patrimonio di un sapere comune, molto comune. Sono spesso tanto antichi quanto la nostra conoscenza della lingua inglese, o persino di più. Uno dei proverbi a noi più familiari, e anche il più antico, è - e mi piace pensare che sia di matrice prettamente inglese dato il suo sprezzo per la retorica - un gesto vale più di mille parole, o, in anglosassone, weorc sprecað swiþor tþonne þa nacodan word, þe nabbað nane fremminge: le opere dicono di più che le nude parole, che non vanno molto lontano.3 (Probabilmente il detto ha più impatto nella sua forma anglosassone poiché ‘funzionain quella lingua e le parolehanno un suono simile tra loro ed una struttura grammaticale affine - entrambe sostantivi neutri senza inflessione al plurale).

Ora, gli accademici non si occupano molto dei proverbi in antico e medio inglese per ragioni che potrei spiegare ma con le quali non mi trovo d’accordo, ed è un peccato.4 Effettivamente esistono due raccolte estese di proverbi in antico inglese, I Proverbi di Durham e I Distici di Catone e molte raccolte in medio inglese, delle quali le più importanti sono I Proverbi di Alfred, I Proverbi di Hendyng e Il Catone in Medio Inglese. Ce ne sono due anche in norreno - il famoso Hávamál dall’Edda poetica e lo Hugsvinnsmál, un altra opera che deve qualcosa a Catone.

E ci sono poesie antiche composte unicamente da proverbi, come il Poema Morale in medio inglese e il Málshattakvæði in norreno. Contengono molto materiale sul quale studiare, il contenuto è piuttosto enigmatico ma potenzialmente molto utile, tuttavia non è stato mostrato alcun interesse al riguardo. I proverbi, come gli altri generi sopravvissuti citati, sono déclassé, e lo sono stati per centinaia di anni. “L’uomo alla moda non ricorre mai ai proverbi”, diceva Lord Chesterfield, arbitro del buongusto del diciottesimo secolo.

Un moderno studioso assume esattamente lo stesso tono di sufficienza: “Poiché i proverbi possono essere applicati alla maggior parte della situazioni, in realtà non possono essere applicati a nessuna situazione.”5 I Proverbi sono triti, ovvi, tutti li conoscono, sono generali, non particolari, non mostrano alcun interesse nel mot juste, banali, sub-letterari e, infine, appartengono alle classi inferiori. Dai tempi di Don Chisciotte e Sancho Panza è l’aiutante, il tirapiedi di bassa lega che usa i proverbi. Il Tonto più che il Cavaliere Solitario. Come dicevo, sono proprio come fiabe.

Potrei confutare senza problemi questa opinione pseudo scientifica, ed è ciò che farò. Di seguito due proverbi anglosassoni, che ho tradotto il più fedelmente possibile parola per parola dalloriginale.6 Le parole sono perfettamente familiari ma riuscite a capire che cosa vogliono dire?



Colui che desidera abbattere il cervo

non deve piangere per la perdita del cavallo.



Non è troppo difficile decifrare la metafora: il proverbio sta a significare qualcosa del tipo che se vuoi raggiungere un risultato non devi crucciarti del prezzo da pagare. In effetti, non puoi fare la frittata senza rompere le uova. Ma proviamo questaltro, e prestiamo attenzione al fatto che in antico inglese fæt significa tino, contenitoreo tazza.



Più pieno il contenitore (fat), più importante lo sforzo.



Siamo in grado di comprendere limmagine ma che cosa ci comunica? Siate più attenti con ciò che è più prezioso? Io preferisco unaltra spiegazione: una tazza piena è difficile da trasportare senza farne traboccare il contenuto, ma non è un compito impossibile, non dobbiamo quindi lamentarci di unimpresa ardua, ma semplicemente metterci più impegno. Mi piacerebbe vedere questa frase scritta allentrata principale di ogni università. Un altro esempio di sapienza dei nostri antenati, e nemmeno il più enigmatico:



È un buon anno quando il segugio fa un dono al corvo.



Credo - anche se ci vorrebbe troppo tempo a spiegare le mie ragioni - che questo sia lesempio opposto del nostro ordinario a caval donato non si guarda in bocca. Significa guardare sempre la bocca del caval donato, anzi, contarne anche i denti!Forse occorre un certo tipo di mentalità per apprezzare il significato e il senso dellumorismo dei proverbi, che possono essere anche molto tetri. Questo è particolarmente vero per i buoni proverbi (ed è ciò che Lord Chesterfield ed i suoi successori così alla moda non sono riusciti a riconoscere) che essi possiedono un significato apparente che è assolutamente banale, trito e ovvio ed una verità spesso dura e difficile da accettare nascosta in profondità. Ne citerei uno che mi insegnò mio padre:



Un podi dolore non ha mai fatto male a nessuno.



