“Vengono i giorni del Re”:

la regalità nel Signore degli Anelli


di Simone Bonechi


[gia pubblicato in Franco Manni (a cura di ), Mitopoiesi. Fantasia e Storia in Tolkien, Grafo Editore, Brescia, 2005 ]

La presenza di uno o più personaggi regali in un’opera ascrivibile al genere Fantasy difficilmente può, a tutta prima, focalizzare l’attenzione e l’interesse del lettore: è semplicemente considerato uno degli elementi costitutivi del genere, così come l’assassino per i gialli, i viaggi interstellari per la fantascienza o l’orrore soprannaturale per il romanzo “gotico”. L’usuale scelta di ambientare storie di questo tipo in un Medioevo fantastico basta a rendere la presenza di figure regali scontata e, per così dire, necessaria. Ciò senza nulla togliere all’importanza che tali figure possono rivestire nella storia, sia in senso narrativo che in senso simbolico.

L’opera di Tolkien in generale ed Il Signore degli Anelli in particolare, tuttavia, vanno oltre quella che potremmo definire la neutra obbedienza ai canoni di un genere letterario consolidato. Opera epico-mitologica più che semplice romanzo fantastico, trasposizione narrativa delle intime convinzioni, valori e conoscenze del suo creatore, Il Signore degli Anelli fa emergere nei suoi personaggi e nelle sue vicende contenuti simbolici e richiami storico-culturali tali da impregnare di significato anche gli elementi più ovvii e scontati, da riempire di vita quelli che altrove sono solo fondali di scena.

Così è anche per la regalità e del resto il tema del ritorno del re è, insieme a quello della distruzione dell’Anello, il filone portante delle vicende narrate.

Cercheremo in questo saggio di esaminare di che tenore sia il “discorso sulla regalità” che Tolkien sviluppa nella sua opera maggiore, aiutandoci anche con indispensabili rimandi al Silmarillion e alle Lettere; ci soffermeremo poi, per quanto ci è possibile, sulle fonti e sulle problematiche “esterne” alla materia narrativa che possono aver influenzato l’Autore nella sua rappresentazione della regalità.



Origine e fondamento della regalità umana

Un aspetto che salta subito agli occhi del lettore di Tolkien è che, pur esistendo fra gli Uomini vari personaggi che a buon diritto si fregiano del titolo di re (Re Théoden, Re Bard di Esgaroth) e altri che comunque ne fanno o ne hanno fatto uso nella storia della Terra di Mezzo (il Re delle Montagne, poi Re dei Morti di Dunharrow, i “Re pagani, schiavi dell’Oscuro Potere” cui fa riferimento Gandalf tentando di convincere Denethor a non suicidarsi)1, essi non possono che porsi in un rapporto gerarchicamente subordinato rispetto a quella che l’autore stesso intende porre come il fondamento e la manifestazione più significativa della regalità umana: la dinastia dei Re Númenóreani.

Re Elessar, restauratore del Regno di Arnor e Gondor, diventa anche Signore delle Terre Occidentali; Rohan, Dale, i vari raggruppamenti umani aldilà dell’Anduin ricadono tutti sotto la sua benigna protezione e, pur non essendo esplicitamente legati alla Corona da rapporti di vassallaggio diretto, è chiaro che guardano ad Aragorn come all’autorità suprema nella Terra di Mezzo Occidentale. E questo non solo e non tanto per la potenza oggettivamente superiore dello stato che egli governa, ma soprattutto per il suo “sangue”, ovverosia per l’incomparabile prestigio della dinastia di cui è l’ultimo rappresentante.

I Valar stessi stanno a fondamento della regalità númenoreana: sono essi, infatti, le “Potenze della terra”, che scelgono Elros figlio di Earendil come Re per gli Uomini che hanno combattuto fedelmente con gli Eldar contro Morgoth. Quale premio per i sacrifici patiti, essi potranno abitare una “nuova terra”, creata appositamente per loro e posta il più vicino possibile alle Terre Imperiture del “Vero Occidente”.

Ma perché i Dunedain e, soprattutto, perché proprio Elros? La loro fedeltà nella lotta finale contro Morgoth non è che una conseguenza, a ben guardare, di una più antica , duplice causa: di una scelta e, al contempo, di una “elezione”. Nel Silmarillion, quando Finrod Felagund, incontrati i primi uomini che varcando gli Ered Luin hanno raggiunto il Beleriand, guidati da Beor il Vecchio, chiede le ragioni del loro viaggio verso Occidente, essi rispondono che

Una tenebra si stende dietro di noi, e noi le abbiamo volto le spalle e non desideriamo tornarvi neppure col pensiero. I nostri cuori si sono volti all’Occidente e noi riteniamo che lì troveremo la Luce.”2

Ecco la scelta, dunque: fuggire dall’Ombra del Signore Oscuro e giungere alla Luce dei Valar che vivono “a Occidente”. Evidente è il tono religioso di questa affermazione: il loro viaggio è un ripudiare il Male, un fuggire dalla corruzione che pure aveva intaccato anche il loro animo, ma della quale avevano saputo (seppur non del tutto, come vedremo) liberarsi.3

Il contatto con gli Elfi li renderà, a lungo andare, superiori alle altre tribù degli Uomini: essi, a cominciare da Finrod Felagund, insegnarono loro “la vera sapienza”, trasmettendoli la nozione “della creazione di Arda e la beatitudine di Aman di là dalle ombre del Mare”, nonché “tutta quell’arte e quella sapienza che erano in grado di far proprie”, cosicché

i loro figli crebbero in saggezza e abilità, fino a superare di gran lunga tutti gli altri Umani che ancora dimoravano a est delle montagne e non avevano visto gli Eldar né contemplato i volti che erano stati esposti alla Luce di Valinor.”4

Questa è la “elezione” di cui parlavo poco sopra: il contatto con gli Elfi fa sì che gli Edain sviluppino e potenzino la propria natura tanto da distinguersi per nobiltà, saggezza e possanza dal resto della stirpe umana. Ma soprattutto essi, unici fra gli Uomini, ricevono una chiara nozione della Creazione e di Ilùvatar ed è questa “vicinanza” alla Verità che li rende un popolo “eletto”, libero dalla schiavitù degli inganni di Morgoth.

Alla loro crescita morale e intellettuale si accompagna un mutamento fisiologico: “secondo i computi degli Uomini, gli anni degli Edain s’accrebbero dopo il loro trasferimento nel Beleriand”5: è il primo riferimento alla longevità come elemento peculiare della stirpe di quelli che saranno poi i Re degli Uomini. Una caratteristica che verrà fortemente e ripetutamente sottolineata nel Silmarillion e nel Signore degli Anelli come “segno” distintivo dell’appartenenza alla stirpe “eletta” e che, per conseguenza, viene a porre nella trasmissione ereditaria di queste caratteristiche (il “sangue”, altro elemento che Tolkien richiama più volte) il fondamento indispensabile della funzione regale.

Scelta ed elezione, quindi, si sostanziano in un “nobilitazione” degli Edain che è resa visibile dalla loro maggiore longevità rispetto agli altri Uomini. Nel corso della Prima Era la loro “nobiltà di sangue” assumerà una pregnanza straordinaria con le prime unioni carnali tra Uomini ed Elfi.

Dior, figlio dell’eroe umano Beren e della principessa elfica Lùthien, “la più bella di tutti i Figli di Ilùvatar”, a sua volta frutto dell’unione tra il Re degli Elfi Sindar ed una Maiar, (ovvero una divinità minore), riunisce in sé, per la prima volta nella storia della terra di Mezzo, le caratteristiche genetiche delle tre schiere delle creature di Eru. Egli (così come Earendil, frutto dell’altra unione fra le due stirpi dei Figli di Ilùvatar, quella fra Huor e Idril Celebrindal di Gondolin) aggiunge alla nobiltà del proprio sangue il prestigio dovuto, da un lato alla regalità della sua ascendenza elfica, e dall’altro alle gesta eroiche dei propri antenati umani.

Il matrimonio tra Earendil e la figlia di Dior, Elwing, riunisce i due rami dei Mezzelfi in un’unica famiglia e con la scelta di Elros loro figlio quale primo Re di Númenor, la nuova patria degli Edain, la regalità umana si storicizza definitivamente nella dinastia dei Re Númenóreani.

Con l’innalzamento di Elros alla dignità regale la superiorità fisiologico-morale degli Edain rispetto al resto degli Uomini si sostanzia in una designazione divina. Certo Elros è scelto perché membro della più nobile fra le casate degli Uomini che hanno combattuto per i Valar e quindi, per il suo “sangue”; ma è la sanzione delle Potenze superiori che decreta la concretizzazione istituzionale del suo prestigio, della sua auctoritas, nella forma di governo monarchica. Prima di lui gli Edain hanno avuto solo “capi”, vassalli dei Re Elfi: è con Elros che si realizza storicamente fra gli Uomini una organizzazione statale complessa ed autonoma.

L’esplicitarsi dell’idea della regalità umana e la creazione di uno stato monarchico sono dunque una concessione divina, la ricompensa per i sacrifici e la fedeltà degli Edain, così come il loro trasferimento sulla Terra di Dono, Númenor Ovesturia, la più vicina a Valinor delle Terre Mortali.

L’apporto fondamentale dei Valar nello stabilire i Númenóreani quali “Re degli Uomini” è ulteriormente ribadito dai rinnovati doni di saggezza e longevità che essi concedono loro:

Ëonwë andò tra loro ad ammaestrarli, ed essi furono dotati di sapienza, potere e vita di maggior durata di ogni altra stirpe umana. (...) [Essi] divennero saggi e gloriosi e in tutte le cose più simili ai Primogeniti di ogni altra stirpe di Uomini; ed erano alti, di statura maggiore dei più alti tra i figli della Terra-di-Mezzo. (...) A Elros (...) fu assegnato pur sempre un lungo novero di anni, molte volte superiore a quello degli Uomini della Terra-di-Mezzo; e tutto il suo lignaggio, i sovrani e signori della casa reale, ebbero lunghe vite anche a giudicarle con la misura dei Númenórean. (...) Così gli anni passavano e mentre la Terra-di-Mezzo regrediva e luce e sapienza declinavano, i Dúnedain dimoravano sotto la protezione dei Valar e nell’amicizia degli Eldar e s’accrebbe la loro statura sia mentale che fisica.6

Essi diventano i “Re degli Uomini”, in effetti un “popolo eletto”, cui non manca neanche il dono della profezia o meglio della preveggenza, come gli esempi di Tar Palantìr, di Malbeth il Veggente, di Gilraen madre di Aragorn, di Denethor più volte mostrano. La somiglianza con gli Ebrei dell’Antico Testamento non è casuale, ed è richiamata dallo stesso Tolkien.7

“Sangue nobile” e “favore degli Dei” si intrecciano quindi a formare le fondamenta della regalità Númenóreana; realizzata istituzionalmente la monarchia, resta ora da vedere come la “prassi” regale interpreti e arricchisca questa concezione calandola nella Storia.



La regalità umana a Númenor e nella Terra di Mezzo

Gli accenni alla storia dei Re di Númenor sono assai scarni ne Il Signore degli Anelli e si concentrano praticamente nella sola appendice annalistica. Dobbiamo dunque rifarci al Silmarillion (e più precisamente all’Akâllabeth), alle lettere e ai Racconti Incompiuti quali nostre fonti principali. La monarchia che questi testi ci descrivono è quella che ben conosciamo dai libri di storia e dalla mitologia: il re con la sua regina, la sua famiglia, la sua corte, i suoi consiglieri e le sue guardie, autocrate indiscusso dello stato.

Una caratteristica, tuttavia, lo distingue: il suo ruolo di re-sacerdote. È il re in persona, infatti, che guida l’annuale, triplice pellegrinaggio sulla sommità del Meneltarma, il monte sacro a Eru. In questa sorta di tempio all’aperto, unico luogo sacro di tutta Númenor, il monarca è il solo che può prendere la parola e lo fa per pregare, lodare e ringraziare Ilùvatar nei primi giorni di primavera, a mezza estate e alla fine dell’autunno.8

Oltre, dunque, a possedere in maggior grado la longevità caratteristica dei númenóreani, il re è anche la persona più “vicina” a Eru, il mediatore tra il popolo terreno ed il Padre Creatore: in sostanza, un pontifex.

