La Marcia degli Elfi

Laddove le stelle tramontavano (prima parte)



di Alex Lewis


(traduzione di Adriano Bernasconi)



Un mormorio ed un brusio spaventato si levarono tra il popolo delle stelle, come un vento che soffia tra le foglie più elevate degli alberi e parla di tempeste in arrivo. In molti fuggirono nel sottobosco o nella radura, altri s’arrampicarono sugli alberi per nascondersi. I restanti si rannicchiarono lì dov'erano e attesero, come uccelli immobili alla presenza di un serpente velenoso.

Un nuovo straniero giungeva in mezzo a loro, e nella loro confusione e paura i Figli – che si erano da poco svegliati in quel mondo stellato ed avevano alzato lo sguardo su quel luminoso puntaspilli di luce, proferendo le loro prime parole – erano ora silenziosi e guardinghi come animali braccati.

Avevano sentito la presenza degli oscuri cavalieri che venivano a portar via gli incauti. Nessuno sapeva dove le vittime sarebbero stare prese. Molti se n’erano andati, intere famiglie. Poi era arrivato il luminoso, un cavaliere su di un grande cavallo bianco; era venuto in mezzo a loro, parlando con voce chiara, apprendendo il loro linguaggio e usando parole del suo. Aveva soffiato in un bel corno a spirale scolpito e ornato d’oro – e per quella ragione fu conosciuto tra i Figli col nome di Oromë – e, a causa del suono simile a un barrito che il suo cavallo bianco faceva, essi chiamarono quel pregiato animale Nahar. Egli, a sua volta, li chiamò nella loro lingua gli Eldar, il popolo delle stelle, e li convocò attorno a sé affinché udissero le sue parole.

Molte cose impararono da Oromë, tra quegli alberi, riguardo alle spiagge sul mare spumeggiante. Se ne andò e poi tornò ancora una volta, sebbene per tutto il tempo anche i cavalieri neri errassero nel bosco e portassero via tutti quelli che riuscivano a catturare, e qualcuno dicesse che forse Oromë era il signore di questi cavalieri neri e desiderava catturarli tutti usando inganni e dolci parole. Un forte tremore attraversò le lande dopo la prima visita di Oromë e Nahar, una volta che il Vala se n’era andato, e a nord grandi luci illuminarono il cielo e la terra stessa si lamentò e pianse a gran voce, così che gli Eldar ne furono spaventati – e sebbene non potessero saperlo, durante quelle lunghe stagioni un’amara guerra veniva combattuta dai Valar e Thangorodrim veniva abbattuta e Melkor trascinato via in catene ed imprigionato nelle Aule di Mandos.

La seconda volta che Oromë fece loro visita chiese a tre di loro – la voce più potente, il cuore più robusto e la mente più acuta – di venire con lui: li avrebbe portati con sé quali ambasciatori tra la sua gente quando sarebbe ripartito, per mostrare loro le meraviglie della terra in cui lui e quelli come lui abitavano, un luogo che egli chiamò Valinor. Molto tempo passò prima che mettesse i tre elfi su tre meravigliosi portentosi ed intelligenti cavalli che avrebbero seguito Nahar a quel proposito. Molti ora suggerivano che Oromë si fosse portato via i migliori tra loro allo stesso modo con cui i suoi cavalieri neri si portavano via i più deboli e gli incauti, e che gli sarebbero dovuti sfuggire se mai fosse tornato un’altra volta. In molti erano spaventati da chiunque fosse uno straniero e non avrebbero mai creduto in nessuno che non fosse della loro specie. Eppure qualcuno era curioso, desideroso di vedere i luminosi e chiari occhi di Oromë una volta ancora, se mai fosse ritornato, e scorgere la potente presenza di Nahar, quel portentoso cavallo di bianco splendore.

Poi un giorno il suono familiare del corno risuonò nel bosco degli elfi e un’alta figura apparve, pose accanto a sé lo strumento e si guardò attorno.

«Popolo delle stelle, non siate spaventati! Non sono l’essere oscuro. Sono tornato, sì, coi vostri capi, per parlarvi! Ascoltateli, se lo desiderate»

Tre alti stranieri dagli occhi chiari sbucarono alle spalle di Oromë e vennero verso il popolo nascosto, evocando nomi che furono ricordati.

