Tolkien pagano1



di Ronald Hutton



RIASSUNTO

Non c’è alcun dubbio che Tolkien, in privato, fosse un devoto Cattolico Romano e che, insieme ad altri membri del suo famoso gruppo degli Inklings, sia stato giustamente acclamato come uno dei grandi autori cristiani del XX secolo. Ciononostante, nei suoi racconti è difficile rintracciare un esplicito messaggio cristiano ed essi hanno comunque ottenuto grande seguito sia fra lettori di ogni religione sia fra gli atei. Questo saggio vuole osservare l’evoluzione temporale del contesto religioso del mondo fantastico da lui creato ed esaminare il modo in cui egli ha attinto a piene mani da idee e immagini del paganesimo antico per modellarle, non come espressione del suo credo quotidiano, bensì come contrappeso ad esso. Inoltre, il saggio userà questi temi per mostrare come sia pericoloso considerare, come fanno molti studiosi, le lettere di Tolkien come una chiara e diretta esposizione delle sue credenze e metodologie.



L’AUTORE

Ronald Hutton è professore di storia all’università di Bristol in Inghilterra, dove si è trasferito nel 1981 dopo aver ricoperto l’incarico di fellow al Magdalen college di Oxford, lo stesso in cui insegnò C.S. Lewis. Ha pubblicato undici libri.



Prima di tutto voglio ammettere una cosa: scegliendo per questo saggio un titolo accattivante, l’ho esposto ad una serie di possibili fraintendimenti, per cui inizierò spiegando cosa non farò in questo testo. Non cercherò di dimostrare che Tolkien fosse pagano nelle sue personali credenze religiose: egli fu, infatti, un devoto Cristiano Cattolico Romano per la maggior parte della sua vita, e questo è parte integrante della sua identità, della sua consapevolezza di sé e del modo in cui presentava se stesso al mondo. Neppure mi divertirò a rintracciare fonti, che siano antichi testi pagani o scritti medievali che abbiano a che fare con un passato pagano, dalle quali Tolkien trasse idee per la costruzione della sua personale mitologia: questa è senza dubbio un’operazione importante e divertente, che ha impegnato alcuni ottimi studiosi (di cui Tom Shippey fu il valente pioniere) ma non è ciò che voglio fare qui. Né cercherò di imitare ciò che Catherine Madsen ha recentemente fatto con tanta maestria, ossia indagare il profondo fascino che la letteratura fantastica di Tolkien esercita su lettori non cristiani e i modi in cui questo possa essere visto come l’espressione di una non precisata religione “naturale”.2 Vorrei invece provare ad intraprendere un discorso più ampio e, per certi versi, più difficoltoso: esaminare il rapporto tra la visione religiosa personale di Tolkien, in differenti momenti della sua vita, e il suo mondo immaginario. Così facendo, il titolo di questo saggio avrebbe potuto essere semplicemente “La religione di Tolkien”, ma la mia scelta sta ad indicare il taglio particolare che vorrei dare al testo. Nello sviluppare questo argomento, vorrei sfruttare l’opportunità di riprendere il discorso di un mio saggio pubblicato un paio di anni fa,3 non solamente per ampliare e rivalutare le sue conclusioni ma per riflettere sulla generale difficoltà di confrontare gli scritti di Tolkien con ciò che egli stesso ha affermato di essi.



Il problema maggiore in cui si incorre nel fare ciò, come qualunque critico o biografo di Tolkien potrebbe confermare, è che egli non voleva biografi e non gradiva le critiche. Fondamentalmente, Tolkien diffidava di un approccio alla letteratura focalizzato sulla persona che sta dietro all’opera. Inoltre, egli fu sempre un analista del linguaggio e un narratore di storie più che una persona capace di decostruire opere letterarie e, in quanto tale, non ci ha lasciato né diari né libri di memorie. Tra tutto ciò che rimane dei suoi scritti, la famosa collezione di lettere pubblicata da Humphrey Carpenter è il testo in cui egli è quasi riuscito a spiegare se stesso, ma è anche una raccolta di documenti davvero particolare, con le sue mancanze e i suoi limiti.4 Per prima cosa, le lettere non sono equamente distribuite ma provengono soprattutto dalle ultime tre decadi della sua vita: gli anni tra il 1910 e il 1930, in cui egli sviluppò la sua mitologia, sono particolarmente mal rappresentati nella raccolta. Oltre a ciò, la maggior parte delle lettere in cui riflette sulla natura della sua mitologia sono state scritte dopo che Il Signore degli Anelli era stato completato e rappresentano quindi una serie di giustificazioni e commenti retrospettivi sul suo lavoro. Le lettere sono inoltre rivolte ad interlocutori specifici per scopi specifici e hanno spesso un’attitudine difensiva. Per queste loro caratteristiche, benché esse offrano indicazioni preziose sul modo di pensare e sugli atteggiamenti di Tolkien, non possono essere sempre prese alla lettera e non possono certo essere considerate strettamente rappresentative delle sue credenze in precedenti periodi della sua vita. Voglio affermare il concetto con fermezza, perché queste lettere sono inevitabilmente il materiale più indagato da quei biografi e critici che sperano così di scoprire gli impulsi che furono alla base della creazione del mondo immaginario e dei personaggi di Tolkien.



