Elfi Luminosi, Elfi Scuri e altri ancora: il problema elfico di Tolkien.1

di Tom Shippey


[traduzione autorizzata di Simone Bonechi da Roots and Branches. Selected Papers on Tolkien , Walking Tree Publishers, Zurich, 2007, pp. 214-233]



Nel capitolo 15 del romanzo di C.S. Lewis Lontano dal Pianeta Silenzioso (1938), il filologo Elwin Ransom incontra per la prima volta un sorn, una delle razze dall’alta statura e dalle propensioni intellettuali che popolano gli altipiani di Marte. Cominciano a discutere di Oyarsa, l’essere spirituale che governa il pianeta e Augray il sorn gli dice che Oyarsa è un eldil. Gli eldila appaiono incorporei agli umani e ai Marziani, spiega Augray, ma non è così. Gli eldila possono passare attraverso muri e porte non perché essi siano incorporei, ma perché per loro è il nostro modo materiale ad essere incorporeo. “Queste cose non sono strane”, dice Augray, “sebbene vadano oltre i nostri sensi. Ma è strano che gli eldila non visitino mai Thulcandra” – Thulcandra è il “pianeta silenzioso” stesso, la Terra.

Di questo non sono certo’, disse Ransom. Gli era balenato alla mente che i ricorrenti racconti delle tradizioni umane riguardanti apparizioni di persone luminose e sfuggenti – albs, devas, e simili – potessero dopo tutto avere una spiegazione diversa da quella data dagli antropologi. (Lewis, 1938, capitolo 15).

Cosa sono, ci si potrebbe chiedere, ‘albs’ e ‘devas’? La seconda parola non presenta difficoltà. Se uno la cerca nello Oxford English Dictionary, il senso dato per ‘deva’, in modo del tutto appropriato per il contesto di cui sopra, è “qualcuno luminoso, splendente […] un dio, una divinità; uno degli spiriti benigni della mitologia indù” (vol. IV, pg. 561). Tutto quello che l’OED ha da offrire per ‘alb’, tuttavia, è che si tratta di una tunica o un abito ecclesiastico, mentre la parola ‘albs’ non vi appare neanche.

I collegamenti di questo brano con Tolkien sono molteplici. In primo luogo si è generalmente d’accordo che il personaggio di Elwin Ransom sia un affezionato ritratto di Tolkien stesso. In secondo luogo, è ormai risaputo che il romanzo di Lewis nacque dal famoso patto del 1936 fra lui e Tolkien che stabiliva che avrebbero scritto due distinti romanzi: quello di Lewis avente per tema il viaggio nello spazio e quello di Tolkien il viaggio nel tempo.2 Il contributo di Tolkien non venne mai completato o pubblicato durante la sua vita, ed ha visto alla fine la luce prima come “The Lost Road” e poi come “The Notion Club Papers” nei volumi V e VIII rispettivamente di The History of Middle-earth.3 In entrambi il nome Elwin, o forme di questo come Alwyn o Alboin, riveste un particolare significato.4 Comunque, l’immediato collegamento con il brano sopra citato è che Lewis prende sicuramente in prestito il termine ‘albs’ da Tolkien, forse da una conversazione. *albs è infatti la forma Proto-Germanica non attestata ed ipotetica, o “ricostruita”, del termine che è si è trasmesso nell’Inglese Moderno come elf, nell’Inglese Antico come ælf, nel Norreno come álfr, nel Medio Alto Tedesco come alp, e così via. Fa quindi perfettamente coppia con ‘deva’, essendo un termine mitologico, ampiamente diffuso, e testimonianza del tentativo da parte dell’uomo di etichettare un fenomeno al di fuori della sua normale comprensione. Solo Tolkien può aver detto a Lewis cose simili. Sarebbe del tutto tipico di Lewis (nei cui commenti troviamo diversi errori di morfologia dell’Antico Inglese, sebbene insegnasse questa materia al Magadalen College)5 comprendere male la parola e concludere che la “s” era un suffisso plurale, rendendo così “alb-s” (erroneamente) analogo di “deva-s”.

Quello che la parola e il brano mostrano è che Tolkien aveva preso in considerazione il generale problema delle forme varianti di “elf” nelle lingue germaniche e presumibilmente ne aveva discusso. Doveva essere stato un argomento di conversazione fra gli Inklings, uno dei tanti che possiamo dedurre dalla comparazione incrociata delle opere di Tolkien, Lewis, Williams e Barfield (e probabilmente di altri ancora). Se Tolkien aveva affrontato il problema, ci potremmo giustamente chiedere a quali conclusioni fosse giunto e quali ulteriori problemi avesse incontrato nelle contrastanti tradizioni dell’Europa nord-occidentale. Lo scopo di questo saggio è di suggerire che fu proprio in questi problemi – ancor più che nelle tradizioni stesse – che Tolkien trovò ispirazione per la sua opera narrativa, nelle varie versioni del ‘Silmarillion’ e infine in parti del Signore degli Anelli.

I problemi citati sopra necessitano di una qualche spiegazione preliminare. Si può partire dall’idea, fondamentale per i primi ricercatori di mitologia e filologia comparate, che se una parola aveva diverse parole ‘affini,’ ovvero forme chiaramente correlate, ma ciò nonostante indipendenti in differenti linguaggi, allora quella parola e presumibilmente il concetto dietro di essa dovevano risalire ad un tempo precedente alla separazione dei linguaggi uno dall’altro: la parola e l’idea di “elfo”, sono, dunque, letteralmente, di antichità immemorabile.6 Ma come interpretare il fatto che le differenti tradizioni linguistiche e culturali sembrano spesso avere idee del tutto differenti in merito al significato della parola? Significa forse che quest’ultima non ha mai avuto un chiaro, concorde, stabile referente (probabilmente perché l’intero concetto era solo fantasia, ‘puramente mitico’, creato dal nulla)? Una siffatta risposta è sensata, ma del tutto inaccettabile per Tolkien. È questa l’opinione degli “antropologi” di cui il Ransom di Lewis si trova improvvisamente a dubitare.7 O forse la verità è che non abbiamo compreso bene i dati? Che dobbiamo pensare in maniera diversa, come quando Augray il sorn dice a Ransom che deve ripensare la sua idea degli eldila? Questa era l’opinione di Tolkien e degli Inklings.