Mi domando ancora se si sia mai reso conto che fosse un totale paradosso, poiché apparentemente non ha nessun senso dato che il dolore fa male. Ma egli lo intendeva proprio così e, nel modo in cui lo intendeva ha perfettamente senso.

Che cosa pensava Tolkien dei proverbi? Chiaramente li considerava molto divertenti, a giudicare da Sunny Sam, il fabbro de Il Cacciatore di Draghi, che con i suoi giudizi tetri (‘Nessuna notizia è una buona notizia’ o ‘un verme non ritornerà’; Reader 167, 159). In entrambe le frasi è presente un’ironia che si basa sul fatto che i proverbi vengono spesso invertiti o alterati nel significato per adattarsi al contesto, ma non mi dilungherò in spiegazioni. Preferirei ricordare Bilbo, sperduto nel tunnel dei Goblin - ma non privo di risorse come potremmo esserlo noi poiché “gli hobbit non sono esattamente simili alla gente normale […]: hanno una riserva di saggezza e di proverbi di cui gli uomini, per lo più, non hanno mai sentito parlare o di cui si sono dimenticati da lungo tempo” (Lo Hobbit, 118).

Vorrei aver letto più frasi del genere ne Lo Hobbit. D’altra parte c’è una scena in cui un proverbio viene addirittura inventato. Bilbo, ustionato dall’esplosione provocata da Smaug, dice a se stesso, “‘Non farti mai beffe di un drago vivo’ […] e questa divenne una delle sue frasi preferite più tardi, e diventò proverbiale.” (Lo Hobbit, 284). Per metterlo in termini accademici, ciò che dice Bilbo era in origine un Denkspruch, creato da una sola persona, rilevante ad un contesto ed ovvio a livello letterale. Ma diventa uno Sprichwort, un proverbio, un patrimonio comune, con il suo significato palese convertito in metafora e perciò reso universalmente applicabile, proprio come, forse, ‘Non si piange sul latte versato’ o ‘non svegliare il can che dorme’. A volte può capitare di incappare in proverbi simili, come quello che ho sentito pronunciare al giocatore di golf Lee Trevino:



Si deve danzare con chi si porta al ballo.



Questo non ha certo bisogno di spiegazioni.7

Se i proverbi sono piuttosto rari ne Lo Hobbit, tuttavia sono molto frequenti ne Il Signore degli Anelli. Ho redatto una lista che ne comprende settanta, anche se non è sempre possibile capire che cosa sia un proverbio e che cosa invece non lo sia, e questo è un discorso applicabile sia a Tolkien che ai testi antichi dai quali ha preso in prestito questa abitudine. Qualcuno di più competente in materia potrebbe trarne conclusioni importanti.

Se dovessimo mai vedere un Signore degli Anelli Annotato sulla scia de Lo Hobbit Annotato di Douglas Anderson, credo che potremmo sperare di vedere quei commenti a margine che Anderson ha fatto pertutti gli enigmi del capitolo 5 de Lo Hobbit e - chi lo sa? - potremmo anche trarre alcune conclusioni, come quella che possiamo dedurre dalle annotazioni in quello stesso capitolo: ovvero, che tutti gli enigmi di Gollum hanno origini antiche, mentre quelli di Bilbo possono essere ritrovati in opere come Lingue e Folklore per Bambini di Opies8, poiché, come ho già detto, gli indovinelli sono diventati déclassé.

Ma non è colpa degli indovinelli. Il fatto che Bilbo e Gollum si capiscano, come Gandalf stesso afferma più tardi ne Il Signore degli Anelli - “Avevano un’infinità di cose in comune nel modo di pensare e di ricordare […] Pensa a tutti gli enigmi che ambedue conoscevano” (88), indica esattamente quel genere di continuità fra antico e moderno che Tolkien considerava letterariamente autentico in Inghilterra, e molto prezioso. Gli hobbit, potremmo dire, sono specie sopravvissute, come i proverbi sono un genere sopravvissuto.

I circa settanta proverbi de Il Signore degli Anelli ci dicono molto delle diverse società e persone che li producono, tuttavia credo che, alla fine, ci sia un nucleo di saggezza proverbiale comune pensato per suonare tradizionale, che in realtà è una creazione originale di Tolkien. Poiché tali proverbi sono condivisi da personaggi che, nonostante le loro differenze, concordano luno con laltro, sono del parere che questa intuizione sia non soltanto illuminante, ma effettivamente vera: il nucleo proverbiale è assimilabile al nucleo strutturale dellopera, ed esprime in una forma molto condensata ciò che potremmo considerare (sebbene a Tolkien laggettivo non sarebbe piaciuto) il suo nucleo ideologico. Allo stesso tempo questo nucleo proverbiale, come lo chiamo io, non è esattamente come un nucleo, poiché si disperde in tre volumi e si confonde con altri detti molto simili che arrivano da ogni direzione. Mi sembra che questo modo di procedere sia tipico di Tolkien quando intende comunicare un’”ideologia, o un modo di vedere il mondo: come la magia a Lothlórien, non si è sicuri di dove sia ma Si può vedere e sentire ovunque(SdA, 447).

