John Garth, Tolkien e la Grande Guerra. La soglia della Terra di Mezzo, Marietti 1820, Genova, 2007



di Roberto Arduini



Un uomo pallido e provato è convalescente nel letto di un ospedale di guerra. Tira fuori un quaderno e, usando una calligrafia molto elaborata, scrive sulla copertina: Tuor e gli esuli di Gondolin. Poi si ferma, riflette un po’, fa un sospiro fra i denti chiusi sulla pipa, e borbotta: “No, non può più andare”. Basterebbe quest’immagine per riassumere molte cose: siamo nel 1917 e la Prima Guerra Mondiale è al suo culmine. L’uomo è J.R.R. Tolkien e quel quaderno è l’origine delle leggende che troveranno forma compiuta nel Signore degli Anelli. Appartenente alla leva del 1892, lo scrittore inglese venne catapultato nel marasma della Grande Guerra insieme a tutti i suoi amici. La maggior parte di loro non sopravvisse al conflitto e forse è proprio per questo che il sopravvissuto Tolkien si sentì autorizzato a perseguire quel disegno d’epica della modernità che farà nascere il suo capolavoro.

Racconta tutto questo un approfondito studio, pubblicato dalla Marietti1820, Tolkien e la Grande Guerra. La soglia della Terra di Mezzo, terzo volume della collana “Tolkien e dintorni”. L’autore, John Garth, giornalista dell’Evening Standard di Londra, ha passato due anni sotto una montagna di carta, spulciando tra gli archivi dell’esercito britannico, gli stati di servizio degli ufficiali durante il conflitto, gli appunti che Tolkien stesso aveva conservato, oltre alle lettere del Tea Club and Barrovian Society (TCBS). Era questo il circolo dei compagni di scuola dello scrittore che si pensavano predestinati a rivoluzionare la sensibilità del secolo appena cominciato, ad «accendere una nuova luce nel mondo» (p. 241), ma che trovarono quasi tutti la morte nella tragedia dei loro tempi. Tolkien parlò inoltre spesso delle sue esperienze di guerra ai suoi figli Michael e Christopher, mentre questi prestavano a loro volta servizio durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il libro si concentra sugli anni che vanno dal 1910 al 1919. Sono anni cruciali, quelli della formazione universitaria e dell'esperienza bellica. Emerge un’immagine un po’ diversa dello scrittore. Lo troviamo mentre lotta nel fango, in un campo da rugby durante un incontro della squadra del liceo, mentre affronta con fatica gli esami universitari o organizza iniziative per il recupero della cultura antico inglese. È una figura lontana dall’austero professore di Oxford degli anni della maturità. Eppure, proprio in questi anni sono poste le basi per le sue opere maggiori.



Le lusinghe della propaganda

Sfogliando il capolavoro di Tolkien sono chiare le idee che lo scrittore aveva sulla guerra. Si può leggere, ad esempio, il brano in cui Sam Gamgee vede un nemico morire davanti ai propri occhi:



«Era per Sam la prima immagine di una battaglia e non gli piacque... Avrebbe voluto sapere da dove veniva e come si chiamava quell'uomo, se era davvero d'animo malvagio, o se non erano state piuttosto menzogne e minacce a costringerlo ad una lunga marcia lontano da casa; se non avrebbe invece preferito restarsene lì in pace...».



Menzogne e lusinghe erano il pane quotidiano nell’Inghilterra del 1914, dove la propaganda militare martellava i giovani con campagne d’arruolamento fin dentro le università. Tolkien, studente a Oxford, venne anche criticato perché si arruolò soltanto dopo la laurea e il matrimonio, un anno dopo i suoi amici e colleghi. Fu una generazione intera che si arruolò avendo negli occhi le imprese dei cavalieri medievali e le conquiste dell’impero coloniale britannico. Fu una generazione intera che perì nelle trincee della Francia, sotto le bombe dell’artiglieria e i proiettili delle mitragliatrici: nella battaglia della Somme ci furono oltre 620mila vittime, 57mila solo nel primo giorno. Quel che la propaganda descriveva con toni trionfalistici era in realtà «un carnaio» in cui l’uomo soccombeva alla tecnologia e alle macchine. Tutto questo, come scriverà un amico del college a Tolkien, soltanto per «pochi acri di fango». Tolkien se ne rese subito conto, tanto da scrivere già mentre era al campo d'addestramento:



«Lo spreco della guerra, non solo materiale ma morale e spirituale è così sconcertante per quelli che devono subirlo. E lo è sempre stato (nonostante i poeti), e sempre lo sarà (nonostante la propaganda)...». (p. 377)



Il dolore e lo strazio per la perdita degli amici più cari, il forzato distacco dalla sua amata Edith e il sentimento di disperata impotenza di fronte all’avvento delle nuove macchine da guerra, sono per Garth i fattori che segnano maggiormente il nascere e il definirsi dell’intero legendarium di Tolkien. Al fronte, lo scrittore vide la morte in faccia in almeno due occasioni: all’inizio della campagna della Somme, in un attacco notturno a un villaggio presidiato dai tedeschi, e in un freddo giorno d’autunno nella conquista di una trincea nemica. All’età di 24 anni, Tolkien era ufficiale segnalatore del suo battaglione e passò mesi nelle trincee francesi dove fu testimone di tutti gli orrori della “morte meccanizzata”: ripetitiva, scientifica, impersonale e tuttavia sempre presente e imprevedibile. I soldati camminavano faticosamente nel fango, vivevano in trincee sporche e infette, in balia dei capricci del tempo, aspettando ordini a volte inutili o attacchi suicidi.

Nel 1916 Tolkien si ammalò come molti suoi compagni e fu rimpatriato, con la testa piena di quelle tragiche immagini che sarebbero riemerse più di venti anni dopo nel suo capolavoro. In ospedale, Tolkien scrisse la Caduta di Gondolin, l’ossessionante epica della città che viene distrutta da un attacco a sorpresa di un esercito nemico. Il meglio e il peggio dell’esperienza bellica dello scrittore è incarnato dai brutali globin che attaccano e dagli elfi che si difendono strenuamente contro ogni speranza.

Tolkien perse due dei suoi migliori amici nell’offensiva della Somme e la Grande Guerra si prese la vita di un quarto dei suoi conoscenti, studenti laureati a Oxford o Cambridge. Lo scrittore rielaborò più volte la sua mitologia, ma non la completò mai: una parte fu pubblicata postuma, col nome di Silmarillion. Il Signore degli Anelli ne riflette l'atmosfera scura e la tensione narrativa, ma ha toni anche vivaci perché descrive la Terra di Mezzo - il nostro mondo in un’era pre-storica - attraverso gli occhi degli hobbit. Sono questi gli uomini comuni, i borghesi inglesi e più specificamente, i manovali e gli operai che formavano lo scheletro del battaglione di Tolkien, l’11° Fucilieri del Lancashire. Nella figura di Sam si può anche scorgere quella dell’attendente (il “bateman”), il soldato che si occupava dei problemi pratici di un ufficiale dell'esercito britannico. Tra i due si instaurava un rapporto d’amicizia profondo, simile a quello che si crea nel libro tra Sam e Frodo.



Tragiche realtà e accuse di escapismo

Da quel “punto morto” che fu la Prima Guerra Mondiale emersero due movimenti letterari nuovi ed enormemente influenti: quello dei War poets, gli “scrittori della Grande Guerra” appunto, e il Modernismo. Entrambi non ebbero che un’influenza trascurabile su Tolkien.