Uno dei nomi che gridarono a gran voce fu quello di Olwë, e subito quello balzò in piedi con stupore e gioia, poiché scorgeva, tra i tre che erano stati scelti e presi tra loro, suo fratello.

«Fratello mio!» esclamò meravigliato «Il tuo volto brilla come un falò e i tuoi occhi sono più luminosi delle stelle del cielo sopra di noi! Quale letizia è stata conferita a te e ai tuoi due amici?». Poi si voltò verso gli altri e disse: «Non siate spaventati! Questi non sono fantasmi oppure ombre scure d’inganno. Questo è mio fratello Elwë Singollo che partì per sua libera volontà con Oromë verso le terre dell’ovest. Egli indossa addirittura il mantello grigio che gli donammo e che è origine del suo nome. È qui in carne ed ossa ed è ritornato, come Oromë ci aveva promesso».

«Abbiamo viaggiato a lungo col Signore dei Viaggi» disse Elwë agli altri. «Venite, ora – venite a vedere che stiamo bene, anzi più che bene. I nostri cuori e i nostri spiriti sono riempiti di stupore e meraviglia a causa di quella luce luminosa chiamata Valinor. Il luogo in cui i confratelli di Oromë vivono. Ma avvicinatevi e toccate le nostre mani e i nostri visi! Provate a voi stessi che siamo ciò che diciamo di essere e non qualche ingannevole fantasma della notte mandato dal maligno».

Così uscirono allo scoperto i consanguinei di quei tre: un popolo assai numeroso. Si radunarono attorno ad Ingwë, Finwë ed Elwë e strinsero loro le mani, li toccarono e li abbracciarono; poi si sedettero tutt’attorno ai tre, sul manto erboso, per ascoltare quello che avevano da dire, giacché era evidente che dietro il loro splendente ritorno si nascondeva un racconto meraviglioso – e così fu.

Ingwë fu il primo a parlare al popolo e fu l’interlocutore dei congiunti più impazienti di incontrare Oromë e di imparare da lui fin dalla prima visita del Vala.

«Abbiamo attraversato grandi distanze, le foreste sfrecciavano attorno a noi e così pure fiumi e possenti montagne, paludi e pianure, e rumorose cascate di bianca acqua schiumante che luccicavano al chiarore delle stelle» disse ritmicamente «E abbiamo poi raggiunto quella che ci è sembrata una grande baia, nell’estremo occidente, e in quel luogo c’era una grande distesa d’acqua, così profonda ed ampia che nessuno era in grado di vedere l’altra riva»

«Lì siamo saliti a bordo di una nave, così si chiama, ben più possente delle piccole imbarcazioni che conduciamo lungo le coste del Lago Cuiviénen, costruita da due dei Valar affinché potessimo attraversare quella distesa e parlare con loro» aggiunse Finwë. «Questi Valar, consanguinei di Oromë, si sono presentati col nome di Ulmo e Aulë; ci siamo incontrati con Aulë ed egli è un maestro nel costruire cose! Conosce molte tradizioni che ci insegnerebbe volentieri nella sua dimora»

A quelle parole la sua gente mormorò eccitata, poiché i loro cuori erano già colmi dell’idea di creare artefatti con le loro stesse mani.

«E attraverso le profondità blu dell’oceano siamo approdati ad una baia luccicante di sabbia dorata e perle» disse Elwë nel suo turno «Ad una spiaggia che non somigliava ad alcun’altra che avessimo mai visto prima, con onde increspate che brillavano e luccicavano, poiché una luce splendeva su quelle terre e, attraverso un valico, si proiettava sul mare come un faro infuocato e ci siamo meravigliati molto di quella visione, poiché all’inizio la luce era argentea ma, lentamente, mentre ci avvicinavamo a quelle terre lontane dell’ovest, essa mutava in un magnifico color oro.

A quel punto Ingwë rise, vedendo che le persone attorno a lui erano perlopiù perplesse. «Di sicuro, amico Elwë, la nostra gente non riesce a capire quello di cui stiamo parlando o che noi conosciamo, poiché in quel regno benedetto che è Valinor vi sono colori che non potremmo neppure sperare di vedere qui, in questi tetri e cupi luoghi in cui il male regna. Poiché c’è una luce ben più splendente di quella delle stelle sopra di noi»

«E sotto quella luce sono rimaste stelle che possiamo conoscere e amare?» domandò Olwë «Queste luci più splendenti, a quanto pare, possono cancellare tutte le altre e ricoprire l’elegante leggiadria del cielo scuro con la sua rete di stelle bianche, gialle, argentee, blu e rosse sopra di noi che così tanto amiamo»

Ed Ilmë dai capelli argentati aggiunse: «Esatto, che mi dite di Carnil e Luinin? E Nénar e Lumbar, sono visibili anche da lì? È possibile vedere Alcarinquë e l’amata Elenmirë? Dov’è il luogo di Wilwarin e Telumendil nei luminosi cieli occidentali? Che mi dici di Soronúmë ed Anarríma e Menelmacar, unite nella cintura luminosa?»