In fondo alla scala dei proverbi c’è un personaggio comico, i cui proverbi corrispondono all’opinione che gli accademici hanno di essi - banali, triti, ovvi, eccetera. Il personaggio in questione si chiama Omorzo Cactaceo, ed è caratterizzato da una sfilza dei più piatti cliché: “non piove mai, diluvia soltanto” (il che è straordinariamente falso sul piano letterale in Inghilterra, la terra dell’eterna pioggerellina - ma ciò non impedisce alla gente di continuare a dirlo). Un’altra gemma alla Cactaceo è “una cosa caccia l’altra”, seguito a ruota da “quel ch’è fatto è fatto e non c’è modo di tornare indietro” (che tanto per cambiare è straordinariamente vero sul piano letterale, ma naturalmente non ha alcuna utilità pratica).

La caratteristica prettamente fastidiosa di Cactaceo è di presentare questi detti familiari con l’aria di uno che riveli segreti esoterici: “come diciamo qui a Brea.” Gli altri personaggi cominciano presto a farne la parodia: Grampasso dice poco più tardi che “ogni piccolo aiuto può esser utile” e Pipino si unisce a lui aggiungendo “Ma da noi nella Contea si dice che bello è chi fa la bella vita”, cosa che più tardi ripete anche Sam (vedi SdA; per Cactaceo, 225, per Grampasso, 227, per Pipino, 750 per Sam).

In effetti la saggezza della Contea è molto più simile a quella di Brea di quanto ci potremmo aspettare. Sam dice “vivi e impara” e, poco più tardi, “È il lavoro mai incominciato che impieghi più tempo a finire” (SdA, 430, 447) - sebbene quest’ultima abbia la qualità lievemente paradossale di “non ti fasciare la testa prima di essertela rotta”.

Sam ha imparato qualcosa anche da suo padre, Gaffiere Gamgee, che soddisfa uno dei miei criteri di “persona proverbiale”: ha abbastanza fiducia nella saggezza dei proverbi da poter alterarne parole e significati9. E così il Gaffiere dice, nel finale, il classico “È vento cattivo quello che non porta bene a nessuno” ma anche l’inusuale “tutto è Bene ciò che finisce Meglio”. Infine, Sam lo cita quando dice “finché c’è vita c’è speranza […] e necessità di vettovaglie, di solito aggiungeva” (1216, 845), in una variazione ironica e pessimista di un proverbio prettamente ottimista.

Mi piace anche l’innovazione di Pipino, che riutilizza una forma tradizionale, “Chi va piano va lontano” (SdA, 127). Ma la saggezza della Contea è espressa al meglio da Bilbo: cambia il “Non montatevi la testa” con l’egualmente accattivante “Fate che le vostre teste non diventino troppo grosse per i cappelli!”, nel tipico stile della Contea (SdA, 1176). La più significativa è la poesia che inventa, intitolata nell’indice “L’enigma di Grampasso”. È lunga otto versi e straordinariamente lineare: ogni verso è una frase a sé, così da apparire estremamente semplice. Ma combinare le frasi insieme è più difficile. Di seguito la poesia (SdA, 226):



Non tutto quel ch’è oro brilla,

Nè gli erranti sono perduti;

Il vecchio ch’è forte non saggrinza

Dalle ceneri rinascerà un fuoco,

Lombra sprigionerà una scintilla,

Nuova la lama ora rotta,

E re quei ch’è senza corona.



Direi che i primi quattro versi sono frasi proverbiali senza ombra di dubbio. Lo stesso non può dirsi per i successivi quattro, nonostante, come accade spesso quando si ha a che fare con i proverbi, non sia facile dare definizioni restrittive e fare distinzioni chiare. In poche parole, il primo verso è un’alterazione in forma proverbiale di un detto estremamente familiare, “non è tutto oro ciò che luccica”. Tuttavia qui il senso non viene stravolto come nel “Nessuna nuova è una cattiva nuova” di Sunny Sam (al posto di “Nessuna nuova è una buona nuova”): piuttosto si mette in evidenza la parte anteriore, quella che di solito nei proverbi viene ignorata. I tre versi successivi sono completamente differenti nella forma e nella struttura grammaticale superficiali, ma tutti possiedono un’identica struttura profonda che potremmo riassumere nel modo seguente: ‘mentre è comunemente accettato che generalmente X (essere oro, errante, vecchio, radice) è probabile che coinvolga Y (brilla, sono perduti, non s’aggrinza, non gelano), tuttavia, in casi particolari questo non accade.’