Che questo fosse un aspetto importante nella concezione della regalità númenóreana che Tolkien aveva in mente è palesato in una lettera che l’autore scrisse nel novembre del 1954 (quindi dopo l’uscita delle prime due parti de Il Signore degli Anelli) all’amico gesuita Robert Murray in merito al problema della religione nella Terra di Mezzo:

Ma il luogo sacro a Dio e la Montagna erano scomparsi [dopo la caduta di Númenor] e non c’era alcun valido sostituto. Inoltre, quando i Re si estinsero non rimase più niente di simile al sacerdozio: le due cose per i Númenóreani erano equivalenti. (...) Si scoprì in seguito che c’era stato un luogo sacro sul Mindolluin, riservato al Re, dove egli anticamente offriva ringraziamenti e lodi in nome del suo popolo; ma era stato dimenticato. Vi rientrò Aragorn, e là trovò un virgulto dell’Albero Bianco e lo trapiantò nel Cortile della Fontana. Si deve supporre che con il riapparire della dinastia dei re-sacerdoti (di cui Luthien la Benedetta, fanciulla elfica, era una progenitrice) la venerazione di Dio sarebbe stata rinnovata ed il Suo nome (o titolo) si sarebbe sentito più spesso. Ma non vi sarebbero stati templi del vero Dio finché durava l’influenza númenóreana.9

Questa funzione sacerdotale venne lasciata cadere in disuso con il progressivo deteriorarsi dei rapporti fra Dúnedain e i Valar e, infine, sostituita con l’adorazione di Morgoth durante il regno di Ar-Pharazôn. Anche in questo caso è interessante notare che l’iniziativa e la successiva guida di questo culto viene presa dal re (influenzato ovviamente da Sauron), che quindi riprende, entro certi limiti, le sue funzioni sacrali. Non è più, tuttavia, il solo sacerdote, perché a Númenor c’è Sauron che “officia” nel tempio di Armenelos e sappiamo di altri templi nelle fortezze costruite sulle coste della Terra di Mezzo, dove si suppone vi fossero altri adepti del culto di Melkor Morgoth.10

Caduta Númenor e formatisi i regni in esilio di Arnor e Gondor, la regalità númenóreana è ricostituita nella Terra di Mezzo e, perlomeno a Gondor, i re riprendono le loro funzioni sacerdotali, usando il Mindolluin come nuova “Montagna Sacra” e (ma lo sappiamo solo indirettamente) mostrano di avere poteri taumaturgici. Questi aspetti sacrali della regalità, tuttavia, sono passati sotto silenzio negli Annali dei Re e Governatori de Il Signore degli Anelli, che ci presentano invece una serie abbastanza convenzionale di monarchi impegnati a difendere con alterni successi i propri regni dalla crescente minaccia di Sauron e dei suoi alleati e servitori.

Si viene, intanto, ulteriormente precisando la forma istituzionale della monarchia con lo stabilirsi della successione unicamente maschile (contrariamente a quanto avveniva a Númenor) e della Alta Sovranità (High Kingship) di Elendil sui due figli, investiti entrambi del titolo regale e inviati a governare il regno meridionale. Il regno settentrionale, retto da Elendil prima e da Isildur poi, acquista quindi una vera e propria preminenza in quanto sede della linea primogenita, ad imitazione della High Kingship dei Regni Elfici Noldorin nel Beleriand, ultimo rappresentante dei quali nella Terra di Mezzo è Gil-Galad di Lindon.

Durante la Terza Era questo diritto non viene esercitato dai re di Arnor e Arthedain dopo la morte di Isildur, ma non viene dimenticato, tanto che Arvedui di Arthedain, reclamando la successione al trono di Gondor dopo la morte in battaglia di re Ondoher e dei suoi figli nel 1944, vi si riferirà esplicitamente.11 Sarà questa preminenza dinastica, questa unione intima della regalità dei due reami che formerà la base giuridica, per così dire, del diritto di Aragorn a governare su tutto l’Occidente.

Un tema sul quale Tolkien torna spesso descrivendo i Regni in Esilio è, ancora, quello del “sangue”, ovvero della differenza biologico-fisica dei Númenóreani rispetto ai “lesser men”, agli Uomini delle Tenebre e del Crepuscolo. L’Autore descrive il progressivo diluirsi della discendenza númenóreana attraverso i matrimoni misti e come, dopo la Caduta, i “doni” dei Valar avessero lentamente cominciato a svanire, rendendo i Númenóreani sempre più simili agli altri Uomini.

Tanto importante è questa tematica nel pensiero di Tolkien, che egli ne fa il fulcro dell’unica guerra civile dei due Regni: la Lotta delle Stirpi (Kinstrife) a Gondor, chiaramente ispirata, per le sue vicende, alla Guerra delle Due Rose che infiammò l’Inghilterra nella seconda metà del secolo Quindicesimo.

Il capo dei ribelli Castamir fonda il suo diritto al trono di Gondor sulla purezza del proprio sangue númenóreano, contrapposta alla “inferiorità” biologica del re Eldacar, frutto del matrimonio di suo padre Valacar con una donna del Nord.

Ma, contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, è il “meticcio” Eldacar l’eroe positivo della situazione: “l’usurpatore Castamir”, nonostante la sua inattaccabile ascendenza nobile, è un personaggio crudele e malvagio, un tiranno che alla fine viene abbattuto con sollievo di tutti. La legittimità della successione dinastica ha quindi per Tolkien un valore ancor più importante della purezza della identità etnica e sembra recare con sé, automaticamente, la virtù, ossia, nella fattispecie, la capacità di governare secondo giustizia: è sintomatico che l’unico tiranno fra i re dúnedain sia appunto un usurpatore.12

La fine della monarchia nei Regni in Esilio avviene nel giro di pochi anni (relativamente ai computi delle ere nella Terra di Mezzo), ma con caratteristiche opposte: mentre ad Arnor cade il regno, travolto dall’assalto dei nemici esterni, ma la successione dinastica viene preservata nei Capitani dei Dúnedain del Nord, a Gondor il regno sopravvive, ma la dinastia si estingue, o per meglio dire, si “assenta”: Eärnur, l’ultimo re, accetta la sfida del Re degli Stregoni, entra a Minas Morgul e scompare per sempre. Si crea così la situazione per la mitica, salvifica attesa del “ritorno del Re”, nel cui nome i Sovrintendenti, non senza venature d’ipocrisia, governano da allora in poi.13

Significativamente, mentre in Gondor, dopo la fine della dinastia, la vita dei Dúnedain si accorcia (ulteriore segno del nesso inscindibile che Tolkien postula tra persona del re e benessere del popolo e del regno stesso), i Capitani del Nord vivono ancora il doppio della maggior parte degli uomini, indice di sangue puro e inalterata “potenza” regale. I loro eredi sono allevati a Rivendell e anche gli oggetti simbolo della loro regalità (l’anello di Barahir, l’Elendilmir, i frammenti di Narsil e lo scettro di Annúminas) sono conservati presso Elrond.

Una terra senza “sovrano” che attende il ritorno del “re nascosto”, un eroe di discendenza regale che, allevato dagli Elfi in un luogo segreto e protetto, attende di reclamare la propria eredità: è su questi temi ricorrenti nei miti regali che si prepara la scena per l’avventura di Aragorn, il “re che ritorna”.



Aragorn o Della regalità

È difficile separare, in Aragorn, ciò che pertiene al suo ruolo di eroe da quello che più specificamente si riferisce alla sua ascendenza regale. Egli è tanto per cominciare l’epitome dell’eroe: precocemente orfano di padre, cresciuto sostanzialmente al di fuori della propria famiglia (come Sigfrido o Beren Erchamion), addirittura al di fuori della razza umana, in quanto allevato dagli Elfi (così come altri due eroi tolkieniani, Turin e Tuor). Egli intraprende il proprio apprendistato e, grazie anche agl’insegnamenti di Elrond e all’amicizia con Gandalf, diviene saggio, leale, forte nell’animo e nel corpo,

il più coraggioso degli uomini, abile in ogni loro arte, colto in ogni loro storia; eppure era più di essi; perché la sua era una saggezza elfica e nei suoi occhi avvampava una luce che pochi riuscivano a sopportare.”14

Aragorn è, infatti, qualcosa di più di un eroe cui si apre di fronte un generico destino di gloria: egli deve essere re perché alla regalità rimandano tutti i diversi piani della sua esistenza: la Natura, la Storia, il Fato e l’Amore.

Egli è, per sua stessa Natura, regale, in quanto porta in sé il “sangue” delle tre stirpi create da Eru: Ainur, Elfi e Uomini, cosa che, abbiamo visto, conferisce una “regalità biologica” riconosciuta dagli altri Uomini. Questa si estrinseca nelle peculiarità evidenziate per i Dúnedain in generale e per la linea di Elros in particolare: longevità, saggezza superiore e limitata “capacità di preveggenza”.15 Aragorn ha dunque una “natura regale”

La sua Storia familiare è storia di re: egli discende per successione ininterrotta da Elendil, a sua volta membro della famiglia reale di Númenor. Egli dunque può e deve aspirare alla regalità quale elemento fondante della sua eredità storico-familiare. Ha, per così dire, “legittimità regale”.

Il suo Fato è essere re o perire nel tentativo. Egli è oggetto di profezie sia prima che dopo la nascita, ed è ben presto reso cosciente delle prove che lo attendono e di ciò che ci si aspetta da lui: la restaurazione della monarchia attraverso la decisiva sconfitta dell’Ombra. 16 È il suo “destino regale”.

Solo diventando re, infine, potrà provare di essere degno della mano della figlia del “Re degli Elfi” e vivere finalmente l’Amore che lo unisce ad Arwen Undòmiel. Ha dunque una intima e personale “motivazione alla regalità”.

Il passaggio dal ruolo di eroe a quello di re è dunque la specifica quest di Aragorn, il secondo filone conduttore de Il Signore degli Anelli; egli sa che deve dimostrare di essere degno di assumere questo ruolo affrontando la prova decisiva: lo scontro con il risorto Oscuro Signore. Per questo la sua natura regale si dispiega solo lentamente nel corso del romanzo. Vediamo come.

La prima rivelazione si ha al Consiglio di Elrond. È interessante notare che sono gli altri, non Aragorn, a palesare la sua discendenza: Elrond prima e poi Bilbo ribattendo ai dubbi di Boromir con la poesia che finisce con “ E re quei ch’è senza corona.” Aragorn si limita ad accennare alla sua vita di eroe errante e al suo ingrato e segreto compito di guardiano del Nord. Egli non rivendica a chiare lettere il suo diritto alla corona di Gondor, ma domanda (“Vuoi che la Casa di Elendil ritorni alla Terra di Gondor?”) e si schermisce paragonandosi con modestia ai suoi antenati: “Rassomiglio poco alle figure di Elendil e Isildur scolpite in tutta la loro maestà nei saloni di Denethor. Io sono soltanto l’erede di Isildur e non Isildur in persona.” E anche quando afferma “Il Flagello d’Isildur è scoperto. La Battaglia è prossima. La Spada sarà nuovamente forgiata. Io verrò a Minas Tirith.”, non manifesta chiaramente le sue intenzioni riguardo al trono. Né è più chiaro quando, durante gli eventi che portano allo sciogliersi della Compagnia, egli ripetutamente afferma che il suo cuore lo spinge verso Gondor, ma senza andare più in là di un generico accenno al combattere a fianco di Denethor contro Sauron.17

Una più esplicita manifestazione della sua pretesa è, significativamente, lasciata al momento dell’arrivo della Compagnia a Gondor. Ma anche qui, le affermazioni più dirette riguardo al destino di Aragorn sono lasciate ad un altro. Quando le barche elfiche passano accanto agli Argonath, entrando finalmente nei confini del Regno Meridionale, Frodo sente “una voce sconosciuta” alle sue spalle; girandosi vede

Grampasso, eppure non era Grampasso, perché il Ramingo logorato dal tempo era scomparso. Al timone sedeva Aragorn figlio di Arathorn, orgoglioso ed eretto e con mano sicura conduceva la barca; il cappuccio gli ricadeva sulle spalle; il vento gli moveva i neri capelli e una luce brillava nei suoi occhi: un re che tornava nel suo paese dopo un lungo esilio.”

Solo dopo questa riflessione di Frodo Aragorn riprende a parlare, citando estesamente la propria genealogia e usando per la prima volta il nome di Elessar, conferitogli da Galadriel a Lòrien e con il quale ascenderà al trono.18

Simile a questa è la scena dell’incontro con Éomer e i Cavalieri di Rohan: anche in questo caso Grampasso palesa la propria discendenza e a Legolas che lo guarda stupefatto pare “di veder scintillare una fiamma bianca come una corona brillante sulla fronte di Aragorn.”19 Ma per tutte le vicende che si svolgono a Rohan, Aragorn mantiene un basso profilo, offrendosi a Théoden come fedele alleato in guerra e lasciando a Gandalf il compito di sanare il re, consigliarlo e condurre il confronto finale con Saruman.

Solo dopo la scoperta del palantìr, quando gli eventi volgono nuovamente verso Gondor, egli torna a crescere nel suo ruolo regale.20 Se fino a questo momento è stato principalmente l’allievo e aiutante di Gandalf, partito questi egli è finalmente padrone di se stesso: la riconquista del trono comincia da qui. La sua “iniziazione regale” passa attraverso prove che egli affronta e supera soprattutto in quanto erede di re.

La prima consiste nel piegare il palantìr al proprio volere: egli vi riesce perché è “il legittimo padrone della Pietra, munito sia del diritto sia della forza necessari per adoperarla”, in quanto discendente dei re che l’avevano portata da Númenor e posta nella torre di Isengard.. Questo gli consente di sfidare e vincere in un conflitto di volontà lo stesso Oscuro Signore. Vale la pena di sottolineare l’insistenza sull’aspetto legalistico della circostanza: è un primo “segno” che Aragorn è veramente ciò che afferma di essere: l’erede di Isildur, l’unico vero Re.