Nel contesto di questa dissertazione sono evidenti sia l’importanza sia i limiti di quelle lettere. Tolkien stesso, nella loro stesura, si è occupato più degli elementi religiosi del Signore degli Anelli che di qualsiasi altro aspetto del libro, ad eccezione di quello linguistico. Inoltre, l’imbarazzo che egli provava riguardo a questo argomento è reso evidente dal fatto che un numero insolitamente alto delle lettere in cui lo ha affrontato non furono mai spedite, ma solo conservate come bozze. Quando si legge ciò che ha scritto, la natura del suo imbarazzo diventa palese, poiché risulta impegnato a difendere due posizioni estremamente diverse. Da una parte, egli era ansioso di mostrare di essere cristiano e cattolico: lo ribadiva, se qualcuno aveva qualche dubbio, ed era molto lieto che qualcuno trovasse risvolti cristiani nel Signore degli Anelli. In effetti, egli scrisse ad uno dei suoi corrispondenti che la sua fede cristiana poteva essere dedotta dalle sue storie, sebbene, forse in modo significativo, non elencò Il Signore degli Anelli fra di esse. Ciononostante, subito dopo questo commento aggiunse che alcuni lettori avevano trovato specifici riferimenti al Cattolicesimo nel Signore degli Anelli, come alcuni parallelismi tra Galadriel e la Vergine Maria, o tra il lembas e l’ostia consacrata nella Messa.5 Ancora, ad un’altra persona, un Gesuita, scrisse che il libro è «certamente un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica: inconsapevolmente in principio, ma in modo più consapevole durante la revisione».6



È mia opinione, però, che sia importante non spingersi troppo oltre in queste osservazioni. Prima di tutto, è necessario tenere a mente il contesto di queste lettere. Come egli stesso aveva esplicitamente ammesso,7 Tolkien era stato molto colpito dalle insinuazioni di alcuni critici che il suo libro non contenesse alcun accenno religioso. Aveva intenzione di rispondere quanto più decisamente poteva a queste critiche e, nel farlo, ristabilire la sua reputazione di credente, specialmente tra i cattolici. Inoltre, è importante ricordare che lui stesso non dichiarò mai di aver inserito nella sua opera specifici riferimenti al Cattolicesimo. Le apparenti allusioni alla Vergine o all’ostia furono trovate da altri cattolici ed egli vi si appoggiò come utili argomentazioni nella difesa del suo libro contro le accuse di ateismo o agnosticismo. In alcune occasioni ammise anche che quei riferimenti erano stati inconsapevoli, se mai erano stati presenti, e sostenne che, in effetti, dai suoi libri non era possibile evincere la sua fede cattolica.8 In terza istanza bisogna considerare che chiunque voglia cercare nei lavori di Tolkien allusioni teologiche appositamente artefatte deve scontrarsi con il fatto che egli non era un teologo. Lo sottolineò lui stesso in una delle sue lettere, e stava semplicemente dicendo la verità:9 il suo modo di essere cattolico era molto personale, emozionale e istintuale, basato sull’esperienza della comunione. Allo stesso modo, la sua costante devozione alla Chiesa di Roma, come disse egli stesso al figlio Michael, era basata soprattutto sul fatto che, di tutte le confessioni cristiane, essa era quella che più delle altre onorava il Sacramento della Comunione.10 Questa affermazione è confermata dalla quasi totale mancanza di interesse da lui mostrata per le politiche della Chiesa e, perfino nel cruciale momento del Concilio Vaticano Secondo, per le dispute che si stavano sviluppando riguardo ai suoi riti e alla sua teologia. Il motivo centrale della sua religiosità, che concerneva il mistero della reale presenza di Dio durante la Messa, non fu mai toccato da quelle controversie.