Potremmo anche spingerci più lontano e descrivere tale poesia come ‘anti-gnomica’, dato che se un detto gnomico (come alcuni hanno obiettato) è riconoscibile perché indica qualità essenziali - come il detto l’anglosassone ‘Il falco starà sul guanto […] il lupo nella foresta […] il drago nella tana’ ecc…10 - dobbiamo dedurre che la poesia anti-gnomica sia quella che indica le eccezioni. Ma la poesia di Bilbo è l’unico esempio che conosca di questo genere, che sarebbe teoricamente possibile ma molto raro.

Allo stesso tempo gli ultimi quattro versi si differenziano dai primi quattro. Sono tutti caratterizzati dal tempo futuro e non sono proverbi presumibilmente dato che sembrerebbero derivare da un altro genere sopravvissuto, ossia le profezie. Per di più, tendono ad assumere un significato specifico, con gli ultimi due versi dedicati a Andúril e Aragorn. Allo stesso tempo c’è una sorta di meta riflessione in loro che si potrebbe parafrasare, in maniera un po’ laboriosa, con ‘Sebbene in generale alcune cose (cenere, oscurità, ecc…) simboleggino la distruzione (del fuoco, della luce, ecc.), in certe circostanze, incluso la presente, che io, Bilbo, sto considerando, ciò non solo non è detto che accada, ma non accadrà di sicuro.’ E la parola sceal (pronunciata ‘shall’, che in italiano indica il tempo futuro, ndT) è molto comune nelle massime e nei detti in antico inglese, sebbene non abbia lo stesso significato che nell’inglese moderno.

Si potrebbe riassumere il tutto dicendo che la poesia di Bilbo si sposta dal generale e il proverbiale allo specifico e al profetico, ma lo fa per gradi, e un significato non esclude l’altro. Il primo verso, d’altra parte, è sicuramente proverbiale e può allo stesso modo essere applicato a Grampasso come a molte altre cose. Come la gente dice ancora sul valore universale dei proverbi, ‘Se il cappello ti sta, indossalo!’. Da notare infine che la poesia viene definita anche come ‘enigma’. La poesia hobbit è, potremmo concludere, come gli hobbit stessi, più complessa di ciò che appare: sciolto volto, pensieri stretti (ital. nell’orig., ndT), potrebbe essere il loro motto. Lo stesso Gandalf sottolinea questa loro dualità.11

Le altre culture della Terra di Mezzo hanno naturalmente i loro stili proverbiali, sebbene qui possano essere trattati solo di sfuggita. I Nani possiedono uno stile piuttosto cupo e arcaico, che ben si confà alla loro nota abitudine di non parlare troppo. Da notare come al Consiglio di Elrond lunico personaggio presente che non parli mai è Gimli che, tuttavia, al momento di lasciare Granburrone dice, in risposta ad un lungo discorso di Elrond, Sleale è colui che si accomiata quando la via si oscura.Elrond replica sulla stessa linea metaforica: ma colui che non ha visto il calar della notte, non giuri di inoltrarsi nelle tenebre.Gimli ribatte con il poco compromettente Eppure il giuramento prestato può dar forza ad un cuore tremantecoronato da Elrond con può anche spezzarlo.(SdA, 354). Non conosco nessun detto antico che possa aver fatto da modello per queste frasi, ma la loro forma e gran parte del loro lessico proviene dallantico inglese.

Anche i Cavalieri di Rohan ricordano gli antico inglesi. Háma il guardiano, messo di fronte ad una scelta difficile, esclama “nel dubbio, un uomo di valore avrà fiducia nella propria saggezza” (SdA, 623), che a me pare una chiara interpretazione di un paio di versi da una situazione molto simile nel Beowulf, versi che sono stati dibattuto oggetto di discussione dai critici: æghwæþres sceal scearp scyldwiga gescad witan, worda ge weorca.12

Più in generale, la saggezza antico inglese è marcata da parole come ‘raramente’ e ‘spesso’, che nell’inglese odierno hanno il significato recondito di ‘mai’ e ‘sempre’. Théoden infatti dice “è raro che le notizie giunte da lontano corrispondano alla realtà” - proprio come le “notizie da Brea”, l’opposto di “sicure parole della Contea” (SdA, 625, 783). Aragorn, che ha prestato servizio con i Cavalieri e conosce il loro modo di esprimersi, sottolinea con ironia che “è raro che il ladro torni alla stalla” (SdA, 620); Éomer afferma che “spesso l’ospite non invitato si rivela il compagno più piacevole” (SdA, 650) e Théoden ricorda che “spesso il male si ritorce contro se stesso” (SdA, 721). Non ho trovato paralleli antichi per questi per il momento, ma nella forma essi mi ricordano alcuni esempi delle raccolte citate prima: c’è bisogno di ulteriori ricerche.