Ed è in tale veste che egli si rivela a Sauron e gli mostra la spada di Elendil forgiata a nuovo. Con questa azione egli assesta il suo primo, autonomo colpo nella lotta contro l’Oscuro Potere e afferma decisamente per la prima volta la propria identità in faccia al Nemico.21

Se dunque il cimento iniziale è superato grazie alla forza di volontà e al legittimo diritto, il secondo mette alla prova anche il coraggio. Ma, nuovamente, è soprattutto in quanto erede di Isildur che Aragorn può attraversare i Sentieri dei Morti e chiamare l’esercito delle ombre di Dunharrow a mantenere l’antico giuramento. Il coraggio da solo non sarebbe stato sufficiente: lo scheletro di Baldor ne è il macabro monito. Ed è la straordinaria forza della volontà di Aragorn che rende possibile ai suoi compagni affrontare l’orrore dei Morti e la furibonda e massacrante cavalcata che segue. Alla Pietra di Erech, Aragorn dichiara nuovamente e solennemente la propria identità e mostra un secondo emblema della propria regalità: lo stendardo dei re di Gondor. Ma solo i Morti possono vedere il simbolo che vi è ricamato: è ancora presto per la piena affermazione del Ramingo come Re e, significativamente, per tutti gli altri la figura riprodottavi rimane “nascosta dall’oscurità.”

Questa ambiguità permane durante il viaggio della Grigia Compagnia attraverso Gondor: la gente fugge al passaggio del “Re dei Morti”. Ma chi è questo re? Certo è il re maledetto da Isildur per non aver rispettato il giuramento di alleanza, la cui storia è rievocata da Aragorn a Dunharrow prima di attraversare la fatidica Porta; ma è Aragorn stesso, ora, a guidare l’esercito delle Ombre, seminando il terrore nei villaggi che attraversa: è lui il Re dei Morti, che vola a riconquistare il titolo di Re degli Uomini.22

La terza prova ha per scenario la battaglia dei Campi del Pelennor ed è qui che Aragorn spiega finalmente in piena luce il proprio stendardo con lo stemma di Elendil “che nessuno ormai portava da innumerevoli anni” e si manifesta come prode guerriero e condottiero vittorioso: virtù fondamentali per un sovrano e altrettanti segni della sua “attitudine” a regnare. Compiendo la profezia fatta ad Éomer al Trombatorrione, di incontrarlo nuovamente “benché tutti gli eserciti di Mordor ci separassero”, egli, infine, rende esplicito quel dono della preveggenza che è prerogativa della sua stirpe.

Vinta la battaglia, Aragorn dimostra modestia e saggezza, non volendo avanzare pretese prima della definitiva sconfitta di Sauron. Subito dopo è chiamato a manifestare quella che ci viene presentata come la più peculiare delle virtù regali númenóreane: il potere di guarire.

La taumaturgia è la virtù precipua dei santi, delle “persone sacre” e fa pensare immediatamente, nel contesto della storia del mondo occidentale, alla regalità cristiana e ai re taumaturghi dell’Inghilterra e della Francia medioevale e moderna. L’episodio della guarigione di Faramir, Eowyn e Merry è, in effetti, redatto in uno stile dal sapore marcatamente religioso e dagli indubbi rimandi cristiani. Nel contrasto fra Ioreth, che tiene ancora a mente le antiche storie che dicono che “le mani del re sono mani di guaritore”, e l’Erborista reale, che, dall’alto della propria cultura, ironizza sulla “vecchie strofe” di “vecchie comari”, pare di sentir risuonare le parole dell’Apostolo Paolo: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e l’intelligenza degli intelligenti riproverò.”23 Il re, dunque, ripristina la vecchia sapienza, la sapienza degli “stolti”, ne dimostra la “verità” e la rinnova. Non a caso proprio in questo capitolo Aragorn prende per sé il nome di Envinyatar, il “Rinnovatore”, epiteto dalle molteplici implicazioni.

E ancora, la “oscura ed erma vallata” (some dark vale) nella quale pare che Aragorn, chiamando Faramir con voce sempre più fioca, si stia lui stesso incamminando, non può non far pensare alla “valle oscura” del salmo del Buon Pastore, così come le parole che egli rivolge al ridestato Faramir: “Non camminare più nelle ombre”.

Il senso del prodigioso nell’episodio raggiunge il suo apice quando Faramir, che mai prima di allora aveva incontrato Aragorn di persona, appena apre gli occhi lo riconosce e lo chiama “mio signore” e “re”, dicendo: “Mi hai chiamato. Sono venuto. Cosa comanda il re?” Anche l’uso del verbo “chiamare” suona, agli orecchi di un cristiano, carico di significati religiosi: quella di Faramir è una “vocazione”, una chiamata verso qualcosa che è più che il semplice ritorno alla vita: la nuova era, il “rinnovamento” che la venuta del re preannuncia.

Subito dopo Aragorn è riconosciuto re dal popolo, proprio in quanto taumaturgo, risanatore: “E presto si sparse la voce che il re era davvero tornato fra loro, e che dopo la guerra portava la guarigione”.24 Il testo assume nuovamente toni evangelici nel brano conclusivo del capitolo, quando la gente gli si fa intorno e lo prega di sanare parenti e amici

la cui vita era messa in pericolo da ferite o malattie o che giacevano sotto l’Ombra Nera. Ed Aragorn si alzò e uscì e, mandati a chiamare i figli di Elrond, lavorò insieme con loro sino a notte inoltrata”

L’accenno ai figli di Elrond serve a porre in risalto come le virtù taumaturgiche siano intimamente connesse al fatto che Aragorn è un discendente dei Mezzelfi, frutto delle antiche unioni di Uomini ed Elfi; già prima, apprestandosi a guarire Faramir usando “tutto il potere e l’abilità che mi sono stati dati”, rimpiange di non avere Elrond al proprio fianco, “lui che è il più anziano della nostra razza ed ha quindi il maggior potere.”

Tolkien fornisce quindi una spiegazione “razionale” del potere risanatore, restando perfettamente coerente con i fondamenti teorici della sua sub-creazione e con la volontà di evitare ogni esplicito riferimento alla religione, ribadendo al contempo l’importanza della “eredità elfica” nella particolare natura biologica dei númenóreani e dei loro re.25

Sovrano in tutto fuorché nel nome, riconosciuto per tale anche da Imrahil di Dol Amroth, principale feudatario di Gondor, Aragorn prende la guida dell’Esercito dell’Ovest in marcia verso il Cancello Nero, con lo scopo di guadagnare tempo per Frodo, fino all’estremo sacrificio. Vinta l’ultima battaglia, risanati Sam e Frodo con il proprio potere taumaturgico, egli può finalmente tornare a Minas Tirith per venire incoronato. Nella Città dei Re il suo trionfo è stato annunciato da una grande Aquila con una canzone dai contenuti e dallo stile modellati sui Salmi biblici.26

La scena della proclamazione e incoronazione merita di essere descritta in dettaglio, perché in questa cerimonia, nella finzione narrativa come nella storia reale, ogni azione e ogni parola esplicitano nel loro simbolismo non meno che nel loro senso letterale i fondamenti concettuali della regalità. Innanzitutto la cerimonia avviene alla presenza del popolo e dell’esercito. L’ultimo Sovrintendente Regnante elenca a tutti i presenti i titoli di Aragorn, venuto a reclamare, dopo tanti secoli, il titolo di Re: prima quelli “politici” (Capo dei Dúnedain di Arnor, Capitano dell’Esercito dell’Ovest), poi i “regalia” che possiede (la Stella del Nord, la Spada Che Fu Rotta forgiata a nuovo), dopodiché le virtù (vittorioso in battaglia, mani di guaritore) ed infine il lignaggio regale: Gemma Elfica, Elessar della linea di Valandil, figlio di Isildur, figlio di Elendil di Númenor.

A questo punto Faramir chiede il consenso del popolo: “Volete che egli sia Re ed entri nella Città e vi dimori?” Solo dopo che “tutto l’esercito e l’intera popolazione” ha gridato il proprio “Sì” può aver luogo l’incoronazione.

Ripetendo le parole pronunciate da Elendil al sua arrivo nella Terra di Mezzo, Aragorn ricompone simbolicamente la frattura nella linea dei re di Gondor e ricollega esplicitamente il regno che sta per iniziare con quello del fondatore. Al contrario di quanto succedeva solitamente (di qui lo stupore del popolo), egli non si pone la corona sulla testa (altro segno della assoluta supremazia dei re di Gondor), ma si fa incoronare da coloro grazie alla cui opera la restaurazione è stata resa possibile: Frodo, che porge la corona al Grigio Pellegrino, e Gandalf, che la pone sul suo capo.

Frodo, il Sacrificio; Gandalf, la Saggezza Profetica e Aragorn, il Re Glorioso e Risanatore o anche Frodo il Sacerdote, Gandalf il Profeta e Aragorn il Re, secondo uno schema interpretativo elaborato da uno studioso australiano, Barry Gordon. Tolkien, che ne venne a conoscenza tramite Clyde S. Kilby, lo approvò nella sostanza, pur affermando che da parte sua i tre personaggi non erano stati consciamente modellati in tal senso. Innegabile, comunque, il rimando, conscio o inconscio che sia, ai tre carismi che, qui divisi in tre persone, ritroviamo uniti nel Cristo, che è assieme Re dei Re, Ultimo dei Profeti, Sommo Sacerdote.27 Alla figura di Cristo, difatti, rimanda sotto vari aspetti quella di Aragorn, come vedremo meglio in seguito.

La descrizione del sovrano neo-incoronato ribadisce simbolicamente sia il ripristino del perduto ordine antico (“Alto come i re del passato, si ergeva su tutti i presenti; anziano sembrava e al tempo stesso nel fiore della virilità”), sia le qualità che costituiscono l’epitome del re giusto e forte: “sulla sua fronte vi era saggezza, e nelle sue mani vigore e guarigione”, assumendo il carattere di una vera e propria “epifania” regale: “una luce brillava intorno a lui.” e a coloro che lo osservano sembra “ch’egli si rivelasse ora per la prima volta”. Il grido di Faramir: “Guardate il Re!” ne sottolinea la trasfigurazione, il passaggio qualitativo dall’eroico Ramingo Aragorn a Re Elessar Telcontar, Sovrano delle Terre Occidentali.

Subito dopo, Tolkien descrive Elessar nell’esercizio della prerogativa fondamentale della sovranità: il pronunciare giustizia (ius dicere). Ma, da buon re qual’è, egli sa temperare la giustizia con un’altra virtù regale: la clemenza, sia nei rapporti con gli sconfitti (schiavi e alleati di Sauron), sia all’interno della sua “casata” (Beregond). Ancora, ci viene mostrato mentre ordina il regno con saggezza, rispettando i popoli che lo compongono (autonomia della Foresta dei Woses e della Contea) e risanando i mali provocati da Sauron (ripopolamento dell’Ithilien, distruzione di Minas Morgul, ricostruzione di Annúminas e del Regno del Nord).

Sarà Gandalf, ancora una volta, tuttavia, a indicare al nuovo re il suo compito per il futuro: costruire l’inizio del dominio degli Uomini, della nuova era, e preservare ciò che può essere preservato dell’età ormai conclusa. Ed è questa fusione di nuovo e antico che viene ad essere potentemente simboleggiata nel rinnovarsi dell’unione tra Uomini ed Elfi, con il matrimonio tra Elessar e Arwen. Il destino di Aragorn si è compiuto e possono iniziare i “giorni benedetti” del regno di Elessar “cantato da molti.”

Rimane da dire della sua morte, narrata nelle Appendici: egli si addormenta volontariamente, rimettendo la propria vita nelle mai del suo Creatore e aprendo un breve squarcio su di un aldilà ancora avvolto nel mistero. Nella morte subisce un’ultima trasfigurazione, rivelando una bellezza in cui si fondono la grazia della gioventù, il valore della virilità e la saggezza e maestà della vecchiaia: immagine gloriosa dello splendore dei Re degli Uomini, incarnazione del “vero Re”.



Regalità a confronto: Gondor e Rohan

La peculiare natura che Tolkien attribuisce alla regalità númenóreana nel contesto della Terra-di-Mezzo viene ulteriormente chiarita e messa in rilievo dal confronto con l’unica altra monarchia dei Popoli Liberi che viene descritta in dettaglio: quella dei re del Mark. Nell’interazione fra queste due culture è possibile cogliere nel suo dispiegarsi narrativo quella che Tolkien stesso chiama la sua “mentalità storica” e da questa ricavare ulteriori elementi di definizione del tema regale, sia all’interno della narrazione che nella sua possibile “applicabilità” nel Mondo Primario.

Le caratteristiche che contraddistinguono i signori dei Rohirrim sono la grande forza, il coraggio indomito, la fierezza nel combattimento, la lealtà nelle alleanze, la tenacia nella vendetta, la violenza delle passioni: essi sono essenzialmente dei capi guerrieri (Eorl, Brego, Folcwine, Théoden, Éomer), eroi (Helm Mandimartello, Fram l’Uccisore di Scatha), patriarchi (Aldor il Vecchio), sovrani “tribali” talvolta magnanimi (Brytta), talvolta persino meschini (Fengel).