Della pletora di scritti prodotti dai soldati, ciò che si ricorda è un amalgama di amare proteste e di coraggiosi primi piani, inflessibilmente diretti nella descrizione della vita e della morte in trincea. Padroneggiando questo stile, Robert Graves, Siegfried Sassoon e Wilfred Owen, sono i più celebri. Alcune delle poesie di Owen sono diventate la misura di tutte le altre descrizioni della Prima Guerra Mondiale – o perfino della guerra in generale. Ricercando la franchezza, Graves e i suoi amici hanno rigettato il lessico usato da giornali, propaganda e poesia tradizionale, che filtravano la guerra attraverso lo stile ereditato dai conflitti precedenti. La più famosa poesia di Owen, Inno per una Gioventù Condannata, sottolinea questo divario fra immagine sacra della guerra e la realtà:



Quali campane funerarie per quelli che muoiono come bestiame? Solo la mostruosa rabbia dei cannoni.



Tolkien non fece parte neanche della sperimentazione modernista dei primi anni del dopoguerra. L’epoca della Terra Desolata di T.S. Eliot e dell’Ulisse di James Joyce era per lui «un’epoca in cui a tutti gli autori si permette di bistrattare l'inglese (specialmente se in modo dirompente) nel nome dell’arte o dell’“espressione personale”».

Diversamente da tutti loro, Tolkien scrisse molto poco di quel vide nelle trincee. Ma quelle immagini si ritrovano nel Signore degli Anelli: nei visi bellissimi e putrefatti che affiorano dalle putrescenti Paludi Morte; nell’urlo di Merry quando si aggrappa disperatamente al suo nemico per poi piantagli un pugnale nel ginocchio; in Frodo e Sam accucciati in un cratere nel terreno, mentre tutto erutta intorno a loro e si domandano se è la fine; nello stupore e al tempo stesso terrore con cui Sam vede per la prima volta l’Olifante, grande come un edificio, precipitarsi giù da una collina; e infine nelle schiere degli elfi del Martello d'Ira, che combattevano con grandi mazze e scudi pesanti, sterminate fino all’ultimo dopo essere rimaste isolate tra i nemici. Questa è la Grande Guerra, non romanzata in maniera tragica ma interiorizzata come amara esperienza personale. Decisamente in contrasto con la sua immeritata reputazione di scrittore escapista, l’opera di Tolkien quindi riflette decisamente l’impatto della guerra; inoltre, la sua voce dissidente esprime aspetti dell’esperienza di guerra che i suoi contemporanei hanno tralasciato.

A lungo considerato una metafora degli avvenimenti della Seconda guerra mondiale, la trilogia sviluppa intuizioni già elaborate dall’autore in seguito alla sua esperienza bellica. Ma a essere decisivo, come sempre accade nell’opera di Tolkien, è l’atteggiamento linguistico dello studioso di letteratura anglosassone che arriva al fronte mentre sta già perfezionando la complessa grammatica elfica destinata a fornire uno dei più sorprendenti sviluppi al Signore degli Anelli. Il contrasto fra la continua fabbricazione di neologismi da parte dei soldati inglesi in trincea e la raffinata rielaborazione di lingue e tradizioni nordiche intrapresa da Tolkien è esaminata con estrema precisione da Garth, che dedica pagine illuminanti anche alla genesi dei cosiddetti Racconti perduti da cui germinerà la ramificata mitologia del Silmarillion. Ma ancora più dettagliata e rivelatrice è l’analisi della prima produzione poetica di Tolkien, che durante l’esperienza bellica consente una sorta di contrappunto al «disincanto» degli autori contemporanei, erroneamente convinti che l’epica non possa essere una radicale – e profetica – forma di realismo. Robert Graves, nel suo Goodbye To All That, dice addio agli ideali dell’Impero britannico e al patriottismo cieco, ma dimentica che da soldato sul Fronte Occidentale non poteva far altro che morire in maniera implacabile, tornare a casa mutilato o in barella. I miti di Tolkien ci dicono un’altra verità sulla guerra: i soldati in quell’immenso orrore erano qualcosa di più che vittime passive. Erano persone reali, renitenti, terrorizzate, codarde e brutali. Ma talvolta anche eroiche.