Lo stesso discorso vale per Aragorn, che dice due volte “è sempre lalba la speranza degli uomini(SdA, 652) e, in seguito, Nessuno sa che cosa gli porterà il nuovo giorno(SdA, 656 e gli fa eco Théoden con Le migliori decisioni sono quelle prese di mattina, poiché la notte trasforma molti pensieri(SdA, 961), e a sua volta Legolas, nella forma tradizionale in quattro battute unita allallitterazione e allo stile anglo-sassoni, Spesso il levar del sole porta consiglio(SdA, 526). Anche Gandalf partecipa allo stesso gioco di scambio dei proverbi con Théoden, rispondendo alCuore fedele può avere lingua ribellecon Dipure che ad occhi storti il volto della verità può apparire un ghigno(SdA, 635).

Potrei dilungarmi molto sui Cavalieri di Rohan, i più accaniti amanti dei proverbi nella Terra di Mezzo, ma il tempo e lo spazio mi costringono ad aggiungere soltanto due dettagli su di loro. Il primo: come gli indovinelli anglosassoni di Tolkien, i loro proverbi a volte sembrano i lontani e dimenticati antenati dei nostri, come nel caso della versione più poetica e allitterante che Éowyn dà del noto volere è potere: Dove vi è la volontà, nulla è impossibile(SdA, 966). Il secondo, persone come Éomer tendono a modificare i proverbi familiari come fa Gaffiere Gamgee, come accade per una frase che lo stesso Tolkien mi scrisse molto tempo fa, in quel caso con unallitterazione doppia e chiastica, n - l - l - n, Need brooks no delay, yet late is better than never(LotR, 817) (in italiano, La necessità non tollera attesa, ma è meglio tardi che mai, SdA, 1004; ndT). (Per lappunto, al termine del colloquio per ottenere la cittadinanza americana mi è stato chiesto di scrivere una frase per provare che sapessi scrivere in inglese ed io scrissi proprio quella, con un ironico riferimento agli anni che ci erano voluti per la conclusione di quel processo: lincaricato la rifiutò ritenendola grammaticalmente scorretta. Ma aveva torto, perché, come dice Théoden, Non bisogna scoraggiare un grande cuore(SdA, 1012). Inoltre mi ero preso la briga di farmi accompagnare dal mio avvocato.)

Devo infine sorvolare sulla saggezza elfica e gondoriana, come sul sapere degli Orchi, e giungere direttamente a quel che poco fa ho definito il cuore proverbiale de Il Signore degli Anelli.

Come abbiamo visto Tolkien utilizzava i proverbi come fonte di comicità, per mettere in piedi una scena o per indicare differenze culturali. Gli piaceva utilizzare proverbi tradizionali, modificarli aggiungendovi variazioni e realizzare versioni moderne di proverbi antichi e dimenticati. Se avessimo una versione annotata de Il Signore degli Anelli tutto questo ci apparirebbe molto più chiaro. I proverbi che ho citato riguardano i temi più disparati: trattano dell’apparire, dell’inevitabilità delle cose, del prendere decisioni, della determinazione e di lasciare che il tempo faccia il suo corso.

Avendo preso in considerazione tutto questo, resta un piccolo gruppo di proverbi nati dalla pura fantasia di Tolkien, recitati da personaggi diversi tra loro ma accomunati da un unico tema: quello dell’ignoranza, del non sapere. Il primo è di Gandalf quando nel capitolo ‘L’ombra del passato’, si rivolge a Frodo dicendo “nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze.” Frodo ricorda questa frase (senza le parole ‘i più’) quando riflette su cosa fare di Gollum in ‘Sméagol domato’ (SdA, 94, 745). Nel mentre Gandalf lo ha modificato aggiungendovi, ne ‘Il Concilio di Elrond’, “la disperazione è solo per coloro che vedono la fine senza dubbio possibile” (SdA, 339). Se nemmeno i più saggi possono conoscere tutti gli scopi significa che coloro i quali riescono a prevederli non sono saggi, e sono sicuro che Gandalf intendesse esattamente questo.

Nel mentre Legolas dice, ai confini di Fangorn, “Pochi possono prevedere dove li condurrà la via prima di essere giunti alla fine” (SdA, 600). Egli intende, nel contesto, che lui, Aragorn e Gimli sono arrivati alla meta dopo aver percorso una lunga strada, e che sarebbero potuti arrivare a Fangorn molto più facilmente se avessero lasciato il Grande Fiume due settimane prima, dirigendosi ad ovest: hanno perso tempo, in poche parole. Lui, Aragorn e Gimli sono sull’orlo della disperazione: Aragorn da un po’ di tempo si preoccupa di aver preso le decisioni sbagliate mentre Gimli ha un atteggiamento negativo da giorni. Chi ha presente la prima edizione del libro si ricorderà forse che in essa Aragorn perde effettivamente la pazienza dicendo a Gimli, quando questi gli domanda perché abbia guardato nel palantìr e parlato con Sauron: Cosa temi possa dirgli, che ho un Nano ribelle e furfante che scambierei volentieri per un Orco fedele?13 Nella versione successiva Tolkien taglia questa parte ma ritengo che avrebbe dovuto lasciarla, poiché la tensione fra i due è alta da un pezzo.