I dati che riguardano gli elfi erano conosciuti dai ricercatori, almeno in gran parte, ben prima dell’epoca di Tolkien.8 Ci sono circa dieci parole per “elf” in Antico Inglese, le forme maschile e femminile ælf e ælfen, e i composti land-, dùn-, feld-, munt-, -, wæter-, wudu-, e probabilmente berg-ælfen, o, più raramente, -ælf, ovvero elfo delle colline, elfo di terra, elfo dei campi, elfo delle montagne, elfo di mare, elfo delle acque, elfo dei boschi e di nuovo elfo delle montagne. Questi termini appaiono precisi e vari in maniera promettente, ma sono in realtà quasi sempre glosse, parole inserite sopra un testo latino per tradurre una parola difficile in quella lingua, in questo caso (rispettivamente ai termini da quattro a nove nella lista sopra citata): castalides, moides, oreades, naiades, nymphae, e dryades. La spiegazione più semplice è che un traduttore anglo-sassone di secoli fa, non riuscendo a trovare un equivalente per “naiade, ninfa, driade”, abbia deciso non irragionevolmente di risolvere tutti i suoi problemi in un colpo solo, creando elfo di mare, elfo delle acque, elfo dei boschi ecc. Nel frattempo i testi medici o magici anglo-sassoni hanno portato alla luce tutta una serie di termini composti ancora più interessanti, anche se più minacciosi, come ælfadl, wæterælfadl, ælfsiden, ælfsogoða, nomi di “malattie elfiche” come (è stato suggerito) varicella, idropisia, follia, epilessia, anemia.9 Quest’ultima è una ipotesi interpretativa di ælfsogoða, ovvero “suzione elfica” e indica che uno dei modi in cui si pensava che gli elfi causassero danni era attraverso una sorta di vampirismo; si sente parlare anche varie volte di “colpo elfico” (elf-shot) o ylfa gescot, che sottintende la credenza (forse illustrata in uno di questi testi) in malattie recate da invisibili dardi. Gli elfi appaiono anche associati alla tentazione sessuale. Vari incantesimi associano gli elfi con nihtgengan, “sonnambuli”, con le “tentazioni del demone” e con Þam mannum Þe deofol mid hæmð, “coloro che fanno sesso col diavolo”. Non sorprende che gli elfi anglo-sassoni siano definiti comunemente “maligni” dagli studiosi moderni.10 E tuttavia è un complimento per una donna esser chiamata ælfsciene. “bella come un elfo” e gli Anglo-Sassoni continuarono ostinatamente a dare ai propri figli nomi come Ælf-wine, Ælf.red, Ælf-stan e così via: “Amico degli elfi”, “Consiglio elfico”, “Pietra elfica”. Alcuni nomi, come il comune Alfredo e il raro Elwin (come in Elwin Ransom) sono rimasti in uso fino ad oggi, sebbene sia venuta meno la percezione del loro significato; e anche alcune delle credenze riferite alla sensuale bellezza degli elfi, alle colline elfiche o ai changeling, i bambini lasciati dagli elfi al posto di neonati umani, sono continuate fino ai giorni nostri.

La tradizione scandinava è ancor meglio attestata, sebbene non sia così antica e apparentemente risulti piuttosto differente. Gli àlfar sono menzionati trenta volte nei poemi dell’Edda Antica, sebbene in una gamma ristretta di utilizzo del termine: di solito appaiono in connessione o con gli Æsir, gli dei pagani, o con gli iötnar, i giganti, come a sottintendere una universalità: “chiunque lo sa, elfi e dei”, “dimmi il suo nome tra gli elfi, dimmi il uso nome tra i giganti”, e così via. Ci sono indizi sul significato del termine nei poemi dell’Edda Antica, così come ve ne sono qua e là nelle saghe. Ma l’opera che attirò la maggiore attenzione sin dall’inizio delle moderne ricerche e che sembrava la più adatta a dare risposte della completezza e complessità richieste dai filologi fu l’Edda in prosa di Snorri Sturluson, la cosa più vicina ad un manuale mitologico di credenze pre-cristiane che possediamo.

Occorre dire subito (perché spesso lo si dimentica) che Snorri non scrisse un testo pagano. Egli redasse la sua opera negli anni Trenta del Milleduecento; la cristianizzazione dell’Islanda risaliva a più di due secoli prima, e la stessa famiglia di Snorri era cristiana da più di sei generazioni. Di ciò che i pagani realmente facevano o pensavano, non ne sapeva di più di quel che noi potremmo saperne delle credenze popolari del Diciottesimo secolo. La sua opera era essenzialmente un tentativo di spiegare la dizione poetica, le frasi usate e le allusioni fatte nella poesia tradizionale, ma per far questo doveva narrare delle storie, spesso aventi per argomento gli dei, giganti, elfi, nani e le altre creature soprannaturali del mondo pre-cristiano. La natura coerente (e la potenza letteraria) di ciò che scrisse Snorri fecero forse sorgere aspettative irrealistiche nei suoi primi moderni ammiratori: perché ciò che Snorri dice riguardo agli elfi è difficile da comprendere appieno. Egli invariabilmente usa la parola all’interno di composti, come ad esempio Álfheim, ovvero “Paese degli elfi”. Ma ogni altra volta in cui usa la parola álfr, egli gli antepone come prefisso termini indicante colori, ljós-, dökk-, o svart-, cioè “elfi luminosi”, “elfi scuri”, “elfi neri”. Un passaggio fondamentale è il seguente:

Sá er einn staðr þar er kallaðr er Álfheimr. Þar byggvir fólk þat er ljósálfar heita, en dökkálfar búa niðri i jörðu, ok eru þeir ólíkir þeim sýnum en myklu ólikari ryndum. Ljosálfar er fegri en sól sýnum, en dökkálfar eru svartari en bik.