Nel rapporto fra il popolo ed i suoi capi prevale l’elemento familiare, “clanico”, cioè un’obbedienza fondata sulla lealtà fra capo e subordinato e sulla forza dei legami di sangue. Il modello cui si rimanda è chiaramente quello patriarcale: Théoden è difatti più il “padre” del suo popolo che un capo di stato. È non tanto il re di Rohan, cioè il sovrano di un territorio, quanto il capo degli Eorlingas, ovvero del “popolo di Eorl”.28

Ciò segna già un significativo stacco rispetto ai re númenoreani, che, per cominciare, non vengono mai celebrati per le loro prodezze individuali, ma anzi costantemente raffigurati nell'esercizio del “governo”, sia che difendano il reame guidando l’esercito in battaglia contro i nemici esterni ed interni, sia che costruiscano porti, città e fortezze, sia che intavolino consultazioni politiche per riunire i due reami sotto un solo scettro. I re di Arnor e Gondor sono dunque anzitutto dei capi di stato.

Non è un caso che l’unico personaggio cui vengano attribuite caratteristiche tipiche del “prode campione”, Eärnur, ultimo re di Gondor, venga dipinto in una luce sfavorevole, sottolineando come la sua mancanza di saggezza e il suo ofermod, (“orgoglio sfrenato”) causino l’interruzione della dinastia regale nel Regno del Sud.29 Ciò che va bene per Helm Mandimartello, dunque, non può bastare per un re dei Dúnedain, ed è anzi un segno di decadimento degli antichi valori il fatto che ad essere considerato il miglior Uomo di Gondor sia il “prode” Boromir, che nessuno eguaglia in resistenza, in temerarietà o in forza fisica e che, al pari dei Rohirrim (fra i quali difatti è famoso) ama la guerra e il coraggio “come cose buone in se stesse.”30

Ma le differenze non si fermano al diverso modo di intendere e vivere il ruolo di sovrano. Il re di Gondor, in quanto monarca di uno stato territoriale organizzato in feudi, ha una propria corte, formata dal Sovrintendente e dai funzionari e servi della Casa del Re, un proprio Gran Consiglio, a cui partecipano, oltre al Soprintendente, i feudatari e i capitani dell’esercito come il Principe Imrahil di Dol Amroth o i signori delle terre meridionali come Forlong del Lossarnach o Duinhir di Morthond.31 Egli, inoltre, non regna su di un popolo omogeneo, come i sovrani del Mark, ma su di una mescolanza che si compone di almeno due ceppi etnici: gli abitanti autoctoni delle valli del basso Anduin, della costa e delle Montagne Bianche ed i discendenti dei númenoreani venuti con i figli di Elendil. Egli e il suo popolo, soprattutto, rappresentano fra gli Uomini, pur nella decadenza, la “civiltà” per eccellenza, la più nobile perché frutto dell’incontro fra Valar, Elfi e Secondogeniti, fra il “divino” e l’umano. Una civiltà che ha una propria cultura ben definita, una memoria storica raccolta in libri e pergamene (mentre la cultura dei Rohirrim è puramente orale).

Tale più alta “nobiltà” dei re númenoreani rispetto ai loro omologhi del Mark è efficacemente rappresentata dal fatto che questi ultimi sono del tutto privi del carisma magico che contraddistingue gli eredi di Elendil. Non vi sono tra loro re taumaturghi o personaggi che mostrino di possedere doti profetiche. Ciò è da imputarsi essenzialmente al fatto che le dinastie regnanti sono puramente umane, non essendoci state unioni tra Uomini ed Elfi nelle storie dei re di Rohan. Essi ed il loro popolo, inoltre, discendono dagli Uomini del Crepuscolo, popolazioni che, pur consanguinee delle tre stirpi degli Amici degli Elfi, non intrapresero con loro il viaggio verso Númenor e quindi rimasero esclusi dalla crescita intellettuale e biologica che il contatto con gli Elfi ed il favore dei Valar permisero ai númenoreani.

Nel rapporto fra la millenaria e raffinata civiltà di Gondor e quella nobilmente primitiva dei Rohirrim sorge spontaneo il rimando a quello fra Impero Romano e popoli barbari. Parallelo niente affatto gratuito, primo perché Tolkien sovente, parlando di Gondor, si richiama alla storia romana32, e secondo perché la storia degli Eorlingas è chiaramente modellata su quella dei popoli germanici dell’età delle migrazioni (V-VI sec. D.C.).

Riassumiamola brevemente: gli Éothéod, antenati dei Rohirrim, sono i discendenti delle popolazioni settentrionali del Rhovanion, a lungo fieri avversari di Gondor, ma da tempo in relazioni amichevoli con il Regno Meridionale, dopo che Minalcar I aveva loro dato delle terre a sud di Bosco Atro da difendere in suo nome dai comuni nemici orientali e ne aveva arruolati molti nell’esercito, dando loro anche posizioni di comando; ma specialmente dopo il matrimonio fra Valacar figlio di Minalcar e Vidumavi, figlia del re del Rhovanion Vidugavia.33 Già da queste pochi cenni è palese il parallelo con le relazioni tra Roma e barbari nella Tarda Antichità: assegnazione di terre a scopo di difesa contro altri invasori, “barbarizzazione” dell’esercito e degli alti comandi. Stretti nelle loro terre settentrionali a causa della sovrappopolazione, gli Éothéod rispondono alla chiamata di Gondor, assalita nel 2510 T.E. dagli Esterlings (Uomini selvaggi dell’Est che potremmo facilmente paragonare agli Unni o ai Mongoli) e, guidati da Eorl il Giovane, sconfiggono i nemici in una grande battaglia. In ricompensa, ricevono le terre del Calenardhon, ossia i confini settentrionali di Gondor e vi migrano in massa per ripopolarle. Eorl giura eterna amicizia al Sovrintendente di Gondor e diventa il primo Re del Riddermark (cioè della terra dei cavalieri) ed essi mutano il loro nome da Éothéod (“popolo dei cavalli” in Antico Inglese) in Eorlingas, cioè “figli (o seguaci) di Eorl”, fondatore del nuovo paese e della dinastia.34

Ci sono dunque tutti gli elementi che giustificano un loro accostamento ai barbari storici: l’antica alleanza, la migrazione, l’eroe eponimo, la battaglia con i nemici ancestrali, il patto (foedus), il territorio ricevuto in dono da una civiltà più avanzata: possiamo considerare i Rohirrim come foederati di Gondor, più o meno alla stregua dei Goti della fine del IV secolo.35

Il contatto diretto e l’alleanza favorisce la commistione fra le due culture, così che i valori dell’una penetrano nell’altra, come dice Faramir a Frodo.36 E se in questo possiamo vedere un ulteriore riflesso della storia della Tarda Antichità, con la commistione culturale dei regni romano-barbarici, ancor più possiamo rilevare le tracce di un altro tema molto caro a Tolkien: quello della compenetrazione fra etica nordica (qui rappresentata dagli “anglosassoni” Rohirrim) e cultura giudaico-cristiana, della quale i Dúnedain, “pieni del ricordo di altre cose” (ovvero dell’età edenica della prima Númenor) sono una chiara prefigurazione. Come la cristianizzazione dei popoli germanici rappresenta per Tolkien uno snodo, un “punto di fusione” fondamentale nella storia del Mondo Primario, così il cammino dei Popoli Liberi verso il recupero della piena consapevolezza del retto rapporto fra creature e Creatore, tra vita individuale e Storia universale (simboleggiato dal ripristino della regalità númenoreana) rappresenta il fulcro della storia del Signore degli anelli.37



Le “ossa” e la “zuppa”: il tema della regalità tra Storia e mitopoiesi

E’ venuto il momento di interrogarsi più da vicino sulla genesi del tema regale nell’opera di Tolkien nel corso della sua redazione, cercando anche di definire quegli elementi del Mondo Primario che possono ritrovarsi, fusi e rimodellati, nella narrazione del “ritorno del re”.

La storia biblica degli Ebrei ha fornito chiaramente molti spunti per la vicenda di Númenor e degli Uomini dell’Ovest, con il suo schema di elezione, traviamento e caduta, con un Diluvio a suggellare la definitiva punizione dei reprobi. Anche la storia dei Regni in Esilio ricorda quella del regno di Israele (diviso in due dopo la morte di Salomone) e il diverso destino della linea di Davide, che si mantiene al sud intatta di padre in figlio, mentre nel regno settentrionale subito si perde.38 Dalla dinastia davidica nascerà poi Gesù Cristo, il Salvatore: evidenti le somiglianze con le vicende della dinastia regale númenoreana.

Se i Rohirrim, come abbiamo visto, sono modellati sui Germani e gli Anglo-Sassoni dell’età delle invasioni, o meglio su di un “tipo” pagano purgato dei suoi elementi più feroci (con evidenti richiami al mondo precristiano descritto nel Beowulf)39, il topos del re guaritore rimanda invece a tutto un fertile campo di studi sulla regalità sacra, che proprio durante la giovinezza di Tolkien aveva trovato una mirabile sintesi in quel classico della storiografia moderna che è Les rois thaumaturges di Marc Bloch, pubblicato a Strasburgo nel 1924. Più che ai rimandi al “tocco miracoloso” del re Edoardo il Confessore nel Macbeth di Shakespeare (ove peraltro rimane assai “dietro le quinte”), è alla tradizione di miracoli regali in Francia ed Inghilterra che questo libro sapientemente esplora che si deve l’inclusione del tema del re come guaritore nel capolavoro di Tolkien.

Il Beowulf, ancora, resta una delle principali fonti di ispirazione. In particolare il prologo, con la storia del re Scyld Scefing, giunto bambino misteriosamente dal mare e al mare riconsegnato su di una nave funeraria dopo un regno lungo e vittorioso. Tolkien riutilizza questo topos letterario sin dal 1937, quando lavora a The Lost Road, la storia di viaggi nel tempo che doveva affiancarsi a quella di viaggi spaziali dell’amico Clive Staples Lewis, poi pubblicata come Out of the Silent Planet.

Scyld Scefing (sviluppato e trasformato in Re Sheave, progenitore dei re dei popoli nordici, dai Goti ai Sassoni, dai Franchi ai Longobardi), i viaggi di San Brandano, Tir-na-Nog e le Isole Benedette e in generale l’idea (prominente nei miti celtico-irlandesi) dell’esistenza ad occidente dell’Europa di una “Terra Benedetta”,40 si raccordano in quest’opera incompiuta a motivi tipicamente tolkieniani come quello dei “re venuti dal mare”, del rapporto tra Númenor e Terra di Mezzo e della Strada Dritta verso Valinor.41 Da questo coacervo di temi nasce la prima versione della leggenda della Caduta di Númenor, nella quale elementi fondamentali come i doni e gli insegnamenti divini, la scelta dei Valar di Elros quale primo re degli Uomini per il suo sangue “misto”, divino-elfico ed umano, la fondazione dei Regni in Esilio e la guerra dell’Ultima Alleanza, sono presenti fin dal principio.42

Il 15 novembre 1937 Tolkien manda quanto scritto di The Lost Road al suo editore Stanley Unwin; circa un mese dopo comincia a scrivere “il seguito dello Hobbit”, cioè Il Signore degli Anelli.43 Da questo momento in avanti la “materia di Númenor” e la “materia dell’Anello” evolvono di pari passo, si intrecciano, si mescolano, si influenzano a vicenda per fondersi poi con mirabile coerenza nell’opera compiuta.

Nei primi mesi di scrittura i due nuclei narrativi procedono paralleli, con la materia númenoreana a far da sfondo alla storia dell’Anello, che a sua volta si trasforma dal semplice oggetto magico de Lo Hobbit nell’Anello Dominante di Sauron.44 Trotter, l’antecedente di Strider/Grampasso che Frodo e compagni incontrano nella locanda di Brea, è ancora solo un hobbit dall’oscuro passato. È solo con le “final decisions” dell’ottobre del 1939 che il collegamento fra Númenor e l’Anello è definitivamente stabilito e Trotter diventa Aragorn, un Uomo della casata di Elrond, discendente di Elendil dell’Ovesturia.45

La storia degli antenati di Aragorn da Elendil in poi e di conseguenza quella dei Reami in Esilio, resta tuttavia nebulosa ancora per diverso tempo. Nei mesi a cavallo tra 1940 e 1941, con la quarta e quinta rielaborazione del capitolo Il Consiglio di Elrond, la vicenda della fondazione di Arnor e Gondor fino alla guerra dell’Ultima Alleanza raggiungerà lo stadio conclusivo. Ma la storia del Regno del Nord successivamente alla morte di Isildur è ancora molto diversa e assai più breve: a Minas Tirith governano ancora gli eredi della linea di Anàrion e non vi è menzione pertanto dei Sovrintendenti e dell’attesa per il “ritorno del re”. Boromir è ancora “il figlio del Re di Ond” e gli schemi preparatori per i successivi capitoli prevedono che Aragorn sarà scelto come re solo dopo la morte del “Lord of Minas Tirith” durante l’assedio della città.46

Alla fine del 1942, portata a buon punto la parte relativa a Rohan e alla distruzione di Isengard da parte degli Ent, Tolkien interrompe la stesura del romanzo. A questo stadio della composizione, sebbene lo stesso Tolkien riconosca che la materia che si sta sviluppando sotto le sue mani diventa sempre più “adulta” e “terrificante”, riflettendo in qualche modo “l’oscurità dell’epoca presente”,47 Il Signore degli Anelli è ancora sostanzialmente un romanzo di avventura abbastanza classico, dissimile in grado, ma non in genere, dalla storia di cui dovrebbe costituire il seguito.