Il punto tuttavia è che Legolas utilizza questo proverbio per dire che hanno perso tempo ma, se il proverbio in sé è giusto, l’uso che ne fa Legolas è sbagliato. E poco più tardi Gandalf glielo fa notare, sottolineando il fatto che “i nostri nemici hanno semplicemente collaborato fra loro per far giungere Merry e Pipino, con straordinaria rapidità e al momento giusto, sin nella foresta di Fangorn, ove altrimenti non sarebbero mai venuti!” - e con conseguenze fortunate che neanche lo stregone è riuscito a prevedere (LotR, 606).

Gandalf ripete, “Strane sono le svolte del destino!” (LotR, 709),14 e Barbalbero gli fa l’eco, “le cose andranno come vorranno gli eventi” (SdA, 711).15 Aragorn torna indirettamente al fatto che Saruman abbia involontariamente condotto Merry e Pipino da Barbalbero quando afferma, riferendosi però a Sauron, “il colpo affrettato manca spesso il bersaglio” (SdA, 939). Gandalf è d’accordo e dice che “un traditore può tradire se stesso”, aggiungendo la nota esplicativa “e compiere del bene che non intende fare” (SdA, 979). Lo mette in maniera più spiccia e aforistica dicendo “Spesso l’odio si ritorce contro se stesso!” e “un’arma traditrice è anche pericolosa per la mano che l’impugna” (SdA, 709, 606).

Ciò che questi saggi personaggi ci stanno dicendo quindi è, come prima cosa, di non sottovalutare la tua fortunae, come seconda, anche il tuo nemico ha i suoi problemi.La morale di tutto ciò è perfettamente chiara e può essere riassunta da tre parole che mi furono dette da un signore nativo americano dellovest, non molto lontano da dove ci troviamo noi, ad Aston, circa quarantatré anni fa, quando mi sentivo un pocome Aragorn: Continua a colpire, amico.Ci spingeremmo forse un potroppo lontano se dicessimo ‘è questo il messaggio di Tolkien ne Il Signore degli Anelli, ma tant’è. Lasciate che finisca raccontandovi come io stesso interpreterei questa particolare vena di proverbialità alla struttura e, ancora una volta, l’’ideologiade Il Signore degli Anelli.

La struttura. È un aspetto che mi ha fortemente colpito quando ho guardato i film di epoca recente. Nei libri, una cosa è chiara, ed è che agire in conseguenza di ciò che si è visto in un palantìr è sempre disastroso - lo è per Saruman, Sauron e Denethor. Ciò che vedi nel palantìr corrisponde alla verità, poiché il palantìr non mente; tuttavia è normale trarre delle conclusioni errate: lo fa Sauron, ad esempio, quando ritiene prima che Saruman abbia catturato un hobbit (Pipino) e che quindi abbia lAnello e poi, che Aragorn sia in possesso della pietra di Orthanc e che quindi abbia lhobbit e lAnello. È per questo che lancia un attacco prematuro, Il colpo affrettato manca spesso il bersaglio(SdA, 939) e ancora più erroneamente concentra tutti i suoi sforzi nel difendere Mordor e il Sammath Naur. Guardare dentro il palantìr fa affondare ancor più Denethor nella disperazione (e qui stiamo ignorando laffermazione di Gandalf riguardo la disperazione citata sopra). Ho espresso anche in altri contesti16 la mia convinzione che ciò che Denethor vede nella Pietra il 13 marzo è Frodo nelle mani del Nemico, e qui sottolineerò soltanto il fatto che ciò è confermato pienamente dalle parole dello stesso Denethor: non a Gandalf ne Il Rogo di Denethor(quando afferma di aver visto la Flotta Nera avvicinarsi), ma a Pipino due capitoli prima: Il Nemico lha trovato(SdA, 989). Denethor commette lo stesso errore di Sauron: vede un hobbit nella Pietra e presuppone che, poiché i suoi oppositori hanno lo (o uno degli) hobbit, allora abbiano anche lAnello. Lidea sottintesa resta sempre la stessa: per citare le parole che Galadriel usa per definire il suo Specchio, “è una pericolosa guida delle nostre azioni(SdA, 450). Pericoloso lo è anche il palantìr poiché con esso persino i più saggi non possono prevedere tutte le conseguenze.