[C’è un luogo chiamato Paese degli Elfi. Lì vive il popolo chiamato elfi luminosi, ma gli elfi scuri vivono giù nella terra, ed essi sono diversi da questi in aspetto, e ancora più differenti da loro in natura. Gli elfi luminosi sono più belli del sole all’aspetto, ma gli elfi scuri sono più neri della pece.]11

Ciò che dice Snorri è chiaro ed inequivocabile, ma fa nascere immediatamente dei problemi. Gli “elfi scuri” (dökkálfar), dice, sono “neri” (svart.). Questo sta dunque a significare che sono “elfi neri” (svartálafar)? Ma in tutti gli altri punti dell’opera in cui Snorri parla di “elfi neri”, egli intende “nani”: Odino manda Skirnir í Svartálfaheim til dverga nokkurra, “al Paese degli Elfi neri da certi nani”, e anche Loki va a Svartálfaheim dove anch’egli “si imbatte in un nano”. C’è una spiegazione semplice in questo caso, ovvero che laddove Snorri identifica quattro gruppi, elfi luminosi, elfi scuri, elfi neri e nani, ve ne sono in realtà solo due: gli ultimi tre sono solo differenti nomi per lo stesso gruppo. Il primo gruppo è composto da esseri simili ad angeli, o se vogliamo ad eldila – gli albs di Lewis - mentre quelli dell’ultimo gruppo sono fatti sembrare vagamente diabolici, proprio come gli elfi dei libri di medicina Anglo-Sassoni. Questa linea di pensiero ha il vantaggio di essere chiara e di non moltiplicare le entità, ma era, ancora una volta, del tutto inaccettabile per i primi ricercatori, incluso Tolkien: significava, in effetti, gettar via il loro miglior testo, esattamente come l’ipotesi che ho formulato poco sopra riguardo ad un perplesso traduttore anglo-sassone equivaleva a dire che dùn-elf e le altre erano “parole fantasma”, senza un reale significato nella cultura degli antichi Anglo-Sassoni. Nessuna di queste due interpretazioni è stata mai popolare e Tolkien ha dedicato una notevole energia narrativa a costruire confutazioni efficaci ed equilibrate di entrambe.

Non è del tutto chiaro quando Tolkien abbia focalizzato la sua attenzione per la prima volta su quello che possiamo chiamare il “problema elfico”. Quando lo fece, comunque, sarà stato naturale per lui controllare ciò che le “autorità” avevano detto sulla questione, e del tutto caratteristico del suo modo di essere (come succede così spesso con Tolkien e l’OED) elaborare una teoria in profondo disaccordo con l’opinione degli studiosi, e cercare con determinazione di proteggere le fonti originarie, se necessario spiegando come potessero essere state male interpretate. L’autore del Sir Gawain, dopotutto, o forse il copista che lo trascrisse, avevano fatto lo stesso errore di C.S. Lewis, prendendo una desinenza singolare in -s per un plurale, scrivendo wodwos per quello che avrebbe dovuto essere *wodwosen. Era il compito del vero studioso, pensava Tolkien – ne dà spesso un esempio nella sua edizione dell’Exodus in Antico Inglese e nelle poesie del “Finnsburg” – soccorrere poemi e miti dai loro copisti e commentatori disattenti o poco perspicaci. E questo fu ciò che tentò di fare, secondo me, con gli elfi.

Le fonti originarie citate poc’anzi erano note da secoli agli studiosi, sebbene abbiano avuto una circolazione assai limitata, originariamente. L’Edda in prosa di Snorri, ad esempio, è stata pubblicata a cura del danese Peter Resen (Resenius) sin dal 1665, mentre testi medici in Antico Inglese e le relative glosse sono state scoperti a varie riprese fino agli anni Trenta dell’Ottocento. Il “problema elfico”, tuttavia, non affiorò finché gli studiosi non cominciarono a porsi domande non solo sulle parole, ma anche su ciò che esse rappresentavano. E qui due famosi studiosi, in particolare, attrassero probabilmente l’attenzione di Tolkien.

Il primo fu il danese, N.F.S. Grudtvig (1783-1872). Ci sono varie ragioni per cui Tolkien può aver prestato particolare attenzione a questo studioso. Nikolai Grundtvig era, fra le altre cose, la prima persona nei tempi moderni a leggere Beowulf in maniera intelligente. (Fu lui, per esempio, unico dei primi sette recensori della prima edizione moderna del poema, quella di Grímur Thorkelin del 1815, a rendersi conto che il testo comincia con un funerale, non con una scorreria vichinga come il curatore aveva pensato.) Continuò ad essere un attivo studioso per quasi sessanta anni dopo di ciò, con un particolare interesse per il Beowulf, l’Antico Inglese e la mitologia nordica. Ma, più ancora, Grundtvig fece per la Danimarca quello che a Tolkien sarebbe piaciuto fare per l’Inghilterra: le diede una storia e una mitologia basata sulle antiche fonti, ma rilanciata nella vita nazionale e nella politica nazionale dai suoi scritti popolari, dalle sue molte canzoni ed inni e dalla creazione delle Grundtvig High Schools, che avevano per scopo precipuo di proteggere la cultura nazionale, principalmente dalle infiltrazioni tedesche.12 Grundtvig in Danimarca, Lönnrot col suo Kalevala in Finlandia: se Tolkien ha mai avuto dei “modelli”, sono stati questi.

Il primo libro di Grundtvig sulla mitologia, Nordens Mytologi, fu pubblicato nel 1808; a quella data opere come il Beowulf non erano ancora state pubblicate. Grundtvig riscrisse il suo libro (variandone leggermente la grafia) come Nordens Mythologi, nel 1832, e qui rivolse la propria attenzione a “Vætter, Alfer, og Dverge,” “creature [Wights], elfi e nani”, e fu (credo) il primo a notare le incoerenze nell’Edda in prosa di Snorri, e a preoccuparsene, come dicevamo prima. La sua soluzione fu di andare verso il modello riduzionista “da quattro a due” delineato sopra, con un significativo compromesso. Gli elfi luminosi erano ovviamente angelici, e gli elfi neri erano evidentemente nani, ma forse gli elfi scuri erano differenti da entrambi:

Alfer var det gamle Nordens Engle, og Dværgene kun et Mellem-Slags af dem: hverken Lys-Alfer eller Mörk-Alfer, men saa at sige Skumrings-Alfer.