«Sì, tutte queste e pure Valacirca, la falce del nord, possono essere viste quando le luci sono al loro minimo» disse Ingwë «Non abbiate paura».

E gli altri gridarono impazienti: «Da dove venivano queste due luci, argentea e dorata, di cui avete parlato?»

Al che Ingwë rispose: «Dai Due Alberi, le più belle creazioni di dama Yavanna, nutriti dalle sorgenti di luce raccolte dal Vala Tintallë, che creò per noi le stelle sotto quali ci risvegliammo sulle rive del Cuiviénen»

«Alberi?» domandò Lenwë, un amico intimo di Olwë, grattandosi la testa «Come può essere? Anche qui abbiamo alberi, ed essi sono scuri e cupi e non producono alcun tipo di luce. Nessuno dei tanti tipi di alberi a cui abbiamo da tempo dato un nome nella foresta attorno al Cuiviénen sembra simile a quelli di Valinor che avete descritto»

«Questi alberi non assomigliano a uno qualsiasi degli altri di questo mondo» spiegò Ingwë «Essi sono assai più grandi, poiché sono consacrati e benedetti dai Valar, sono stati creati da Yavanna, che vi ha riversato tutte le sue abilità, ed essi gettano a turno una luce sulle terre. L’albero d’argento è il più vecchio ed è conosciuto come Telperion, mentre quello d’oro è chiamato Laurelin»

Fu Finwë a proseguire la spiegazione, desideroso com’era di parlare ancora alla sua gente, poiché s’era reso conto che la questione degli alberi e delle luci non interessava loro quanto gli artefatti e le creazioni della mente e del cuore: «Questi alberi sono stati infatti abilmente plasmati dai Valar. Essi hanno attinto dal suolo la linfa luminosa attraverso le loro profonde radici e l’hanno fatta risalire lungo il loro fusto fino a raggiungere i diversi rami, per poi farla fuoriuscire in forma di pioggia dorata e argentata tramite le loro foglie e i loro fiori, per irradiarsi per tutte le terre ed essere di nuovo assorbita. Il liquido in eccesso viene raccolto in due grandi catini di metallo nei pressi degli alberi, che sono stati forgiati da Aulë, il quale è il consorte di Yavanna – e da quei catini si riversa una luce tale che nessuno la può fissare troppo a lungo».

Queste parole catturarono il popolo, che gli si fece vicino; una luce brillava ora nei loro occhi, alimentata da quella che c’era in lui e dal racconto di quelle terre meravigliose e lontane.

«Per andare in un luogo simile voi vorreste che noi allontanassimo il nostro popolo dalla terra che abbiamo iniziato a chiamare casa. Che sorta di terra è questa in cui ci state chiedendo di trasferirci?» domandò Aelinir, uno dei congiunti della gente di Olwë. «Parrebbe molto lontana, da ciò che dite. Vi sono fiumi? C’è acqua?»

«Sì, e molto, molto altro» disse Elwë «Alberi, foreste, laghi e pascoli. La terra è generosa e il clima assai clemente. Una grande montagna svetta alta nel mezzo e può essere vista fin dalle scintillanti rive del Grande Mare»

Ingwë disse: «Là risiede Manwë, Signore dei Valar e Re di Arda stessa»

«Ha creato lui il mondo, dunque?» disse una Vanyar di nome Indis.

«Certo che no! Quella sarebbe un’impresa troppo grande per qualunque Valar e più d’uno dei miei fratelli desidererebbe rivendicarla» s’inserì Oromë dal luogo leggermente in disparte rispetto agli elfi, ove era seduto «Colui che ha creato tutte le cose noi lo chiamiamo Ilúvatar o Eru, l’Uno»

«E dove risiede?» domandò una dei Noldor conosciuta come Elenwë.