Ma quando egli riprende finalmente in mano il suo capolavoro, nell’aprile 1944, il tema del ritorno del re e del ristabilimento della monarchia númenoreana acquistano sin da subito una complessità e pregnanza prima assenti, mentre tutta l’opera subisce una fondamentale svolta, lasciandosi alle spalle il registro puramente avventuroso e virando decisamente verso un heroic romance di poderosa ampiezza e profondo significato.

Nel capitolo intitolato “Faramir”, letto agli Inklings l’8 maggio 1944, emergono con chiarezza i Sovrintendenti di Gondor e con essi il tema dell’attesa del ritorno della linea regale. Soprattutto, il discorso di Faramir a Frodo sulla storia di Gondor e sulla triplice divisione degli Uomini in Alti, Medi e Selvaggi (o della Luce, del Crepuscolo e delle Tenebre), pone in una prospettiva di assai maggiore profondità tutto il nucleo narrativo della restaurazione dell’eredità di Númenor, inserendola in un orizzonte di renovatio etica e culturale del tutto nuovo.48

Da qui in poi il racconto, ormai divenuto, a detta dello stesso Tolkien, “più ampio e più serio”,49 prende via via corpo nella sua fisionomia compiuta; nel novembre dello stesso anno, in una lettera al figlio Christopher, l’autore tratteggia uno schema della parte finale del romanzo che, nelle sue grandi linee, rispecchia quella che sarà la trama definitiva, soprattutto per quanto riguarda il destino di Aragorn:

Così finisce l’Età di Mezzo e comincia il Dominio degli Uomini ed Aragorn, lontano sul trono di Gondor, si sforza di portare ordine e conservare il ricordo dei tempi antichi nelle masse disordinate di uomini che Sauron aveva riversato in Occidente.”50

Cos’è dunque successo in quei mesi di guerra, decisivi per le sorti del conflitto, da determinare una svolta altrettanto decisiva per le vicende del Signore degli Anelli? Tutta una serie di elementi personali, culturali, emozionali sono venuti a maturazione sotto la enorme pressione emotiva e psicologica del conflitto: il frutto che ne nasce prende, tipicamente, la forma di una storia.

A un mese dallo sbarco in Normandia così Tolkien scriveva al figlio Christopher, ufficiale della R.A.F. in Sud Africa:

(...) Beh, eccoti qua: uno Hobbit in mezzo agli Urukhai. Conserva nel cuore la tua hobbitudine e pensa che tutte le storie sono così quando ci sei in mezzo. Tu sei dentro una storia molto grande! Penso anche che tu stia soffrendo per una voglia repressa di scrivere. Questo può essere colpa mia. Tu sei stato troppo influenzato da me e dal mio particolare modo di pensare e di reagire. E dato che siamo così simili la vicinanza si è dimostrata troppo efficace. Può anche darsi che ti abbia inibito. Penso che se tu riuscissi a cominciare a scrivere, e a trovare un tuo modo espressivo, o anche (all’inizio) imitare il mio, saresti molto sollevato. Io percepisco tra le altre tue sofferenze (alcune meramente fisiche) il desiderio di esprimere in qualche modo i tuoi sentimenti sul bene, sul male, sul bello, sul brutto: razionalizzarli e impedire che si incancreniscano. Nel mio caso questo desiderio ha generato Morgoth e la Storia degli Gnomi.51

Razionalizzare la propria esperienza, esprimere il proprio “commento al mondo” sotto forma di storie fantastiche: così aveva fatto il sottotenente Tolkien nella Prima Guerra Mondiale, così consigliava a quel figlio così simile a lui durante la Seconda. Ma così (anche) continuava a fare il Professor Tolkien in quegli stessi giorni del 1944:

Quanto a cosa cercare di scrivere: non saprei. Io provai un diario con ritratti (alcuni sprezzanti, altri comici, altri encomiastici) di persone e avvenimenti, ma non era la mia strada. Così mi diedi all’ “escapismo”, o meglio a trasformare l’esperienza in altra forma e simbolo con Morgoth e gli Orchi e gli Eldalie (che rappresentano la bellezza e la grazia della vita e dell’arte) e così via. E mi è tornato molto utile da allora in molti anni difficili e ancora adesso mi rifaccio ai concetti allora forgiati.52

Tolkien parla al figlio, ma descrive anche se stesso: come la Grande Guerra aveva catalizzato le sue sensazioni dando inizio alle storie che avrebbero poi composto il Silmarillion, i nuovi avvenimenti bellici e le loro conseguenze immediate e prevedibili sollecitavano e riplasmavano il suo animo, facendogli apparire la semplice storia di avventura fin qui venuta formandosi sotto la sua penna ormai inadeguata ad esprimere i suoi più profondi sentimenti. Le lettere al figlio sono piene dei suoi commenti e della sua amarezza:

Stiamo tentando di vincere Sauron usando l’Anello. E ci riusciremo (sembra). Ma lo scotto, come sai, sarà di allevare nuovi Sauron e di trasformare lentamente Uomini ed Elfi in Orchi.”53

Nella sua storia doveva andare diversamente.

Tolkien non era, del resto, l’unico autore novecentesco cui l’esperienza della guerra portava ad esprimersi attraverso il mezzo del fantastico: come ci ha mostrato Tom Shippey, in quegli anni i concetti di potere, male, umanità, spazzate via dall’orrore delle guerre e dei totalitarismi le illusioni e gli abbellimenti del secolo precedente, stavano subendo una radicale rielaborazione nella coscienza collettiva e nella cultura ed autori come George Orwell, William Golding, Kurt Vonnegut usavano la letteratura fantastica per comunicare questa nuova percezione della realtà. Alcuni, come Terence Hanbury White, David Jones, Clive Staples Lewis e Tolkien stesso utilizzavano a tale scopo la “strumentazione mentale” dell’epoca precedente, ribadendone la validità interpretativa pur in un contesto profondamente mutato e messo in crisi dall’esperienza della guerra54.

Per meglio comprendere perché questo humus culturale finisca per concretizzarsi in Tolkien nella gigantesca espansione della storia e della “profondità” della Terra di Mezzo e del ruolo di Aragorn all’interno delle vicende della Terza Era, occorre guardare più da vicino all’immediato milieu culturale del Professore di Oxford, al gruppo di amici e colleghi che egli frequenta assiduamente, ai quali legge la sua opera, con i quali discute, si confronta, stimola e viene stimolato: il club degli Inklings. E gli Inklings, in quei mesi tra 1943 e 1944, parlano di Re Artù.

Charles Williams aveva già pubblicato (1939) un volume di poesie di ambientazione arturiana: Taliessin through Logres, recensito molto favorevolmente da C.S. Lewis; nel 1944, dopo averne letti ampi brani agli Inklings, porta a compimento e pubblica il secondo volume della serie: The Region of the Summer Stars.55 L’estrema difficoltà e l’ardito e spesso oscuro simbolismo dei versi di Williams lasciarono Tolkien freddo e alquanto perplesso, e lo stesso Lewis, nonostante il suo entusiasmo, dovette ammettere che certi passaggi gli rimanevano indecifrabili. E tuttavia, nelle lunghe discussioni, attraverso le spiegazioni di Williams e i commenti di Lewis, qualcosa della complessa trama dei poemi dovette stimolare Tolkien, fosse solo per reazione: la contrapposizione di un idealizzato Impero Bizantino, figura del regno di Dio sulla Terra, all’impero “negativo” di P’o-Lu, suo opposto geografico e simbolico; l’elevazione dell’eroe Artù ad uomo ideale, punto di fusione fra materiale e spirituale; il tentativo di instaurare a Logres (la Britannia) un regno comparabile a quello dove risiede il Graal, immagine suprema di purezza e perfezione in quanto simbolo dell’Eucarestia. Creare questo regno è la missione di Merlino e per questo egli aiuta Artù a vincere i propri nemici e a realizzare quella perfetta unione tra “cielo” e “terra” che permetterà al Graal di venire in Britannia. La missione del bardo Taliessin, aiutato dalla propria Compagnia (la Tavola Rotonda), sarà quella di modellare il nuovo regno sull’Ordine divino che egli ha visto incarnato in Bisanzio. La missione fallirà e Logres tornerà nel caos, ma il ciclo di poemi si chiude con una nota di speranza assai simile a quella che pervade l’opera di Tolkien: pur se il tentativo di stabilire l’ordine divino sulla Terra ha solo un effimero successo, ben presto vanificato dalle conseguenze della Caduta, pure il Graal rimane e la terra benedetta di Sarras, dove risiede, esiste in eterno, inattingibile dalla corruzione.56

L’influenza del pensiero e delle tematiche di Williams fu particolarmente forte su C.S. Lewis, tanto da inserire Merlino, Logres e la “materia di Bretagna” all’interno di That Hideous Strength (pubblicato nel 1945), il capitolo finale della trilogia fantascientifica iniziata con Out of the Silent Planet.57

Questa predilezione per i racconti di ambientazione arturiana non deve del resto sorprenderci, sia perché uno degli elementi di coesione degli Inklings era l’amore per la mitologia e le antiche leggende, considerandole un veicolo di verità valido anche (e soprattutto) per il mondo moderno; sia perché Artù e i racconti connessi alla sua figura costituivano uno dei riferimenti essenziali per la letteratura inglese almeno dal XII secolo, acquistando poi particolare rilevanza nel movimento romantico inglese in letteratura ed in pittura. Autori ed artisti come Keats, William Morris, i Pre-Raffaelliti, Alfred Tennyson e altri che, come loro, figurano tra i più diretti referenti culturali degli Inklings, se ne erano nutriti.58 Più in generale, il mito arturiano-cavalleresco aveva impregnato tutta la cultura inglese dell’epoca vittoriano-eduardiana, che ne sottolineava i valori di lealtà, onore e abnegazione. Tolkien, nato verso la fine dell’epoca vittoriana, aveva respirato a fondo questa atmosfera e, fra i suoi più intimi amici Geoffrey Bache Smith, destinato a morire sulla Somme nel 1916, condivideva con lui la predilezione per i più antichi nuclei della leggenda di Artù.59

La Seconda Guerra Mondiale, poi, aveva dato nuovo vigore e accentuato il significato simbolico delle vicende arturiane, risultando in “uno spostamento dalla fantasy verso un misto di realismo storico e interpretazioni mistiche”, come ad esempio nella trilogia di T.H. White The Once and Future King, pubblicata proprio nel periodo di stesura de Il Signore degli Anelli. 60

Con tutte le sue riserve sulla sua validità come fairy-story, dunque, anche Tolkien conosceva ed amava le leggende e tradizioni coagulatesi intorno alla figura di Artù nel corso dei secoli, e, come si è visto, le aveva ben presenti negli anni della guerra, tanto da richiamarle espressamente in The Notion Club Papers.

Redatta durante la ulteriore lunga pausa nella stesura del Signore degli Anelli tra la fine del 1944 e la prima metà del 1946, rielaborando e sviluppando il materiale relativo a The Lost Road, questo racconto sposta nuovamente il fulcro del legendarium tolkieniano verso le vicende dei Dúnedain. Il coevo e strettamente connesso The Drowning of Anadûnê, per di più, con la creazione dell’Adunaico e la risistemazione delle leggende concernenti la Caduta di Númenor e la Strada Dritta, ci presenta per la prima volta un punto di vista prettamente umano e non più solo elfico sugli avvenimenti delle prime due ere.61

In questi scritti, soprattutto, egli approfondisce la dimensione spirituale della primitiva storia degli Uomini, segno ulteriore dell’ampliarsi del suo orizzonte narrativo e del profondo ripensamento in senso simbolico-mitologico dell’intero corpus della propria opera. In questo nuovo quadro, la vicenda dei re di Númenor acquista sempre più il valore e le caratteristiche di un rispecchiamento della condizione umana all’interno della Storia della Salvezza.