[Gli elfi erano gli angeli dell’antico Nord, e i nani solo un grado mediano di essi: né elfi luminosi, né elfi scuri, ma per così dire elfi del crepuscolo]13

Il problema con questa soluzione, altrimenti nitida e chiara, è che colloca gli elfi neri fra i due altri gruppi, mentre ci si aspetterebbe che fossero un termine-limite. Ma introduce tuttavia l’idea, piuttosto attraente, di Skumrings-Alfer, elfi del crepuscolo.

La Deutsche Mythologie di Jacob Grimm, la cui prima edizione venne pubblicata nel 1835, potrebbe essere indebitata al lavoro pioneristico di Grundtvig più di quanto Grimm fosse disposto ad ammettere. Le linee della battaglia filologica erano già tracciate (e stavano per diventare vere e proprie linee di battaglia nelle due guerre prusso-danesi combattute per il controllo dello Schleswig-Hostein o Slesvig-Hosten, nel 1850-1851 e nel 1864), con i tedeschi, e Grimm in particolare, che affermavano che le lingue scandinave erano in verità solo un ramo del “Germanico” e le due Edda e le saghe proprietà intellettuale comune; affermazioni a cui gli studiosi scandinavi ribattevano con foga che la Scandinavia aveva il diritto ad una autonomia culturale quanto politica. Era un problema e una seccatura per Grimm che la parola in Medio Alto Tedesco per “elf” sembrava essere andata perduta, per essere rimpiazzata nel Tedesco moderno da un prestito dall’Inglese, Elfe, Elfen. Grimm risolse il problema cancellando quest’ultimo termine dal suo Deutsche Wörterbuch o “Dizionario Tedesco” e inserendo una versione modernizzata del primo: Elb, Elbe. Ma anch’egli era infastidito dalle incoerenze di Snorri, sebbene la sua soluzione fosse significativamente peggiore di quella di Grundtvig, vaga e interlocutoria. La riporto qui sotto, per brani, nel tedesco di Grimm e nella traduzione di J.S. Stallybrass, interpolandovi i miei tentativi di spiegarne il significato:14

Man findet in dem Gegensatz der lichten und schwarzen elbe den dualismus, der auch in anderen mythologien zwischen guten und bösen, freundlichen und feindlichen, himlischen und höllischen geistern, zwischen engel des lichts un der finsternis aufgestellt wird.

[Qualcuno ha visto, in questa antitesi di elfi della luce e elfi neri, lo stesso dualismo che altre mitologie hanno messo in opera fra spiriti buoni e cattivi, amichevoli ed ostili, celesti ed infernali, tra angeli della luce e delle tenebre.]

Grimm in questo brano sta, credo, contraddicendo Grudntvig senza menzionarlo. Ritiene che Grundtvig abbia abbandonato la divisione tripartita di Snorri con troppa prontezza:

Sollten aber nicht drei arten nordischer genien anzunehmen sein: liosálfar, döckálfar, svartálfar?

[Ma non dovremmo piuttosto presumere l’esistenza di tre tipi di genii del Nord, liosálfar, döckálfar, svartálfar?]

Il problema qui è che Snorri afferma che gli elfi scuri sono neri, il che porterebbe alla prima riduzione, elfi scuri=elfi neri. Ma Grimm questo non può accettarlo, perché sa che ciò condurrebbe a elfi neri = nani. Perciò continua:

Ich erkläre damit freilich Snorris satz “döckálfar eru svartari en bik” für irreleitend.

[Indubbiamente, io in questo modo dichiaro che l’affermazione di Snorri “Gli Elfi oscuri sono neri come la pece” è errata.]

La via di uscita più semplice, a questo punto, è dire (in modo assai poco convincente) che forse Snorri aveva ragione solo a metà, che non scelse con cura le parole, e in ogni caso, che la sua opinione deve essere respinta:

döckr scheint mir weniger das entschieden schwarze, als das trübe, finstere; nicht niger, sondern obscurus, fuscus, aquilus.

[Döckr mi sembra non tanto nero, ma piuttosto oscuro, fosco, non niger, ma obscurus, fuscus, aquilus.]

Grimm sostiene questa affermazione con un riferimento ad un brano in cui si parla di nani e al nome di un nano che contiene, o sembra contenere, la parola iarpr, “scuro”, cosa che in verità non viene in aiuto della sua tesi che gli elfi scuri sono differenti dagli elfi neri e dai nani, ma conclude che rigettare l’affermazione episodica di Snorri risolve più problemi di quanti ne crei:

dann bliebe die gleichstellung der zwerge und schwarzelbe gültig, aber auch jener alteddische unterschied zwischen zwergen und dunkelelben gerechtfertigt.

[In tal caso l’identità tra nani ed elfi neri sarebbe ancora valida e allo stesso tempo la distinzione che fa l’Edda Antica fra nani e Elfi scuri sarebbe giustificata.]

Grimm si imbarca poi in una prolissa ricerca di altri riferimenti alla tripartizione cromatica nella letteratura tedesca, ma si interrompe improvvisamente, forse consapevole della sua inconcludenza:

Festgehalten werden muss die identität der svartálfar und dvergar.

[Una cosa occorre tener ferma: l’identità fra svartálfar e dvergar]

Ci si può fidare di Snorri, dunque, quando afferma qualcosa che Grimm è disposto ad accettare, ma deve essere sconfessato quando le sue affermazioni non sono gradite.

Non posso credere che Tolkien non abbia letto questo brano del più popolare resoconto della mitologia nordica, o che lo possa aver letto senza venirne irritato. Quel che si può dire a riguardo è che esso, insieme con Snorri, Grundtvig e gli altri testi in Antico Inglese sopra citati, fa nascere tutta una serie di problemi che necessitano di una migliore soluzione. Li elencherei come segue:

  1. Cosa sono gli elfi luminosi e gli elfi scuri, e qual è la differenza fra loro, se non è una questione di colore?

  2. Se non è questione di colore, perché Snorri dice che gli elfi scuri sono neri?

  3. Se i nani sono differenti dagli elfi, come dimostrano quasi tutti i riscontri più antichi, perché chiamarli elfi neri?

  4. Cosa sono tutti questi gruppi che troviamo in Antico Inglese, come elfi dei boschi e elfi del mare, e dove si inseriscono?