«Oltre i cerchi del mondo, che egli ha creato usando la Fiamma Imperitura nelle profondità del tempo, prima che il tempo stesso fosse come voi lo conoscete» disse Oromë. E coloro che udirono le sue parole scorsero la visione di un grande luogo luminoso al centro delle tenebre e di una musica che sembrava riempire tutte le cose.

«E tu ci consigli di lasciare questa terra dove ci siamo risvegliati, nei pressi delle tiepide acque del lago, per intraprendere questo lungo viaggio, fratello?» domandò Olwë.

Elwë lo guardò. «Penso valga la pena fare uno sforzo simile, sebbene il viaggio possa essere pericoloso e stancante per noi»

«Pericoloso?» domandò più d’uno di quelli che erano nei paraggi «Se dobbiamo correre dei rischi, perché allora dovremmo lasciare le nostre case qui? Le nostre vite sono già abbastanza danneggiate dai pericoli così come sono»

«Perché questo luogo sta diventando sempre più pericoloso e se scegliete di rimanere sarete come prede rimaste in trappola» disse Oromë in risposta «I Valar daranno il benvenuto ai figli di Ilúvatar venuti a Valinor e faranno in modo che essi rimangano al sicuro per sempre dagli oscuri ladri di anime, coloro che lavorano per Melkor, quello che voi conoscete come l’Oscuro Signore. Lui lo abbiamo imprigionato, ma i suoi servi sono ancora là fuori, ahimè. Ma Valinor è un posto nel quale i Valar hanno duramente lavorato affinché le loro terre fossero protette dal male del mondo esterno. È un lungo e stancante viaggio, quello per raggiungere l’estremo occidente e Valinor, ma lo sforzo vi permetterà, d’ora in poi, di vivere in pace senza il pericolo costante del rapitore e di coloro che vogliono schiavizzarvi».

«Per noi che siamo stati via a lungo è chiaro che il male presente qui ed ora è più spaventoso e grande di quello che abbiamo abbandonato quando ci siamo lasciati alle spalle questo posto e i parenti, nei pressi delle rive del lago» sottolineò Ingwë «Mi pare perciò corretto che tutto il popolo delle stelle debba, un po’ alla volta, andarsene da Cuiviénen e trovare le proprie nuove dimore dove può nel mondo che sta al di là. La scelta potrebbe essere tra Valinor, dove potrebbero esserci pace e sicurezza perpetue, o queste Grandi Terre dove nulla, nel futuro della nostra gente, è certo».

«Tuttavia tu non parli a nome di tutti i congiunti dei figli delle stelle, Ingwë dei Vanyar» disse Ilmë dai capelli argentati, che era il capo di una tribù di elfi diversa e assai numerosa «Tu puoi parlare solo a nome della tua gente. Gli altri potrebbero desiderare di rimanere dove sono e tu non puoi obbligarli a marciare verso chissacché. Ingwë, Finwë ed Elwë non sono Re dei figli delle stelle».

«Neppure noi desideriamo quel titolo o quell’onere» rispose Ingwë «Ma dobbiamo avvisare i nostri amici in modo appropriato quando percepiamo la saggezza in un’azione»

«Parlate, dunque, ma lasciate che ciascun confratello decida dove dovrebbe abitare e se marciare o meno verso l’ignoto» concluse Ilmë «Io per primo sono propenso ad affrontare il pericolo laddove lo incontro – e rimanere sulle rive del Cuiviénen. Il male e il pericolo possono trovarci ovunque noi dimoriamo, sì, persino in questo favoleggiato reame di Valinor».

«Non finché i Valar vi governano» rispose Oromë, sebbene molti percepirono che la sua affermazione non era così certa come le precedenti e che c’era stato un momento di esitazione prima che il Vala replicasse. La sua mente stava infatti pensando alla lunga e costosa battaglia che aveva condotto alla cattura di Melkor e al suo conseguente imprigionamento, e che forse col tempo persino l’oscuro avrebbe avuto la possibilità di invocare il perdono – ma lui non credeva alla sincerità del suo ravvedimento dalle vie del male.