Senza voler elaborare troppo su questo punto, possiamo affermare che nei film la situazione è diversa: in essi i palantìri sono essenzialmente un mezzo di comunicazione, che in qualche occasione può rivelarsi piuttosto utile, in particolare nella scena 8 del terzo film (versione estesa del DVD), in cui a Pipino viene offerto uno sguardo nella mente di Sauron, che gli permette di identificare il luogo in cui egli scaglierà il suo attacco. Credo che questo accada a causa delle diverse possibilità narrative che un libro o un film possano offrire.17

Ciò che viene perduto comunque è il punto sul quale Tolkien continua a far leva: ovvero, che non si deve agire in base a ciò che pensiamo stia accadendo agli altri, o quello che pensiamo gli altri stiano facendo o stiano per fare. Non potremo che commettere errori poiché (e qui ripeto ancora una volta il proverbio) “persino i più saggi non possono vedere tutte le conseguenze” e tentare di prevedere le azioni degli altri può spingerci a dimenticare il nostro compito o cadere preda della disperazione. Gli ultimi due volumi de Il Signore degli Anelli costituiscono una serie di filoni separati, o trame, ognuno con un suo ‘fine’ e nessuno sa mai come l’uno condizionerà l’altro.

Ma alla fine c’è un disegno che è insieme giusto e imparziale e, aggiungerei, Provvidenziale. E questo, direi, è il nucleo ideologicode Il Signore degli Anelli. Esso ci racconta come funziona la Provvidenza, e la Provvidenza funziona attraverso le persone, con le loro diverse capacità e intenzioni. Le intenzioni, buone o cattive, si intrecciano grazie ad un Potere superiore. Tale Potere non condiziona il libero arbitrio, al contrario lo richiede, ma allo stesso tempo permette alle azioni compiute in piena libertà di intrecciarsi, in direzioni che nemmeno il più saggio può prevedere. È quindi il potere della saggezza conoscere i propri limiti.

Vorrei terminare presentando cinque tentativi di ricorrere ai proverbi fatti da personaggi diversi - la verità finale sta nel mezzo di tutti questi. Il primo è di Grìshnakh, lorco di Mordor, che dice (SdA, 557):



I piccoli non dovrebbero mai immischiarsi in affari troppo grandi per loro.



Il che è piuttosto falso. Sentiamo Aragorn, che di nuovo parla di fini(SdA, 540):



Certe cose, è meglio intraprenderle che rifiutarle, anche se il loro esito è oscuro.



Questo sembra avvicinarsi di più ad un vero e proprio proverbio. Tuttavia, non va dimenticato che non ci sono garanzie, e dovremmo ricordarci di Barbalbero (SdA, 475):



le canzoni, come gli alberi, portano frutti solo a tempo giusto ed a modo loro: e a volte avvizziscono anzi tempo.



Galadriel dice (LotR, 359):



Forse la via di ciascuno è già predestinata, anche se egli non se ne rende conto.



Suona piuttosto come una predestinazione. È forse una sfida al concetto di libero arbitrio? Forse dovremmo prendere in considerazione il fatto che, nonostante il sentiero sia già scritto, una delle particolarità delle strade e dei sentieri è che non sei costretto a percorrerli18 - e naturalmente, a differenza degli anelli, non girano in tondo ma si biforcano continuamente, come dice la canzone degli hobbit La via prosegue senza fine, che oltretutto ritorna sullidea che nessuno sia in grado di prevedere il futuro o il risultato di qualsiasi decisione. Da notare, comunque, Aragorn appena sopra. Per finire, un qualcosa di incontrovertibilmente corretto viene detto da Celeborn e mi riporta a quanto ho detto inizialmente sui generi sopravvissuti (SdA, 463):



potrebbe darsi che le nonne rammentino alcune cose che in passato i saggi era bene conoscessero.



Celeborn ha assolutamente ragione: Jacob Grimm sarebbe stato d’accordo con lui, Tolkien lo era ed io pure. I generi sopravvissuti sono importanti, e meritano molta più attenzione di quanta gli accademici abbiano loro riservato finora.



[traduzione autorizzata da Roots and Branches di Tom Shippey]

1Il presente studio è stato presentato per la prima volta il 12 agosto 2005 ad Aston, Birmingham, alla cinquantesima conferenza annuale organizzata dalla Tolkien Society.

2Grimm (1875-78, I: v-vi).

3Citazione dalla lettera di Ælfric al nobile Sigwerd, intitolata ‘Sul Vecchio e Nuovo Testamento’ in Crawford (1922: 74).

4Louis 1993 ha fedelmente compilato circa novanta pagine di riferimenti accademici, ma i risultati sono alquanto deludenti. Il suo sapere è di stampo prettamente novecentesco e in gran parte di origine europea continentale, quasi del tutto editoriale e impegnato a rintracciare testi e dare definizioni.