  5. Si può dire qualcosa dell’idea di Grundtvig che ci possono esser stati “elfi del crespuscolo”?

Chiunque abbia familiarità con Il Silmarillion può vedere in che modo, incisivo e chiaro anche se di fantasia, Tolkien abbia finito per rispondere a questi interrogativi. Aveva forse le domande, se non le risposte, in mente sin dall’inizio. Ebbe a dire di sé stesso, una volta, parlando degli Ent: “Come di consueto per quanto mi riguarda, essi vennero sviluppati partendo dal nome, piuttosto che il contrario”,15 e io direi che questo vale anche per i suoi Elfi. Uno dei punti di partenza dell’intera sua mitologia era questo problema di nomenclatura, questa apparente contraddizione nei testi antichi e in un testo antico in particolare, un problema reso ancor più impegnativo dai brancolanti tentativi di risolverlo fatti dai primi studiosi. Comunque, come i dodici volumi della History of Middle-earth hanno abbondantemente dimostrato, era caratteristico di Tolkien arrivare alla soluzione di un problema attraverso diversi o molti stadi di insoddisfazione.

Il Book of Lost Tales non contiene, per quanto posso giudicare, la distinzione base fatta successivamente tra Elfi luminosi e Elfi scuri: i rimandi che si trovano nell’indice si riferiscono a stadi più tardi della concezione di Tolkien. C’è tuttavia un passaggio interessante in The Book of Lost Tales I che suggerisce che Tolkien stava già riflettendo sui termini e che era forse consapevole della soluzione di compromesso di Grundtvig che abbiamo citato sopra. Nel “Racconto di Gilfanon” appena dopo la prima menzione di “Elfi scuri”, ci viene detto di “un certo essere fatato, […] Tu il mago”:

vagando per il mondo, incontrò gli Elfi […] e li attrasse a sé, istruendoli su molti argomenti profondi, e così divenne tra loro una sorta di possente sovrano ed essi nei racconti lo chiamano Signore del Crepuscolo e tutte le fate del suo regno le chiamavano Hisildi, o popolo del crepuscolo.16

La parola mancante nella frase “Gli Elfi […]”, dice Christopher Tolkien, potrebbe essere “dim” (foschi) o “dun” (bruni). “Dun” corrisponderebbe a una delle parole trovate nei glossari Anglo-Sassoni citati prima, ma “dim” è uno dei suggerimenti di Grimm, per lo meno come tradotto da Stallybrass.17 Allo stesso tempo “crepuscolo” (gloaming) è una buona traduzione della prima parola della locuzione di Grundtvig Skumrings-Alfer, ma viene usato anche “popolo del crepuscolo”. Forse Tolkien aveva già rifiutato il concetto di “elfi neri” considerandolo una variante incolta di “nani”, come sembra che sia, ma in questo momento non aveva spiegazioni per “elfi scuri”, se non dire che essi si potevano vedere fuggevolmente solo al tramonto. L’indice di The Book of Lost Tales, Part II conferma l’ipotesi che Tolkien stesse brancolando nel buio, perché vi si trovano dieci differenti gruppi di elfi, ma non ancora “elfi luminosi”. Nella storia de “La Caduta di Gondolin” è già presente il personaggio di Meglin (più tardi Maeglin), figlio di Eöl, ma molto poco si dice di quest’ultimo a parte che “il racconto di Isfin e Eöl qui non può essere narrato.” Il “Lay of the Fall of Gondolin”, incluso fra i “Poems Early Abandoned” in The Lays of Beleriand, va un poco oltre nel descrivere la cattura di Isfin da parte di Eöl:

[…] che è stata poi sempre la sua compagna nella foresta del Doriath, dove essa piange nel crepuscolo; perché gli Elfi Scuri erano la sua gente, che vaga senza casa.18

Ma sebbene l’idea di una Dama Bianca intravista nella mezza luce doveva rimanere fino al Silmarillion, non c’è ulteriore progresso nella distinzione scuri/luminosi. Tolkien sembra non avere una chiara idea di cosa sia un “Elfo Scuro”, il ché, ovviamente, lo mette in perfetto accordo con i suoi predecessori; e il termine “Elfi Luminosi” non è utilizzato per niente.

Quest’ultimo aspetto doveva cambiare con la stesura del ‘primo Silmarillion’ nei tardi anni Venti, dove troviamo19 la divisione degli Eldar in tre gruppi, “Elfi Luminosi”, “Elfi Profondi” e “Elfi del Mare”, corrispondenti, anche se non esattamente, ai Vanyar, Noldor e Teleri de Il Silmarillion. La vera svolta avviene, comunque, nel ‘Quenta’ del 1930. Qui, a pagina 85 di The Shaping of Middle-earth, troviamo che i Quendi, guidati da Ingwë, sono “gli Elfi Luminosi”, i Noldoli, guidati da Finwë, sono “gli Elfi Profondi” e i Teleri, guidati da Elwë, sono “gli Elfi del Mare”. Un elemento aggiuntivo di vitale importanza, tuttavia, è che “molti della razza elfica furono perduti sulle lunghe strade tenebrose […] e non arrivarono mai a Valinor, né videro la luce dei Due Alberi […] Gli Elfi Scuri sono questi […].” Si può notare a questo punto l’uso dei termini Anglo-Sassoni inventati lèohtelfe, deorc-elf[e]20 in “The Earliest Annals of Valinor” (Shaping, pg. 286 e 288), parole che corrispondono esattamente ai ljósálfar e dökkálfar di Snorri. La decisione di non fare della distinzione scuri/luminosi una questione di colore, come invece aveva tacitamente presupposto Grimm, era un colpo da maestro, sul genere di Augray il sorn che spiega gli eldila. Ma un risultato fu che lasciò Eöl, già identificato come Elfo Scuro, vedi sopra, senza un chiaro marchio di distinzione. Egli è menzionato sia in ‘The Earliest Silmarillion’, sia nel ‘Quenta’ come “Eöl l’Elfo Scuro” (Shaping, pg. 34, 136, con varianti di dizione), ma in entrambi i casi questo potrebbe significare semplicemente che egli è un Elfo Scuro, uno degli Elfi Scuri: non c’è nulla di particolare che lo contraddistingua. Suo figlio Meglin, tuttavia, è indicato come “scuro di pelle” (swart) (Shaping, pg. 141), un termine che risale a The Book of Lost Tales, Part I (pg. 165), come se Tolkien non avesse ancora del tutto abbandonato la speranza di riconciliare i dökkálfar e svartàlfar di Snorri – può Eöl essere visto come “un” Elfo Scuro, ma anche come l’Elfo Scuro per antonomasia? Questo spunto non fu mai ripreso e in verità potrebbe anche non essere mai venuto davvero in mente a Tolkien, ma come spesso accade con lui, sembra che per Tolkien risolvere un problema equivalesse a generarne un altro.