Fu molto discussa la natura delle terre tra il Cuiviénen e le Grandi Acque ad ovest, laddove le stelle tramontavano, e molti rimasero sbigottiti nel venire a conoscenza delle montagne e delle eterne foreste di grandi alberi e dei fiumi a malapena attraversabili e delle paludi che avrebbero dovuto evitare o circonvenire in qualche modo – e tra di essi un gran numero voltò le spalle ai progetti disposti dai congiunti di quei tre e decisero tra loro se rimanere nei pressi del lago o spostarsi a nord, o a sud o addirittura verso gli altipiani dell’est. Alcuni avevano portato le loro piccole imbarcazioni intrecciate fuori dal canneto del lago e si erano avventurati nel Mare Interno di Helcar e sebbene taluni non fecero mai ritorno, probabilmente annegando da qualche parte tra le acque agitate, talaltri tornarono dalla loro gente e li convinsero a costruire nuove imbarcazioni ed inviarle a gruppi in direzione delle rive orientali che avevano scoperto: rive simili a quelle di questo lato, ma tranquille e finora disabitate, e percorse da alte colline e montagne.

Tra loro, molti provenivano dal popolo di Carnwë, rosso di capelli: erano alti e belli, con la pelle chiara e gli occhi verdi, e cantavano con voce soave – e si scoprì che dopo di allora nessuno appartenente a questo popolo rimase ad ovest del mare di Helcar, il che fu un grande dolore per coloro che li conoscevano, giacché sapevano che la separazione sarebbe stata lunga e penosa e che i Carnrim – così erano chiamati – avevano molti attributi e qualità che erano unici persino tra loro.

Qualunque fossero le distanze, tuttavia, la maggior parte del popolo delle stelle sentiva nel proprio cuore che essi dovevano lasciare il Cuiviénen nella pienezza dei tempi, sebbene il loro desiderio fosse – come Ilmë aveva detto – quello di rimanere il più a lungo possibile nelle terre in cui si erano per la prima volta risvegliati, terre che conoscevano bene, poiché quelle terre stavano diventando sempre più agitate e giungevano voci di malvage creature che si stavano avvicinando a quelle regioni e che probabilmente li avrebbero attaccati una volta che avessero finito di ammassare le loro forze. Ed altri sussurravano di orrori persino più grandi, orrori senza nome che avevano visto da lontano e che avrebbero posto fine alla vita per come la conoscevano, sulle dolci acque del lago.

Elwë si sedette coi suoi fratelli nel loro accampamento sotto gli alberi, condividendo un pasto come avevano fatto spesso anche prima: la dimora che si erano scelti giaceva vicino alle acque del Cuiviénen, poiché amavano la vista dell’acqua e il suo rumore – lo sciabordio delle onde sulle rive e lo scrosciare della corrente che si riversava nel lago.

«Quanto tempo ci metteremo a raggiungere Valinor?» gli domandò Olwë.

«Ben più di quello in cui siamo stati lontani da voi, fratello» giunse l’inquietante replica.

«Sebbene Finwë, Ingwë ed io abbiamo viaggiato fin là, siamo rimasti per un po’ a parlare coi Valar e poi abbiamo ripercorso i nostri passi, eravamo solo in tre ed eravamo costantemente guidati da Oromë, cavalcavamo i suoi meravigliosi e instancabili cavalli, che sono assai più veloci di quanto possiamo esserlo noi a piedi; inoltre saremo gravati dalle provviste alimentari e dalle proprietà che gli altri porteranno con sé. La nostra gente è numerosa e trasportarli assieme al sicuro significa che dovremo viaggiare lentamente e con attenzione. Inoltre le numerose barriere naturali lungo il nostro cammino potrebbero crearci notevoli difficoltà».

«E nonostante tutto questo ci state chiedendo di lasciare questo luogo e di viaggiare verso ovest?»

«Non ci sono altre scelte ragionevoli. Anche gli altri scopriranno che questa è la verità e seguiranno la nostra strada, sebbene non potranno attraversare le Grandi Acque senza l’aiuto dei Valar, ed infine giungeranno alla salvezza di Valinor. Anche noi avremo quella possibilità, se seguiamo il Signore dei Viaggi».