Tutto questo contribuì a focalizzare l’interesse di Tolkien sul significato del filone narrativo del “ritorno del re”. Il riflesso sul romanzo di queste ulteriori elaborazioni, che rafforzano e sostanziano la “svolta” del 1943-44, si risolve nell’inserimento di elementi che concretizzano e definiscono il valore mitico-simbolico della vicende narrate: appaiono così i Sentieri dei Morti, il suicidio di Denethor, col suo significato di “tramonto di un epoca”, i poteri taumaturgici di Aragorn, ed il loro valore di segno attraverso cui riconoscere il “vero Re” e, soprattutto, la storia d’amore tra Aragorn e Arwen coronata nel matrimonio finale, che suggella la fine di un era e annuncia l’avvento del dominio degli Uomini, rinnovando l’unione tra “spirito” e “materia”, tra “divino” e “umano”. Il risultato in termini narrativi di questa infusione di nuova linfa nel romanzo è di fare della figura di Aragorn il fulcro, il punto di fusione, della complessa trama storico-mitologica della Terra di Mezzo, e al tempo stesso l’espressione del suo ideale umano più “alto”. 62



Ordinare e preservare: la regalità come pienezza dell’umano

Tirando le somme di tutto quanto siamo venuti dicendo, possiamo azzardare una interpretazione del significato che Tolkien intese assegnare al tema della regalità nella sua opera maggiore. Sul fatto che un tale significato vi sia, aldilà dell’utilità del “ritorno del re” quale espediente narrativo, come “motore” della storia (insieme alla missione del Portatore dell’Anello), mi sembra inutile discutere. Ciò non vuol dire che si debba forzare l’interpretazione fino a farla divenire il motivo unico ed ultimo della genesi di questa tematica o del romanzo stesso: prima di tutto, come Tolkien ci ammonisce più volte, viene sempre la storia:

Spero che le sia piaciuto Il Signore degli Anelli. Piaciuto è la parola esatta. Perché è stato scritto per divertire (nel senso più alto del termine): per essere leggibile. Non c’è nessuna allegoria nell’opera: né morale, né politica, né del mondo contemporaneo.

È una “storia fantastica”, ma scritta apposta per gli adulti (...) Perché io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria o dalla satira (quando è elevata), o dal “realismo”, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere e anche commuovere a volte, e, all’interno del suo mondo immaginario, essere (in senso letterario) credibile. Riuscire a ottenere tutto questo è stato il mio obiettivo principale.63

Con questo monito ben presente, cerchiamo dunque di trarre delle conclusioni. È ancora l’autore a venirci in aiuto: nella stessa lettera ci avverte che, per piacere agli adulti, la storia fantastica deve contenere qualcosa che vada oltre la mera avventura, qualcosa che abbia “attinenza con la «condizione umana» (di qualsiasi periodo).” Attraverso questo elemento, per così dire, universale, “qualcosa delle riflessioni e dei «valori» del narratore finirà inevitabilmente per essere inserito” nella narrazione.

Come abbiamo cercato di dimostrare, la storia di Númenor, dei Fedeli e della Casa di Elendil ha molto a che fare con la condizione umana, specialmente considerata dal punto di vista dei rapporti tra creature e Creatore. Il lento allontanarsi della Terra di Mezzo dalla primigenia bellezza e grazia, la decadenza dei Dúnedain da Popolo Eletto a disuniti relitti di una grande stirpe, le sfortunate vicende degli eredi di Elendil, privati della dignità regale e in parte estinti, rimandano tutti ad una visione dell’umanità decaduta dalla perfezione del Paradiso Terrestre, corrotta dal peccato, allontanatasi dal proprio Creatore tanto da averlo dimenticato. L’ideale umano di Tolkien è reso narrativamente dalla prima Númenor: un regno dove saggezza, umiltà e spiritualità si fondono in un tutto armonico. I primi Númenoreani, accettando il bando dei Valar (riflesso della proibizione della Genesi) e avendo piena coscienza del loro corretto rapporto con il Padre di Tutti, Eru Ilùvatar, riescono a vivere in armonia con se stessi e con il creato, e sono capaci di far propri gli insegnamenti dei Valar (gli angeli) e degli Elfi (incarnazione delle più nobili qualità umane, soprattutto nella loro accezione artistica) e di crescere in statura morale e fisica.

Se dunque i Númenoreani riflettono uno stato edenico dell’uomo, la più alta e compiuta espressione della civiltà degli Uomini nella Terra di Mezzo, i re di Númenor (re-sacerdoti, ricordiamolo) rappresentano l’incarnazione più alta dell’ideale umano, il massimo grado di “perfezione” raggiungibile da una umanità pur sempre corrotta e suscettibile di cadere. E difatti anche i re númenoreani cadranno, per il loro orgoglio e per la paura della morte, che sono poi i vizi che Tolkien ed i suoi amici vedono nell’uomo moderno, orgoglioso perché, nel suo delirio scientista, ha pensato di poter fare a meno di Dio e di negarne l’esistenza, ma sempre più terrorizzato da una morte che, spento ormai ogni barlume di speranza ultraterrena, proprio per questo gli appare come l’inesorabile e inaccettabile fine di ogni cosa.

La regalità umana mi pare dunque essere in Tolkien, ad un primo livello, figura della condizione umana nella Storia. In questo senso, la quest di Aragorn viene a rappresentare miticamente il recupero (recovery) da parte dell’uomo della “pienezza” dell’esistenza, del senso più autentico della propria umanità. Per questo egli è chiamato Envinyatar, il Rinnovatore e si trasfigura, all’incoronazione, nell’immagine dei grandi re del passato. Per questo, ancora, solo lui può essere “vero re”: il ripristino dell’equilibrio perduto che il ritorno del re simboleggia può essere portato a termine unicamente dal portatore dell’eredità umano-elfica, della fusione del divino nell’umano. Qualsiasi altro “potere” sarebbe inferiore in quanto incompleto.

Ma il suo essere una sorta di “incarnazione della storia” non esaurisce l’applicabilità dei valori simbolici del personaggio di Aragorn/Elessar. A livello personale, egli incarna il coraggio e la forza dei grandi eroi dell’antichità nordico-germanica, tanto cara a Tolkien; egli tuttavia ne mitiga le caratteristiche “selvagge” con quelle virtù che sono altrettanti segni della sua “superiorità” (nel senso individuato sopra) e che per Tolkien manifestano, anche in un pre-cristiano, l’anima naturaliter christiana, quella “religione naturale” che Dio ha instillato nell’animo di ogni uomo: senso del divino, rispetto per l’altro, umiltà, abnegazione, spirito di sacrificio e di servizio. Quale eroe delle saghe nordiche avrebbe rischiato tutto quanto appena ottenuto, come fa Aragorn di fronte al Cancello Nero, sacrificando il compimento della propria missione al solo scopo di guadagnare tempo per un compagno che potrebbe trovarsi ancora troppo lontano dalla meta per poter farne tesoro o essere addirittura già morto?

L’eroismo di Aragorn sta dunque a simboleggiare la fortitudo cui ogni uomo deve dar prova nella sua lotta contro le avversità della vita, contro il Male: il rifiuto della disperazione, la convinzione che, indipendentemente dalle probabilità di vittoria, anzi tanto più quanto queste siano tenui o nulle, vale sempre la pena di combattere per “la buona causa”. Come Beowulf, egli è “un mortale circondato da un mondo ostile”, risoluto alla lotta e consapevole della sua probabile sconfitta nel tempo, ma cosciente della presenza di qualcosa aldilà dei “Cerchi del Mondo”, di una Provvidenza e di un Bene invincibili dalla corruzione, che rendono ogni vittoria del Male in ultima analisi inutile e vana.

Certo, nel suo eroismo, Tolkien dipinge in Aragorn un ideale da raggiungere, più che rispecchiare l’uomo come noi lo conosciamo, con i suoi dubbi, le sue incertezze, le sue angosce. Non è questa, del resto, la sua funzione: se fosse stato calato di più nella realtà comune la sua valenza mitica ne sarebbe stata inevitabilmente compromessa. Aragorn, come Artù, come Beowulf (almeno nell’interpretazione che ne dà Tolkien) è l’uomo ideale, indica la dimensione eroica insita in ciascuno. E in quanto modello di “vero uomo” e “vero re” egli non può che rimandare, al di fuori dalla dimensione narrativa, a colui che, per Tolkien come per ogni cristiano, è la “incarnazione” stessa della verità: Gesù Cristo.

Ad alcune analogie con la figura del Salvatore abbiamo già accennato: come Gesù nasce dalla dinastia di David, da tempo decaduta dal potere, così Aragorn è “l’ultimo di una cenciosa dinastia, priva da tempi immemorabili di nobiltà e dignità.” Il suo ingresso a Mordor dopo la caduta di Sauron è celebrato dalla canzone dell’aquila con toni che abbiamo visto richiamare la discesa di Cristo agli Inferi fra la Passione e la Risurrezione. Elessar viene a ristabilire un equilibrio, a rinnovare i tempi antichi: il Rinnovatore (Envinyatar) prefigura in tal senso il Salvatore, che giunge a rinnovare l’antica alleanza e a ristabilire l’equilibrio rotto dal peccato originale, a vincere la Morte riportando la speranza (ed Estel, Speranza, è un altro degli epiteti di Aragorn). Anche il ritorno del re non può non far pensare alla Parusìa, la seconda venuta sulla Terra del Cristo Re dei Re, quando “verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.”

Ma l’analogia non va spinta troppo oltre: il regno di Aragorn, benché lungo, avrà fine e dopo di lui altre cadute, “altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario” e non “il” Male. L’accostamento al Cristo rafforza tuttavia la dimensione mitica di Aragorn/Elessar, ne accresce potentemente il valore simbolico. Come Cristo, Nuovo Adamo, apre un’era di salvezza e speranza con la Sua Resurrezione, così Frodo e Aragorn, entrambi portatori di elementi cristologici, annunciano un’età nuova: Frodo, col proprio sacrificio, chiude la Terza Era, liberando il mondo da “un grande male” e lasciando i popoli della Terra di Mezzo padroni del proprio destino. Aragorn, ristabilendo la “vera monarchia”, apre la Quarta Era, l’età del Dominio degli Uomini. A lui, “uomo ideale”, simbolo della umanità redenta dall’Ombra di Mordor, spetta il compito di “ordinarne il principio e conservare ciò che va conservato”.64 Il matrimonio con Arwen rinsalda a tal fine l’unione tra nuovo ed antico,65 preservando simbolicamente nell’età che comincia quella “qualità elfica” che è per Tolkien metafora di quanto vi è di nobile ed alto nell’essere umano, soprattutto di quella capacità di sub-creazione artistica che è riflesso nella creatura umana dell’atto creativo divino e veicolo potente di verità.66

Qui sta difatti il centro della concezione teologico-artistica tolkieniana: l’uomo crea in quanto è creatura, figlio di un Dio Creatore. Ma la vera via della creazione è attraverso la libertà, non il dominio sul creato. Dio, il “supremo Artista”, lascia le sue creature libere anche di compiere il male: così il carattere essenziale della sub-creazione artistica umana è, per Tolkien, la rinuncia al potere sulla propria (o altrui) opera. La possessività e la brama di dominio è infatti il peccato che danna Melkor, Feänor, Sauron e Saruman.

Tutto ciò si riflette nell’atteggiamento di Tolkien verso la politica:

Le mie opinioni politiche inclinano sempre più verso l’anarchia (intesa come abolizione del controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe) - oppure verso una “monarchia incostituzionale”. Arresterei chiunque usi la parola Stato (intendendo qualsiasi cosa che non sia la l’Inghilterra e i suoi abitanti, cioè qualcosa che non ha poteri, né diritti, né intelligenza) (...).67

Questo “anarchismo teologico” di Tolkien, per riprendere la definizione di Brian Rosebury, si sostanzia in una istintiva diffidenza verso le istituzioni, anche quelle liberali o democratiche, in quanto sentite come essenzialmente coercitive.68 Per questo le società politiche positive del romanzo sono presentate o come un bonario e strapaesano misto di aristocrazia e repubblica (la Contea) o, nel caso di Rohan e di Gondor, come

quello che Tolkien chiama “monarchie incostituzionali”, cioè sistemi di governo personale diretto, le cui strutture di comando sembrano essere largamente confinate a scopi militari e dipendere in ogni caso dalla lealtà personale e dal mantenimento dei giuramenti, piuttosto che da un apparato di governo formalizzato.69

Per questo è difficile cogliere nel simbolismo del “ritorno del re” l’indicazione di un favore di Tolkien per tale o tal’altra forma di governo storicamente identificabile o, ancora, per una società gerarchizzata sotto la direzione di un monarca di diritto divino, ispirata più o meno direttamente ad un idealizzato Medioevo cristiano.

Tolkien, da buon suddito britannico, non aveva alcun problema ad accettare la divisione in classi della società inglese del suo tempo: non era lì, nelle forme esteriori della organizzazione sociale o politica, che identificava il problema della umana convivenza, ma nell’animo stesso di ogni singolo uomo. Se il potere, qualunque potere corrompe, degenerando in volontà di dominio sugli altri e sulle cose (e per questo l’Anello non può essere usato nemmeno dai “buoni”), la soluzione sta nella rinuncia alla coercizione (l’abolizione del controllo), nell’imitazione di un Dio “Supremo Artista”, che lascia la massima libertà alle sue creature e non le dirige come automi (come fa invece Sauron con i suoi Orchi e i suoi Troll) e nel recupero del senso più autentico dell’uomo, umile perché creatura, ma capace di nobiltà e grandezza perché creato ad immagine e somiglianza di un Creatore.

Re Elessar sul trono è il simbolo potente di questa redenzione sempre possibile.





1 La traduzione italiana non riporta l’aggettivo “pagani”, ma il testo inglese parla esplicitamente di “heathen kings, under the domination of the Dark Power”. Vedi Il Signore degli Anelli, parte III, libro V, cap. Il rogo di Denethor.