Tolkien avrebbe sviluppato la sua distinzione fondamentale tra quelli che avevano e quelli che non avevano visto la Luce dei Due Alberi in ‘The Lhammas’ e nel ‘Quenta Silmarillion’,21 mentre una parte della sua terminologia divenne canonica nel familiare brano dal capitolo 8 de Lo Hobbit, pubblicato nel 1937, dove si parla di Elfi dei Boschi: “più pericolosi e meno saggi” degli “Alti Elfi dell’Ovest”, quest’ultimi ulteriormente descritti come “gli Elfi Luminosi e gli Elfi Profondi e gli Elfi del Mare” 22. Per quanto riguarda gli Elfi Silvani, essi

Indugiarono nel crepuscolo del nostro Sole e Luna, ma amavano ancor più le stelle; ed erravano per le grandi foreste che si ergevano alte in terre che ora sono andate perdute. Per lo più dimoravano ai margini dei boschi, da cui talvolta potevano uscire per cacciare, correre o cavalcare sulle terre aperte alla luce della luna o delle stelle, e dopo la venuta degli uomini si assuefecero sempre di più al crepuscolo e alla penombra.23

In altre parole, essi sono essenzialmente Skumrings-Alfer, elfi del crepuscolo.

Fin qui, potremmo dire, Tolkien ha sistemato la prima e la quinta delle domande sopra delineate, e creato lo spazio per la soluzione della quarta. Le altre due, comunque, rimangono del tutto oscure: perché gli elfi scuri possono essere neri, come riporta Snorri, e cosa mai hanno a che fare con i nani. Entrambe le questioni, tuttavia, sono risolte solidamente e anche in maniera convincente dalla rielaborazione della storia di Eöl, Elfo Scuro par excellence, nel capitolo 16 de Il Silmarillion. È sorprendente quanta parte della speculazione precedente è ripresa e risistemata nelle pagine 132-133 di quell’opera.

Apprendiamo per prima cosa che Eöl “era chiamato l’Elfo Scuro”, e qui si tratta di un appellativo personale, non di una generica descrizione. La ragione per cui egli è “l’Elfo Scuro” è che ha lasciato il Doriath per Nan Elmoth, e “quivi viveva sprofondato nell’ombra, e amava la notte e il crepuscolo stellato.” Egli detestava soprattutto i Noldor fra gli Elfi Luminosi, in quanto usurpatori, “per i Nani, invece, provava più simpatia di ogni altro tra gli antichi Elfi”. Da loro imparò a lavorare i metalli, e creò un metallo di sua propria invenzione. “Lo chiamò galvorn poiché era nero e lucente come giaietto, e ogniqualvolta si metteva in viaggio se ne rivestiva.” Suo figlio Maeglin è chiamato (da sua madre) Lómion, “Figlio del Crepuscolo”. Da queste poche frasi si potrebbe costruire una storia che spiegherebbe tutto ciò che Snorri dice, senza corroborarlo. Non sarebbe vero che c’erano tre tipi di elfi, poiché non c’erano “elfi neri”, nessun svartálfar. Ciò non di meno, nelle storie più recenti qualcuno potrebbe ben pensare che vi fossero stati, perché mentre non c’erano “elfi neri”, c’era un elfo sempre vestito in nero, che qualcuno avrebbe potuto soprannominare “l’Elfo Nero”. Similmente, questo svartálfar certamente non era un nano, ma era associato con loro e condivideva alcune delle loro caratteristiche, come la passione per la lavorazione dei metalli. Di nuovo, in ripetizioni disattente della storia, “simile a”, può diventare “lo stesso di”. Infine, Skumrings-Alf, o “elfo del crepuscolo” potrebbe non essere mai esistito come termine generico, ma se Maeglin era “Figlio del Crepuscolo”, allora suo padre può, erroneamente, essere stato chiamato “il Crepuscolo”, visto anche che quello era il momento del giorno in cui partiva per i suoi viaggi. Si può a questo punto constatare la forza della ripetuta affermazione di Christopher Tolkien, che Il Silmarillion era sempre stato visto da suo padre come un “compendio”, che occorre leggere dal punto di vista di qualcuno che guarda a questi eventi da un periodo molto più tardo.24 Un testo, per Tolkien senior, non era costituito solo dalle parole sulla pagina che uno sta leggendo, ma anche dalla storia completa di come quelle parole sono giunte lì: una storia, nel caso di molte delle opere al cui studio aveva dedicato la sua vita professionale, fatta di malintesi e veri e propri errori. Per parafrasare, si può dire che Tolkien (come Grimm) pensava che Snorri semplicemente avesse capito male. Ma diversamente da Grimm, insisteva a fornire una storia che spiegasse come Snorri avesse capito male, e a rendere quella spiegazione plausibile e persino naturale.

Lo stesso concetto era applicabile agli Anglo-Sassoni, con i loro resoconti stranamente contraddittori in cui, alla rappresentazione degli elfi come maligni, si accompagnava un senso di rispetto per loro all’apparenza profondamente radicato. Nel Signore degli Anelli, Tolkien affronta il problema almeno tre volte. La sensazione che gli Elfi siano pericolosi è espressa prima da Boromir, che non vuole entrare nel Bosco d’Oro di Lothlórien, perché “di quella perigliosa contrada abbiamo udito parlare a Gondor, e si dice che pochi di coloro che vi mettono piede ne escano, e che di questi pochi nessuno sia uscito illeso.” (SDA, pg. 382) Aragorn corregge Boromir, ma non refuta del tutto quello che dice. Le impressioni di Boromir sono riecheggiate da Éomer (SDA, pg. 479), che usa “elfico” per intendere “misterioso” e crede che la Dama del Bosco d’Oro sia una specie di strega. Questa volta è Gimli a correggerlo. E tuttavia, sebbene entrambi gli uomini siano male informati, c’è una base per la loro paura e sospetto, come sottolinea Sam Gamgee. Quando Faramir, benché più saggio del fratello, ciò nonostante suggerisce che Galadriel dev’essere “pericolosamente bella”, Sam riprende l’implicita critica e si dichiara parzialmente d’accordo:

Non so se sia pericolosa” […]. “Mi ha colpito il fatto che la gente porta con sé il proprio pericolo, e poi lo ritrova a Lórien, perché se l’è portato dietro, Ma forse la si potrebbe definire pericolosa, perché è talmente forte in se stessa. Ci si potrebbe infrangere e distruggere contro di lei, come una nave contro una roccia, o annegare in lei, come uno Hobbit in un fiume. Ma né roccia né fiume sarebbero da biasimare.” (SDA, pg. 742)

Ponendoci al termine di una lunga catena di trasmissione, si potrebbe convenire che essere ælfsciene come Galadriel sia un immenso complimento, ma allo stesso tempo anche che qualsiasi commistione con gli elfi potrebbe essere disastrosa per la gente comune; la fine di questa catena è il verso 112 del Beowulf, eotenas ond ylfe ond orcneas, in cui elfi e orchi sono divenuti sostanzialmente la stessa cosa.25 Tolkien dava un grande valore ai suo antichi testi, come il Beowulf e l’Edda in prosa, ma sapeva che erano opera di mortali soggetti ad errore, e probabilmente distanti varie generazioni da quella che lui avrebbe ritenuto la tradizione autentica.

Ciò che egli intendeva fare, era recuperare la tradizione autentica che risaliva ancor più indietro rispetto ai resoconti che possediamo, la tradizione che dette vita a Snorri a al Beowulf e ai poemi eddici e agli incantesimi Anglo-Sassoni e a tutti gli altri scampoli di testimonianze, e che tuttavia li integrava, risolveva le loro contraddizioni e spiegava la natura dei loro malintesi. L’idea che ci fosse una qualche forma di questa antica tradizione è il pensiero che colpisce Ransom/Tolkien nella storia di Lewis citata all’inizio di questo saggio. È possibile, naturalmente, che tutta questa ipotesi sia errata26 e altamente probabile che se anche c’è stata una qualche singola ed omogenea concezione originaria di “elfi” o “devas”, sia ormai aldilà di ogni possibile recupero. Ciò non di meno, le ricostruzioni di Tolkien non sono solo ricche di immaginazione, ma anche rigorose, controllate sia dal rispetto per le testimonianze, che dalla consapevolezza della natura di queste. La filologia era una dura scienza, non una scienza tenera. Questa è una delle qualità che rende l’opera di Tolkien inimitabile.



























1 Questo saggio è ristampato da “Tolkien Studies”, vol 1 (2004), pp. 1-15. Ringrazio i curatori, Douglas Anderson, Michael Drout e Verlyn Flieger, e la casa editrice, West Virginia University Press, per il permesso di ripubblicarlo.

2 Il miglior resoconto di questo episodio rimane quello di John D. Rateliff, “The Lost Road, The Dark Tower, and The Notion Club Papersw: Tolkien and Lewis’s Time Travel Triad”; in Tolkien’s Legendarium: Essays on the History of Middle-earth; a cura di Verlyn Flieger e Carl F. Hostetter; Wesport, CT, Greenwood, 2000; pp. 199-2018.

3 Per un ampio studio di questi testi vedi Verlyn Flieger, A Question of Time: J.R.R. Tolkien’s Road to Faerie; Kent, OH, Kent State University Press, 1997.

4 Ho discusso l’origine e il significato di questo nome nelle sue varianti in Tom Shippey, The Road to Middle-earth; terza edizione ampliata; Boston, Houghton Mifflin, 2003, pp. 295-297. [ediz. italiana La via per la Terra di Mezzo; Genova, Marietti 1820, 2005, pp. 410-413.

5 Lewis per esempio scrisse un pezzo in onore di Tolkien, il cui titolo cominciava con “Hwæt we holbytlan (…)”, chiaramente riecheggiando le parole iniziali del Beowulf. Hwæt we Gar-Dena (…)”. Ma Gar-Dena è un genitivo plurale. Il genitivo plurale di holbytla sarebbe non holbytlan, ma holbytlana. Lewis era estremamente colto e un eccellente classicista, ma non si potrebbe definire un filologo nel senso del termine valido per Tolkien.

6 Max Müller lo afferma esplicitamente nel suo saggio del 1856 “Comparative Mythology” (in Max Müller, Chips from a German Workshop; 4 volumi, London, Longmans, 1880; vol. II, pp. 1-126). Questo saggio è oggi famoso soprattutto per il tentativo di Müller di correlare ogni mito a fenomeni celesti, per la sua affermazione che il mito è “una malattia del linguaggio” e per la parodia di questa teoria fattane da R.F. Littledale in The Oxford Solar Myth, libro nel quale il reverendo Littledale dimostra, usando i metodi di Müller, che Müller stesso è un mito solare. La gran parte del saggio, tuttavia, è una ragionata esposizione dei metodi della filologia comparata, seguita dalla proposta di usare una simile tecnica per creare una mitologia comparata. I testi di Müller e di Littledale si possono trovare ristampati in Comparative Mythology: An Essay by Max Müller, a cura di A. Smythe Palmer; London, Routledge, 1909 (ristampato a sua volta a New York, presso Dutton, nel 1977). Tolkien cita Müller, capovolgendo la teoria della “malattia del linguaggio” in “On Fairy-Stories”. (Vedi The Tolkien Reader; New York, Ballanitne, 1966.)

7 Non è chiaro fino in fondo a quali antropologi Lewis si riferisca qui, ma probabilmente non agli antropologi strutturali o culturali americani. Egli pensava probabilmente a scuole di pensiero post-Mülleriane, come quella dei seguaci di J.G. Frazer o alla scuola “rituale” di Jane Harrison. Il saggio di Lewis intitolato “The Anthropological Approach” nel suo Selected Essays (a cura di Walter Hooper, 1969, pp. 301-311) attacca esponenti minori e tardivi di questi gruppi di pensiero, ed essi appaiono in forma dissimulata nel suo romanzo del 1956 Till We Have Faces. Vedi anche Tom Shippey, “Imagined Cathedrals. Retelling Myth in the Twentieth Century” in Myth in Early North-West Europe; a cura di Stephen Glosecki; Tempe, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 2007.