Olwë sembrava triste. «Ci sono già state delle partenze. Alcuni dei confratelli si sono separati e se ne sono andati in diverse direzioni, seguendo il proprio cuore e la propria mente. Dubito che, alla fine, molti altri che non siano i nostri parenti sceglieranno di intraprendere questo viaggio. La stirpe di Ingwë mi sembra pronta a seguirlo ovunque egli li guiderà, ma la sua gente non è numerosa. Anche la gente di Finwë è infuocata dall’idea di imparare nuove abilità di artigianato al di là delle acque occidentali e potrebbero seguirlo fino a quando sarà capace di stimolare la loro immaginazione e far loro sopportare le asperità del viaggio. Ma tra le nostre numerosi genti ce ne sono molte che troveranno il viaggio troppo difficile. Possiamo magari persuaderli ad iniziare il percorso, ma non pochi diserteranno quando le cose si faranno dure. E cosa accadrebbe se tutto il nostro popolo dovesse decidere di abbandonare il viaggio? Li abbandoneremmo, forse? Non credo, fratello mio»

«Cosa accadrà alle altre stirpi che non sono le nostre tre?» gli domandò Elwë.

Suo fratello scosse la testa. «Ilmë non è una voce isolata in mezzo al popolo delle stelle. In molti detestano il dover abbandonare il Cuiviénen, e molti sono addirittura spaventati da Oromë, ora, e ancora diffidano delle sue intenzioni. Quando se ne andranno non sceglieranno di prendere la strada più ardua di tutte, ma andranno da qualche altra parte, guidati dalle circostanze e dal pericolo».

Giunse infine il giorno in cui Oromë radunò attorno a sé le genti per vedere cosa avessero deciso. Molti scelsero di andare in altre regioni e di non seguirlo, e per quello egli si rattristò, ma non fece nient’altro se non augurare loro di vivere bene, in pace e prosperità, ovunque fossero andati nel grande mondo. Dopo questa generosa risposta alcuni di loro iniziarono a vacillare, non sentendo più alcuna diffidenza nei suoi confronti, e si aggregarono alle genti di Elwë e Finwë, di modo che queste erano ora divenute ancora più numerose, e si prepararono a partire in direzione dell’ovest, guidati dal Vala sul suo grande cavallo.

Oromë regalò ad Ingwë, Finwë ed Elwë i tre cavalli che avevano cavalcato in precedenza fino alle coste occidentali, come dono eterno per loro. La cavalcatura di Ingwë era uno stallone argenteo di nome Rocal, quella di Finwë una giumenta grigia, liscia e lucida il cui nome era Thinhir, e il destriero di Elwë era un altro stallone bianco argenteo chiamato Tintar. Grande fu la gioia dei tre per questi pregiati doni del Vala, giacché provenivano dalla stessa linea di sangue di Nahar e giungevano da Valinor. Suonando il suo corno, egli aprì la strada davanti agli elfi: Oromë sul suo grande cavallo Nahar e dietro di lui Ingwë con il suo popolo dai capelli dorati, i Vanyar, che cantavano mentre s’incamminavano; poi giungeva Finwë coi Noldor, che erano tutti scuri di capelli con gli occhi chiari; infine ecco la grande schiera dei Solosimpi, i viandanti delle coste, che in seguito sarebbero stati chiamati Teleri a causa del loro essere stati gli “ultimi arrivati” a Valinor per aver indugiato a lungo sulle coste occidentali della Terra di Mezzo. Sulle sue spalle Elwë dei Solosimpi indossava lo stesso grande mantello di pregiata stoffa grigia che la sua gente aveva intessuto per lui nella premurosa speranza del suo ritorno dall’occidente quale loro ambasciatore presso i Valar; ora egli lo portava quale segno perché la sua gente potesse vedere che, in cambio, egli li avrebbe condotti al sicuro ad occidente e al di là del mare. Per questo divenne ovunque noto come Elwë Singollo o Grigiomanto per l’aver indossato quella pregiata stoffa grigia.



Oromë cavalcò verso nord per molti giorni e gli elfi marciarono in lunghe file, portando con sé i loro effetti personali e con torce nelle loro mani, poiché Oromë li aveva raccomandati di avere tizzoni ardenti a portata di mano per respingere le malvagie creature sulla loro strada, poiché esse avrebbero schivato la luce del fuoco.

Ora molti guardavano indietro, verso le rive del lago Cuiviénen, che in realtà era soltanto una piccola insenatura del Grande Mare Interno di Helcar, e si sentivano tristi, poiché sapevano nel profondo dei loro cuori che presto quel luogo non sarebbe stato più e che nessuno sarebbe più potuto tornare e ritrovare i luoghi del loro risveglio. Già la terra tremava e giunsero voci di spaccature nel terreno e di grandi fuochi che si riversavano distruggendo foreste e ruscelli non distanti dal Cuiviénen. Pertanto un numero sempre più grande di elfi partiva dalle rive del lago, sempre più rapidamente, sebbene non tutti scegliessero di seguire Oromë e i tre confratelli verso ovest e attraverso il grande mare.