2 J.R.R. TOLKIEN; Il Silmarillion; Milano, Bompiani, 2000; pag. 174, cap. “L’avvento degli Uomini in Occidente.” Beor aggiunge che molti altri uomini “mossi dagli stessi propositi”, erano in marcia verso il Beleriand. Tutte queste stirpi formeranno le Tre Case degli Edain, antenati dei Dunedain, ovverosia dei Númenóreani.

3 Cfr. Tom SHIPPEY, The Road to Middle-Earth; London, HarperCollins, 1992; pp. 209-210: “Significantly, (Tolkien) left a gap in the Silmarillion, or designed a dovetail, for the Fall of Man as described in the Old Testament. (...). Clearly one can, if one wishes, assume that the exploit of Morgoth of which the Eldar never learnt was the traditional seduction of Adam and Eve by the serpent, while the incoming Edain and Easterlings are all sons of Adam flying from Eden and subject to the curse of Babel.”

4 J.R.R. TOLKIEN; Il Silmarillion; op. cit.; pp. 183-184.

5 Ibidem.

6 Ivi, pp. 326-328.

7 J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973; Milano, Bompiani, 2001; lettera 156, pag. 232 e lettera 211 pag. 317. Tolkien richiama questo parallelo parlando del monoteismo stretto della loro religione e dell’assenza dei templi nei loro reami; vedi anche l’analogo accostamento fatto da Franco Manni in Introduzione a Tolkien; Milano, Simonelli, 2002; pp. 222-223.

8 “Descrizione dell’Isola di Númenor “ in J.R.R. TOLKIEN; Racconti Incompiuti di Númenor e della Terra di Mezzo; Milano, Rusconi, 119; pp. 230-231.

9 J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza; op. cit; lettera n. 156, pag. 234. Ho rimaneggiato la traduzione nei punti nei quali, a mio parere, non è soddisfacente. Per il testo in originale vedi J.R.R. TOLKIEN, The Letters of J.R.R. Tolkien; edited by Humphrey Carpenter and Christopher Tolkien; London, HarperCollins, 1995; pp. 206-207. L’edizione inglese ha anche un ottimo indice analitico-tematico.

10 J.R.R. TOLKIEN, Il Silmarillion; op. cit.; pag. 345.

11 J.R.R. TOLKIEN, Il Signore degli Anelli; Milano, Bompiani, 2000.; Appendice A: “Annali dei Re e Governatori”, cap. 4. Gondor e gli eredi di Anàrion: “A ciò Arvedui rispose: ‘Elendil aveva due figli, di cui Isildur era il primogenito e l’erede. Il nome di Elendil è oggi il primo della linea dei Re di Gondor, poiché fu considerato l’alto re di tutte le terre dei Dùnedain. Quando Elendil era ancora in vita affidò il governo delle province meridionali ai suoi figli; ma quando Elendil cadde, Isildur partì per prendere il posto del padre, affidando anch’egli a suo fratello il governo del Sud. Egli non cedette il regno di Gondor, né volle che il reame di Elendil venisse per sempre diviso.”

12 Diverso è il discorso per Númenor, dove tuttavia la progressiva instaurazione della tirannide, culminata in Ar-Pharazon “il massimo tiranno che si fosse visto al mondo dopo il regno di Morgoth”, era funzionale ad uno schema “ascesa-traviamento-caduta” di carattere eminentemente mitico-didascalico che non viene riproposto (né potrebbe esserlo) nel “Signore degli Anelli”, opera nella quale il dispiegarsi della Storia viene vissuto in presa diretta.

13 “Ogni nuovo Sovrintendente entrava in carica con il giuramento di “tenere lo scettro e regnare in nome del re, fino al suo ritorno” Ma queste parole divennero presto parole di un rituale, ei Sovrintendenti vi facevano poco caso, esercitando l’intero potere del re. Eppure molti a Gondor credevano ancora che un re sarebbe effettivamente ritornato nei tempi a venire; e alcuni ricordavano l’antica linea del Nord, che si mormorava vivesse ancora ma in ombra. I Sovrintendenti Regnanti però fecero cattiva accoglienza a simili idee.” Il Signore degli Anelli; Appendice A, cap. “Gondor e gli Eredi di Anàrion”, par. “I Sovrintendenti”.

14 J.R.R. TOLKIEN, Il Signore degli Anelli; op. cit. ; Appendice A., cap. 5 “Storia di Aragorn e Arwen”.

15 Cfr. il primo dialogo tra Aragorn ed Elrond in ibidem.

16 Ibidem.

17 Vedi ivi, 497 e pag. 508.

18 “Non temete”, disse. “Da tempo desideravo mirare le sembianze d’Isildur e d’Anarion, antichi re della mia terra. Nella loro ombra Elessar, la Gemma Elfica, il figlio di Arathorn della Casa di Valandil, figlio d’Isildur, erede di Elendil, non ha nulla da temere.” Ivi, pag. 486. Galadriel, nel dargli la gemma verde di Arwen, gli dice “In questo momento prende il nome a te predestinato, Elessar, gemma elfica della casa di Elendil!”

19 Ivi, pag. 531.

20 Dopo aver chiesto se voleva custodire il palantìr ed essersi sentito rispondere che non poteva essere pericoloso per lui, che ne era proprietario di diritto, Gandalf consegna la Pietra di Orthanc ad Aragorn dicendo “Ricevila, sire! Sarà un pegno per tutte le altre cose che ti saranno restituite.” Ivi, pag. 721.

21 Ivi, pp. 938-939. Vedi anche l’analisi della figura di Aragorn e del suo passaggio da eroe a re in Paul KOCHER; Master of Middle-Earth. The Achievement of J.R.R. Tolkien; London, Pimlico, 2002; cap. VI, in special modo le pp. 151-152

22 Ivi, pp. 948-950 e pag. 1049.

23 Cfr. la I lettera ai Corinzi, 1,18-31 e 2,6-16.

24 Il Signore degli Anelli; op. cit.; pag. 1039.

25 Il tema del risanamento, della guarigione, del recupero della bellezza e purezza perdute è infatti strettamente legato ai Primogeniti, alla loro azioni, ai luoghi che abitano, così come alla loro natura. Basti pensare a Lùthien, a Beleg che risana Tùrin Turambar, a luoghi come Lòrien o Gran Burrone e allo scopo stesso della creazione dei Grandi Anelli da parte dei Fabbri dell’Eregion. Vedi, in generale, Colin DURIEZ, Tolkien and the Lord of the Rings. A guide to Middle-earth; London, Azure, 2001; voce “Healing”. Per Aragorn come taumaturgo vedi anche la lettera n. 155 in J.R.R. TOLKIEN, The Letters of J.R.R.T.; op. cit. pag. 200. Per gli Anelli del Potere e in particolare i Tre Anelli degli Elfi, vedi ivi, lett. 131, pag. 152 e quanto detto da Elrond a riguardo ne “Il Consiglio di Elrond”. Inutile dire che è un tema assai frequente nei racconti fiabeschi e mitologici.

26 J.R.R. TOLKIEN, Il Signore degli Anelli; op. cit. ; cap. “Il Sovrintendente e il Re”; per l’interpretazione della canzone dell’aquila vedi T. SHIPPEY, The Road to Middle-earth; op. cit. ; pp. 180-181 e IDEM, J.R.R. Tolkien autore del secolo; op. cit. ; pp. 224-225. Shippey richiama soprattutto la seconda parte del salmo 24 e la tradizione che vuole che Cristo sia disceso negli Inferi nei tre giorni seguenti la morte, per liberare i giusti dell’antichità.

27 Cfr. Bradley J. BIRZER, J.R.R. Tolkien’s Sanctifying Myth. Understanding Middle-earth; Wilmington, ISI Books, 2002; pp. 69-70 e Franco MANNI, La religione in Tolkien, in Introduzione a Tolkien; op. cit., pag. 224.

28 Per cogliere queste differenze rispetto a Gondor basta guardare, fra i tanti, ai due episodi nei quali Merry e Pipino offrono i propri servigi rispettivamente a Théoden e a Denethor. Nell’episodio di Merry Tolkien sottolinea come a muovere l’hobbit sia la riconoscenza e l’affetto verso l’anziano re, venerabile e cortese: egli è “mosso da un improvviso impeto d’amore per il vegliardo” e Théoden li accetta senza formalismi, “e posando le lunghe e venerande mani sulla testa bruna dell’Hobbit” lo benedice, lo proclama scudiero di Rohan e dandogli la spada gli dice solo di portarla “nella buona ventura”. Meriadoc rialzandosi dice: “Sarai per me come un padre.” (cap. “Il passaggio della Grigia Compagnia”). Pipino, invece, è mosso dal sentirsi in debito per Boromir, morto per difenderlo, e ancor più dal proprio orgoglio ferito dalle sprezzanti parole di Denethor. E non sono le spontanee frasi che intercorrono tra Merry e Théoden a suggellare il patto, ma una un giuramento formale di fedeltà e servizio a Gondor e al Sovrintendente del Re, che Denethor pronuncia secondo una formula prestabilita e che Pipino ripete e alla quale il primo risponde con un’altra formula di accettazione. La relazione è di tipo vassallatico e difatti poco dopo il Sovrintendente così chiama Pipino. Significativo anche il fatto che lo hobbit non diventa semplicemente lo “scudiero” del Sovrintendente, ma entra a far parte di un corpo, ovvero di una istituzione militare: la Guardia della Cittadella. (cap. “Minas Tirith”).

29 “Eärnur rassomigliava a suo padre quanto a valore, ma non quanto a saggezza. Era un uomo di decisa prestanza fisica e di carattere focoso; e non voleva prendere moglie, perché il suo unico piacere era la lotta, o l’esercizio delle armi. La sua prodezza era tale che nessuno poteva eguagliarlo a Gondor nei suoi esercizi preferiti, ed egli era piuttosto un campione che non un capitano o un re, e conservò vigore e abilità in età assai avanzata.”; in Il Signore degli Anelli; op. cit.; pp. 1253. Per la concezione di ofermod in Tolkien come overmastering pride vedi J.R.R. TOLKIEN, The Homecoming of Beorthtnoth Beorhthelm’s Son, in Tree and Leaf; London, HarperCollins, 2001; pp.121-150, le pp.143-140 ed il saggio di Richard WEST, Turin’s ofermod. An Old English Theme in the Development of the Story of Turin; in Tolkien’s Legendarium. Essays on the History of Middle-earth; edited by Verlyn Flieger and Carl F. Hostetter; London, Greenwood Press, 2000; pp. 233.-245.

30 Vedi il discorso di Faramir in Il Signore degli Anelli; op. cit, cap. “La finestra che si affaccia ad occidente”, pp. 819-820.

31 Per il Consiglio del Re di Gondor, vedi J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza; op. cit.; lettera n. 244, pp. 364-365.

32 Tolkien paragona il Regno Meridionale ad una “orgogliosa, venerabile, ma sempre più impotente Bisanzio” e accosta il ritorno del re al “ristabilimento del Sacro Romano Impero con il suo centro a Roma”. Vedi rispettivamente ivi, lett. n. 131, pag. 180 e lett. n. 294, pag. 422.

33 Vedi Il Signore degli Anelli, Appendice A: “Annali dei Re e Governatori”; pp. 1244-1245. Vidumavi e Vidugavia, tra l’altro, sono nomi in lingua gotica.

34 Cfr. i nomi di alcune dinastie anglosassoni, come gli Oiscingas re del Kent (da Oisc-Aesc, figlio di Hengest, uno dei due fratelli che la Anglo-Sazon Chronicle pone a capo della migrazione dei Sassoni in Britannia: Hengest e Horsa) o i Wuffingas, da Wuffa, primo re degli Angli Orientali. Vedi Ann WILLIAMS, Kingship and governement in pre-conquest England, c. 500-1066; Basingstoke, MacMillan Press, 1999 e The Anglo-Saxons; edited by James Campbell; London, Penguin, 1991 e il capitolo relativo di Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai giorni nostri, a cura di Kenneth O. Morgan; Milano, Bompiani, 2001.

35 Per i Cavalieri del Mark e i loro tratti comuni con Angli e Sassoni e Antichi Inglesi in genere e per un perspicuo confronto fra loro e Gondor vedi T. SHIPPEY, J.R.R. Tolkien Autore del Secolo, op. cit. pp. 131-141. In generale per i rapporti tra Impero romano e barbari e per la ricostruzione della società barbarica dell’età delle migrazioni vedi Herwig WOLFRAM, The Roman Empire and its Germanic Peoples; Berkeley, University of California Press, 1997.

36 Vedi sopra, nota n. 30.

37 Sulla mediazione fra mondo pagano e mondo cristiano in Tolkien vedi T. SHIPPEY, J.R.R. Tolkien Autore del secolo; op. cit.; pp. 197-207 e IDEM, The Road to Middle-earth; op. cit.; pp. 177-189. Vedi anche Nils Ivar AGØY, “Quid Hinieldus cum Christo?” New Perspectives on Tolkien’s Theological Dilemma and his Sub-Creation Theory; in “Proceedings of the J.R.R. Tolkien Centenary Conference 1992”, edited by Patricia Reynolds and Glen H. GoodKnight; Milton Keynes and Altadena, The Tolkien Society and the Mythopoeic Press, 1995; pp. 31-38 e Sandra BALLIF STRAUBHAAR, Myth, Late Roman History, and Multiculturalism in Tolkien’s Middle-Earth; in Tolkien and the Invention of Myth. A Reader; edited by Jane Chance; Lexington, University of Kentucky Press, 2004; pp. 101-117.