5Il noto studioso è Gabriel Josipovici: da notare l’uso prettamente in stile Saruman che fa della parola “nessuna”. Per riferimenti a questi (e altri) commenti, vedi Shippey, 1977.

6Sono, rispettivamente, i numeri 41, 42 e 6, in Arngart 1981.

7Si potrebbe pensare che invece di spiegazioni ne richieda tante. Vorrei aggiungere che sia all’apparenza che a livello letterale, tale modo di dire esprime una massima sull’etichetta: se si invita una signorina a ballare, è dovere di ognuno di ballarci. Ciò che voleva dire Trevino però era che devi giocare un torneo di golf con le capacità che hai già acquisito: non puoi esercitarti quando la competizione è già cominciata.

8Vedi Anderson (2002: 121-28).

9Sono dell’opinione che nella cultura orale i proverbi non vengano solamente ripetuti in maniera meccanica, con le stesse parole come facciamo oggigiorno - un’abitudine che ha contribuito alla loro moderna degradazione - ma che possano essere modificati per aderire a diverse situazioni, sebbene soltanto dalle persone che possiedono la sapienza necessaria e l’autorità per farlo. Tali persone sono “proverbie” più che proverbiali, come d’altra parte è anche il loro linguaggio. Vedi Shippey 1977.

10La ‘Lunga Lista degli Ent’ di Barbalbero è una poesia gnomica evidentemente basata sulla poesia in inglese antico Maxims II, vedi Shippey (1976: 12-15, 76-79).

11Tutto questo rende il commento di Josipovici citato al paragrafo quattro ancora più sciocco di quanto non apparisse inizialmente. Tolkien spesso affermava che i critici, allenati su quelle che sono essenzialmente tradizioni letterarie straniere, non erano bravi a cimentarsi con forme e generi tipici, come la poesia popolare e il fantasy. Peggio, erano soliti proiettare la propria inadeguatezza a quello che invece avrebbero dovuto studiare. Vedere, ad esempio, Nokes in Smith of Wotton Major, i critici in “Beowulf: the Monsters and the Critics”, e i ‘misologi’ in “Valedictory Address”.

12Clark Hall 1940: la traduzione, che vanta una prefazione dello stesso Tolkien, suona così (p.35): “Un difensore degno di tale nome, che sa giudicare le situazioni, deve saper distinguere fra parole e gesti.” Ma questo non ha senso. Qualsiasi sciocco sa giudicare la differenza fra i due: “un gesto vale più di mille parole” ce lo rammenta con semplicità. Nella versione di Tolkien la guardia in realtà sta dicendo “sfortunatamente a volte devi prendere una decisione basandoti soltanto su ciò che ti è stato detto.”

13Vedi Hammond e Anderson (1993:131).

14A cui aggiunge, “Spesso l’odio si ritorce contro se stesso” che riecheggia il “Spesso il male si ritorce contro se stesso” di Théoden, citato sopra. Tali proverbi hanno due caratteristiche in comune nella lingua proverbiale tradizionale: quello di Gandalf mostra una ‘para-rima’ (più evidenziata nel parlato che nell’ortografia) in ‘hate/hurt’ (‘odio’/‘si ritorce’, ndT) mentre Théoden oppone due frasi che appaiono uguali nella lunghezza e nell’accentatura ma sono differenti per grammatica: aggettivo (‘evil’, ‘male’) + sostantivo (‘will’, ‘volontà’) contrapposti a sostantivo (‘evil’, ‘il male’) + verbo (‘mar’, ‘si ritorce’). C’è inoltre uno scontro grammaticale anche in “will shall” (espressione grammaticalmente ridondante in inglese, ndT). I proverbi, come gli hobbit, sono più complessi di come appaiano.

15Riecheggiato dal “Il tempo ci porterà ciò che deve” di Elrond (SdA, 1135).

16Vedi Shippey (2004: 249-54), ripetuto con lievi aggiunte in Shippey (2005c: 423-9).

17Tolkien sembra negare questa idea (Lettere, 270) che “I canoni dell’arte narrativa sono pressoché uguali, qualsiasi sia il mezzo utilizzato.” Possono, tuttavia, essere piuttosto diversi e la differenza è stata nel complesso accresciuta dalla tecnologia moderna, sulla quale Tolkien non poteva fare alcuna previsione.

18Sebbene Gandalf affermi prima che “bisogna percorrere il sentiero scelto dalla necessità” (SdA, 372). I proverbi, come gli elfi, dicono sia no che sì (SdA, 123). Ma è perché hanno a che fare con problemi difficoltosi, e quando sono utilizzati in maniera appropriata sono sensibili al contesto.