Oromë fece poi una sosta quando raggiunsero un possente promontorio dal quale la bellezza dell’intero mare interno poteva essere ammirata sotto di loro; poi si voltò e puntò verso ovest.

«Ah, le terre verso cui marciamo! Laddove tramontano le stelle» disse. Ancora una volta portò il suo corno alle labbra e soffiò una singola lunga nota che risuonò in tutte le terre, in modo che tutte le creature malvage si ritraessero con sgomento e strisciassero sottoterra e non osassero ostacolare il viaggio degli elfi verso ovest per il momento.

Le acque del mare interno scintillavano sulla loro superficie argentea mentre Valaróma risuonava, come fossero corde di un’arpa pizzicate da un suonatore, dopodiché crebbero ancora una volta e coloro che fra i Noldor avevano una vista migliore videro molte coracle e piccole imbarcazioni navigare verso est, attraversando il grande mare in direzione delle montagne e degli altipiani frastagliati al di là. Quelli che andavano verso est si separavano da loro per sempre. Nahar sfavillò sotto la luce delle stelle e delle torce di una luce bianca e di una tinta dorata e nitrì sonoramente, così che anche coloro che stavano negli ultimi ranghi dei Solosimpi levarono le loro teste per vedere il cavallo e il suo cavaliere sulle cime davanti a loro e i loro occhi scintillarono della luce brillante delle stelle sopra di loro.

Poi Oromë li condusse ad ovest attraverso un fitto bosco, emergendo infine dagli alberi in una pianura attraverso la quale scorreva un fiume dalle rapide acque. Gli Eldar si accamparono prima di questo fiume ed Oromë radunò attorno a sé i tre Re degli Eldar.

«Devo tornare dai miei fratelli a Valinor per parlare con loro ed organizzare il vostro arrivo» disse «Fate in modo che il vostro popolo attraversi lo stretto fiume più avanti. Forse Finwë potrebbe predisporre la sua gente per la traversata. Se continuerete verso ovest vi rincontrerò al mio ritorno per condurvi oltre»

Il cuore di Ingwë era pesante, poiché vedeva che senza la presenza di Oromë c’era ben poco entusiasmo persino tra la sua stessa gente al pensiero di avvicinarsi di più alle terre in rovina, ed ogni passo verso ovest li conduceva anche verso quelle lande del nord in cui Oromë diceva essersi combattute le antiche battaglie col male.

Ma Oromë montò su Nahar e soffiò il suo corno e corse via rapido al galoppo. I tre cavalli che erano il suo regalo ai re degli Eldar lo guardarono lamentosi, come se desiderassero seguire il cavallo bianco, ma rimasero dov’erano.

Finwë organizzò i Noldor ad elaborare un piano per attraversare questo precipitoso fiume che essi avevano chiamato Eruin, poiché questo fu il primo fiume che dovettero attraversare durante il loro viaggio. I piani variavano per ingenuità e contenuto e per molte ore i tre vi sudarono sopra, talvolta assieme anche ad Olwë, domandandosi quale metodo fosse il più sicuro – poiché le acque spumeggianti apparivano pericolose e parevano dover spazzare ogni elfo che dovesse immergervisi.

Nel frattempo i Solosimpi erano contenti di essersi accampati coi loro bagagli prima del fiume, sulla pianura, e molti dichiararono che quello era un luogo piacevole dove vivere, sotto la luce delle stelle, e si domandavano: perché dover faticare per attraversare un fiume così rabbioso, in ogni caso?

I Vanyar erano abbastanza impazienti di attraversare e s’accamparono il più vicino possibile al fiume, in piedi lì dinanzi a fissare l’altra riva lontana, domandandosi cosa vi fosse al di là. I Noldor erano occupati a discutere dei vari stratagemmi che si potevano impiegare per attraversare il fiume. Focolari di bivacco vennero accesi per tenere a bada le creature malvage. Finwë foggiò un arco ed insegnò alla sua gente a produrre frecce affinché potessero cacciare nei boschi, sebbene da sempre i Noldor si spostassero tra le lande in gran numero per prevenire la cattura di qualcuno di loro.





[traduzione autorizzata di di 'To Where the Stars they Set', da Nigglings Special, issue n. 15, 1996]