8 Esamino questi dati molto più diffusamente in Tom Shippey, “‘Alias Oves Habeo’: The Elves as a Category Problem”, in The Shadow-walkers: Jacob Grimm’s Mythology of the Monstrous; Tempe, Arizona Center for Medieval Studies, 2005; pp. 157-188. I saggi in questa collezione esaminano i resoconti in cui si parla dei vari gruppi germanici non umani, compresi elfi, nani, troll, draghi, ecc., ma tutti i saggisti furono avvertiti di non citare Tolkien. Il problema adesso è immaginare una qualsiasi soluzione diversa da quella di Tolkien: una misura del suo successo.

9 Com’è discusso nell’importante libro di M. L. Cameron, Anglo-Saxon Medicine (1993). Il professor Cameron è docente di biologia e per questo capace di parlare delle ricette e della loro possibile efficacia in maniera pragmatica.

10 Vedi ad esempio Nils Thun, “The Malignant Elves”, in Studia Neophilologica, 41 (1969), pp. 378-396 e Heather Stuart, “The Anglo-Saxon Elf”, in Studia Neophilologica, n. 48 (1976); pp 313-320.

11 Snorri Sturluson, Edda: Prologue and Gylfaginnig; a cura di Anthony Faulkes; Oxford, Clarendon Press, 1982; pg. 19 e Snorri Sturluson: Edda; a cura di Anthony Faulkes; Londra, Dent, 1987, 19-20. [In italiano vedi Snorri Sturluson, Edda; a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Milano, TEA, 1997, pg. 66.]

12 Per un resoconto in inglese sulla vita e le opere di Grudtvig vedi i saggi in Heritage and Prophecy: Grundtvig and the English-Speaking World; a cura di A.M. Allchin; Norwich, Canterbury Press, 1994.

13 N.F.S. Grundtvig, Nordens Mythologi; Copenghagen, Schubotes Buchhandlung, 1832, pg. 263. Traduzione mia.

14 Vedi Jacob Grimm, Deutsche Mythologie; IV edizione, Berlin, Dümmler, 1875-1878; vol. I, pg. 368. Tradotta in inglese da J.R. Stallybrass col titolo Teutonic Mythology; 4 voll.; London, George Bell, 1882-1884; vol. II, pp. 444-445.

15 J.R.R. Tolkien a Katherine Farrer, 27 novembre 1954, in J.R.R. Tolkien; La realtà in trasparenza. Lettere1914-1973; a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien; Milano, Bompiani, 2001; pg. 236. [Ho corretto la traduzione partendo dall’originale in J.R.R. Tolkien; The Letters of J..R.R. Tolkien; London, HarperCollins, 1981; pg. 208. N.d.t.]

16 J.R.R. Tollkien, The Book of Lost Tales, Part I; London, HarperCollins, 1983; pg. 23; in The History of Middle-earth. Volume I; London, HarperCollins, 2002 [traduzione italiana Racconti ritrovati; Milano, RCS Libri, 2000, pg. 280-281].

17 In questo contesto “dun-elves” (elfi bruni) suona meglio, ma in questo caso verrebbe da chiedersi se Tolkien non stesse giocando col duplice senso della parola: l’Antico Inglese dún-ælf “elfo di montagna” e l’Inglese Moderno “dun”, cioè “scuro”.

18 The Lays of Beleriand, pg. 146, in The History of Middle-earth. Volume I; London, HarperCollins, 2002.

19 The Shaping of Middle-earth; pg. 13, in The History of Middle-earth, Vol. I, cit..

20 La forma deorc-elfa (Shaping, pg. 288) è un altro genitivo plurale.

21 Vedi The Lost Road, pg. 197 e 2015in in The History of Middle-earth, Vol. I, cit..

22 Ho qui scelto di tradurre con “Elfi Profondi” l’originale “Deep Elves”, che nella traduzione italiana dello Hobbit è reso con “Elfi Sotterranei”: non vi è motivo di chiamare i Noldor in questo modo. N.d.t..

23 J.R.R. Tolkien; The Hobbit: or There and Back Again; edited by Douglas Anderson; London, HarperCollins, 2002, pp. 151-152 [traduzione italiana: Lo Hobbit o andata e ritorno; edizione annotata da Douglas Anderson; Milano, Bompiani,2004, pg. 230.] Il testo citato apparve prima nell’edizione rivista del 1966. Precedenti versioni hanno dizioni leggermente differenti e il “crepuscolo” è il “crepuscolo prima della nascita del Sole e della Luna”. Vedi Wayne G. Hammond con Douglas A. Anderson, J.R.R. Tolkien: A Descriptive Bibliography, Winchester, St. Paul’s Bibliographies; New Castle, DL, Oak Knoll Books, 1993; pg. 32.

24 Christopher Tolkien afferma questo in The Book of Lost Tales, Part 1, pag. 4 [traduzione italiana: Racconti Ritrovati. Parte I; Milano, RCS, 2000; pg. 9]: “Per leggere Il Silmarillion bisogna porsi, con la fantasia, sul finire della Terza Era -nella Terra di mezzo, lo sguardo volto verso il passato.” Questo è un saggio consiglio, ma l’esercizio diventa assai più facile se uno ha precedente esperienza di come i testi e le storie cambino nel corso del tempo.

25 Il verso è parte del brano introduttivo al mostro Grendel. Il poeta dice che tutte le specie dei mostri derivano dal primo assassino, Caino e li esemplifica come “giganti e elfi e (?) cadaveri-demoni e i Titani, che combatterono contro Dio per lungo tempo”. Questo è la più dura affermazione ostile fatta a proposito degli elfi in una fonte antica, e deve aver suscitato in Tolkien qualche riflessione, in quanto proveniente da un testo che egli rispettava e cui attribuiva un grande valore: è stata spesso identificata dai primi studiosi come una interpolazione, non presente nell’opera del poeta originario.

26 Come sostenuto da Eric G. Stanley, The Search for Anglo-Saxon Paganism, Cambridge, Brewer, 1975. Vedi anche, in questo volume, il mio saggio su “Goti e Unni”.