38 Vedi i Libri dei Re e di Samuele, nonché Paolo BARBIANO DI BELGIOJOSO o.c.d. ; Tolkien scrittore cattolico? In Tolkien e la Terra di Mezzo; a cura di Franco Manni; Brescia, Il Grafo, 2003; pp. 85-92 e Beppe RONCARI, La Cosmologia della Terra di Mezzo; in Introduzione a Tolkien; a cura di Franco Manni; Milano, Simonelli, 2002; pp. 225-239, le pp. 236-239.

39 Cfr. T. SHIPPEY, Tolkien Autore del secolo; op. cit.; pp. 134-138 e 201-203

40 Vedi in generale T.W. ROLLESTON, I miti celtici; Milano, TEA, 2002. Per l’utilizzo delle leggende irlandesi nella letteratura fantastica vedi la voce “Celtic Fantasy” in The Encyclopedia of Fantasy; edited by John Clute and John Grant; New York, St. Martin’s Griffin, 1999.

41 Vedi J.R.R. TOLKIEN, The History of Middle Earth (d’ora in poi HOME); edited by Christopher Tolkien; Tomo I, Vol. V: The Lost Road and Other Writings; pp. 77-104. Cito dal volume primo della edizione omnibus in tre tomi edita dalla HarperCollins nel 2002, che tuttavia mantiene la numerazione dei volumi pubblicati singolarmente.

42 Ivi, pp. 7-35.

43 HOME, vol. III: The Lays of Beleriand, pag. 364 e vol. V; pp. 7-10. La realtà in trasparenza; op. cit.; lett. n. 20, 19 dicembre 1937, pag. 34: “Ho scritto il primo capitolo di una nuova storia sugli hobbit: «Una festa a lungo attesa.».”

44 HOME, vol. VI: The Shadow of the Past; pp. 227e 256-261.

45 HOME, vol. VII: The Treason of Isengard; pp. 6-8. Vedi anche ivi, pag. 50, nella lettera di Gandalf per Frodo portata a Trotter: “This is to certify that the bearer is Aragorn son of Celegorn, of the line of Isildur Elendil’s son, known in Bree as Trotter; enemy of the Nine, and friend of Gandalf.” e pag. 82 (siamo ora verso la fine del 1940) “There are few in Middle-earth like Aragorn son of Kelegorn. The race of the Kings from over the Sea is nearly at an end” and Frodo replies: “Do you really mean that Trotter is of the race of Númenor?”

46 Per la storia di Arnor e Gondor vedi HOME, vol. VII:, pp. 119-127 e 144-145 (molto di questo materiale rifluirà poi nel capitolo Gli Anelli del Potere e la Terza Età del Silmarillion); per gli schemi di prosecuzione della storia vedi pp. 209-211. Sull’emergere dei Sovrintendenti vedi anche le osservazioni di C. Tolkien in HOME, vol. VIII: The War of the Ring, pag. 153, sulla probabilità che questo fondamentale elemento, pur se inserito nella narrazione nel 1944, risalga come concezione ai mesi a cavallo fra 1941 e 1942, quando appare per la prima volta il nome del Sire Denethor. E’ certo, tuttavia, che la storia della linea dei Sovrintendenti risale alla redazione del capitolo “Faramir”.

47 Per questi commenti di Tolkien vedi le lettere n. 34, 35 e 47 in J.R.R. TOLKIEN; La realtà in trasparenza; op. cit.

48 HOME, vol. VIII, pp. 144-162.

49 La realtà in trasparenza; lett. 91, 29 novembre 1944, pp. 120-121: “tutti questi ultimi brani [riguardanti la conclusione del romanzo] sono stati scritti secoli fa, ma non sono più coerenti né nei dettagli, né nella nobiltà di tono (dato che tutto l’insieme è diventato più ampio e più elevato)”. Ho rimaneggiato la traduzione per renderla più fedele al testo inglese, che recita: “all these last bits were written ages ago, but no longer fit in detail, nor in elevation (for the whole thing has become much larger and loftier)”. Già nel maggio precedente Tolkien aveva espresso simili sentimenti riguardo al mutato registro del romanzo: “Finora è andato tutto bene, ma adesso sto arrivando al momento cruciale in cui è necessario raccogliere tutti i fili e sincronizzare i tempi e legare la narrativa; e intanto la storia è talmente cresciuta nel suo significato [“grown so large in significance”] che gli abbozzi dei capitoli conclusivi (scritti anni fa) sono ormai del tutto inadeguati, essendo rimasti ad un livello molto più infantile [“on a more ‘juvenile’ level”]

50 Ivi; lett. 91, pag. 121. Traduzione rivista. Vedi anche HOME, vol. VIII, pp. 218-220.

51 Tolkien al figlio Christopher, 6 maggio 1944; in J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza; op. cit.; lettera n. 66, pag. 91.

52 Ivi, Tolkien al figlio, lett. n. 73, 10 giugno 1944; pag. 99.

53 Vedi nota 51. Tutte le lettere a Christopher Tolkien scritte tra la fine del 1943 e la fine del 1944 costituiscono una fonte di primaria importanza per capire lo stato d’animo e la visione del mondo di Tolkien in questo periodo cruciale della stesura del Signore degli Anelli.

54 Vedi Tom SHIPPEY, Tolkien Autore del Secolo, cit.

55 Su Charles Williams (1886-1945) e le sue opere, oltre ai profili biografici presenti nelle opere dedicate agli Inklings citate nella nota seguente, vedi Rolland HEIN, Christian Mythmakers; Chicago, Cornerstone Press, 2002; pp. 133-172 e la voce di David LANGFORD in The Encyclopedia of Fantasy; edited by John Clute and John Grant; New York, St. Martin’s Griffin, 1999; pp. 1015-1016.

56 Per una sintetica, ma articolata esposizione delle opere arturiane di Charles Williams vedi Colin DURIEZ e David PORTER, The Inklings Handbook; St. Louis, Chalice Press, 2001; pp. 32-37, 61-65 e 112-114. Ai poemi (che formano le prime due parti di una incompleta Arturiade) si deve aggiungere il lavoro in prosa (incompleto) “The figure of Arthur”, sullo sviluppo della leggenda di Artù e del Graal nella letteratura occidentale. C.S. Lewis pubblicherà tutto questo materiale, aggiungendovi il proprio commento, presso la Oxord University Press nel 1948, con il titolo di Arthurian Torso. Per i rapporti di amicizia e di scambio intellettuale tra Tolkien e Williams e per un giudizio del Professore. sui poemi di Taliessin vedi Humphrey CARPENTER; The Inklings. C.S. Lewis, J.R.R. Tolkien, Charles Williams and their friends; London , HarperCollins, 1997; pp. 120-126, nonché i rimandi alle opere di Williams nell’indice dei nomi e J.R.R. TOLKIEN; La realtà in trasparenza; op. cit.; pp. 393 e 406-407 e in generale alla voce “Williams” dell’indice.

57 Vedi H. CARPENTER, The Inklings; op. cit.; pag. 198. Tolkien pensava che l’influenza di Williams e della sua “Arthurian stuff” avesse rovinato il romanzo: vedi J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza; op. cit. pag. 393.

58 Un veloce inquadramento di questi temi nella voce “Arthur” di Mike ASHLEY, in The Encyclopedia of Fantasy; op. cit. ; pp. 57-63.

59 Per l’importanza di Artù nella letteratura contemporanea vedi, oltre alla bibliografia citata nella voce di cui alla nota precedente, anche Norris J. Lacy, The Arthurian Handbook . Sul giovane Tolkien, G.B. Smith e i loro amici vedi John GARTH; Tolkien and the Great War. The Threshold of Middle-earth; New York, Hoghton Mifflin, 2003; su Artù le pp. 32 e 122.

60 “The Second World War brought a new perspective to the Arthurian condition: the Battle of Britain and the Dunkirk spirit made the besieged island fortress a reality, and the Arthurian world took on a greater meaning. The result was a move away from fantasy toward a mixture of historical realism and mystical interpretation.”, dalla voce “Arthur” di Mike ASHLEY, in The Encyclopedia of Fantasy; op. cit.; pag. 61.

61 Per i rimandi ad Artù, vedi HOME, Vol. IX: Sauron defeated; pp. 227-229; per la datazione di The Notion Club Papers e The Drowning of Andûnê vedi ivi, pp. 145-147. Per le nuove concezioni della materia númenoreana, in generale ivi pp. 340-413 e in particolare i commenti di C. Tolkien alle pp. 397-407: “Above all, the relation between the self-contained mythology of ‘The Silmarillion’ and the story of The Lord of the Rings boded problems of a profound nature. This work had now been at a standstill for more than a year; but The Notion Club Papers was leading tho the re-emergence of Númenor as an increasingly important elemento in the whole, even as the Númenórean kingdoms in Middle-earth had grown so greatly in significance in The Lord of the Rings.” Per il punto di vista elfico nella narrazione storica vedi Alex LEWIS, “Pregiudizi storici nella stesura del Silmarillion”, in “Endòre” n° 4, Primavera 2001. pp. 4-12.

62 Per i sopra menzionati nuclei narrativi vedi HOME, vol. VIII: The War of the Ring; pp. 300-308 (Sentieri dei Morti), 323-338 e 375-377 (suicidio di Denethor), 384-396, 400-401 e 425 nota 4 (accenno alla storia di amore e sviluppo del tema del “re taumaturgo”). Per una ricostruzione ipotetica della cronologia della stesura dopo il 1944 vedi HOME, vol. IX: Sauron defeated; pp. 12-13.

63 Tolkien a Michael Straight, abbozzi di lettera databili al gennaio o febbraio 1956; in J.R.R. TOLKIEN; La realtà in trasparenza; op. cit.; lett. n. 181, pag. 263. Ho cambiato la traduzione della penultima frase (“and within its own imagined world be accorded (literary) belief”), perché mi sembra che la traduzione italiana non sia corretta: “(divertire, piacere e anche commuovere a volte) e sempre nell’ambito delle credenze (letterarie) del suo mondo immaginario.”

64 Sono le parole che Gandalf rivolge ad Aragorn sulla cima del Mindolluin nel capitolo “Il Sovrintendente e il Re”, mostrandogli il regno di Gondor, “cuore del più grande regno a venire”.

65 “Il contatto tra Uomini ed Elfi [nella Prima Era] influenzò la storia delle Età successive, e un tema ricorrente è che negli uomini (come sono oggi) ci sia una parte di sangue e di eredità derivate dagli elfi, e che l’arte e la poesia degli uomini dipendano in larga misura da questa componente o ne siano state influenzate” (...) (Naturalmente nella realtà questo significa solo che i miei Elfi sono solo una rappresentazione o una concezione di una parte della natura umana, ma questo non fa parte del modo di esprimersi in una leggenda).” Dalla lettera a Milton Waldman, in La realtà in trasparenza; cit.; pag. 170.

66 Sulla sub-creazione come spinta all’imitazione del Creatore, al creare in quanto creature vedi la voce “qualità elfica” in Colin DURIEZ, Tolkien e Il Signore degli Anelli. Guida alla Terra di Mezzo; Gribaudi, 2001; il già citato “On Fairy-stories con la poesia Mithopeia, ora in J.R.R. TOLKIEN, Il Medioevo e il fantastico; Bompiani, 2003. Per la fonadmentale importanza di questo per Tolkien e per un’interpretazione assai convincente della sua complessiva visione del mondo vedi l’ottimo libro di Brian ROSEBURY; Tolkien: a cultural phenomenon; Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2003; pp. 178-192.

67 Tolkien al figlio Christopher, 29 novembre 1943, lett. n. 52, in La realtà in trasparenza; cit.; pag. 74.

68 “Io non sono un «democratico» solo perché l’«umiltà» e l’uguaglianza sono principi spirituali corrotti dal tentativo di meccanizzarli e formalizzarli, con il risultato che non si ottengono piccolezza e umiltà universali, ma grandezza e orgoglio universali, finché qualche orco non riesce a impossessarsi di un anello di potere, e allora otteniamo e stiamo ottenendo la schiavitù.” Da una lettera a Johanna de Bortadano, aprile 1956; in La realtà in trasparenza; cit.; pag. 279. Vedi anche la lett. n. 163 a W.H. Auden a pag. 244: “Io non sono un democratico, nel senso corrente del termine; tranne per il fatto che credo che, per parlare in termini letterari, siamo tutti uguali di fronte al Grande Autore, qui deposuit potentes de sede et exhaltavit humiles.”

69 B. ROSEBURY; Tolkien; op. cit., pag. 180; traduzione mia. Si inquadrano in questa prospettiva anche la totale autonomia concesse da re Elessar alla Contea ed ai Woses della Foresta Druadana.