Al di là di tutte queste considerazioni, come fece notare molto tempo fa Verlyn Flieger, la fede di Tolkien non era salda e incrollabile, bensì soggetta a dubbi e perdite di fiducia.11 Anche in età avanzata scriveva a suo figlio Michael che «la tentazione di “non credere” (che significa letteralmente rifiuto di Nostro Signore e della Sua parola) è sempre dentro di noi».12 Vorrei qui controbattere ad un’ipotesi, generalmente accettata negli studi riguardanti la vita e le opere di Tolkien, secondo la quale, qualsiasi fossero i suoi dubbi privati e occasionali, la sua devozione al Cattolicesimo rimase costante fin dall’infanzia. La conversione e il martirio di sua madre per la fede, come egli lo considerò in seguito, così come il grande debito di gratitudine che aveva nei confronti del prete che finanziò la sua educazione, sono abitualmente visti come le due fondamenta della costanza della sua fede. Con il senno di poi, ovvero dal suo punto di vista di uomo anziano, lo furono sicuramente, tuttavia potrebbe qui essere importante mettere in luce un altro passaggio della sua lettera a Micheal: «a causa della mia peccaminosità e pigrizia ho quasi cessato di praticare la mia religione – specialmente a Leeds, e al 22 di Northmoor Road».13 Il periodo qui citato abbraccia tutti gli anni ’20, per cui questa affermazione comporta sia la possibilità che ci siano state fasi della sua vita meno cristiane di altre, sia che la sua celebre influenza sulla conversione di C.S. Lewis al Cristianesimo, accaduta appunto alla fine degli anni ’20, sia coincisa con l’inizio del suo stesso ritorno ad un fervente credo religioso. Per gli scopi di questo saggio è importante ricordare che proprio gli anni ’20 furono un periodo cruciale per lo sviluppo della sua mitologia.



Infine, il principale e più semplice motivo di cautela nel leggere Il Signore degli Anelli come un’opera dichiaratamente cristiana è che Tolkien stesso affermò ripetutamente che non lo era, nonostante stesse cercando di difendere la sua reputazione di autore cattolico. In una famosa lettera del 1951 all’editore Milton Waldman, egli scrisse che, mentre era pronto a riconoscere «elementi di verità morali o religiose» nei miti e nelle favole, non voleva che il suo universo immaginario fosse «coinvolto in, o contenesse esplicitamente» aspetti della religione cristiana. Egli aggiunse, in particolare, che nonostante esso contenesse ciò che poteva essere chiamata una «caduta degli angeli», questa era in realtà molto diversa da «quella del mito cristiano».14 Sette anni dopo ribadì il concetto affermando che malgrado la sua creazione rappresentasse «quella che forse può essere chiamata mitologia cristiana»15 il suo mondo era però creato con il male già contenuto in esso: una differenziazione assolutamente corretta. Altri sette anni più tardi egli dichiarò inoltre: «non sento alcun obbligo di adattare la mia storia alla teologia cristiana ufficiale».16



Nel 1954, in una discussione con un altro corrispondente, Tolkien difese energicamente il suo desiderio di permettere agli Elfi di usufruire della reincarnazione, un’eventualità fortemente condannata dall’ortodossa teologia cristiana, e in particolar modo dalla Chiesa Cattolica. La sua motivazione era duplice. Per prima cosa, egli riteneva che la finzione creativa non avesse bisogno di obbedire alle leggi del nostro universo: per dirla con le sue stesse parole, ciò che è «cattiva teologia» nel «Mondo Primario» è «un fondamento legittimo delle leggende». Secondariamente, egli non pensava che la reincarnazione fosse necessariamente cattiva teologia: «non capisco come, persino nel Mondo Primario, un teologo o un filosofo possa negare la possibilità della reincarnazione come modo dell’esistenza, a meno che egli non sia molto più informato sulla relazione fra anima e corpo di quanto chiunque credo possa essere». È però significativo notare che, dopo averla scritta, egli non inviò questa lettera.17 Allo stesso modo, egli rigettò esplicitamente la dottrina cristiana tradizionale riguardo la natura della magia, a lungo definita un’illusione o un’insidia del diavolo in opposizione ai veri miracoli operati dai santi, a cui unicamente Dio concedeva il potere di eludere le leggi della natura. In una lettera a Naomi Mitchison, Tolkien spiegò che nel suo mondo immaginario ogni tipo di magia produceva una perturbazione reale sul piano fisico, indipendentemente da chi la esercitasse, ed essa era in sé moralmente neutra: la sua moralità dipendeva unicamente dal proposito con cui veniva usata. Aggiunse inoltre che essa era innata in certe creature, come gli Elfi. Questa visione attinge ad antiche tradizioni chiaramente identificabili ed è assolutamente contraria al Cristianesimo: ancora una volta, è importante sottolineare che Tolkien eliminò questo passaggio dalla propria lettera prima di spedirla.18



In generale, ciò che egli teneva a rimarcare era la novità ed unicità cosmologica del suo mondo immaginario, e proprio per questo lo irritavano i tentativi di leggervi un’allegoria di qualsiasi altra cosa, incluso il Cristianesimo.19 Ad esempio, egli fece notare a un editore quanto fosse inusuale la sua scelta di far rientrare il sole in un secondo ordine di creazione invece di identificarlo come un primario simbolo di divinità.20 Egli aveva di nuovo assolutamente ragione nell’affermare ciò e la sua scelta combacia con il suo inusuale amore per la luce delle stelle come simbolo di una divinità superiore e di speranza. Questa sua posizione è tanto più sorprendente in quanto egli era stato perfettamente in grado di scrivere in modo esplicitamente e vigorosamente cristiano in altre sue opere, sia di narrativa sia di saggistica. “«Foglia», di Niggle” è infatti un’impeccabile allegoria della visione cattolica della redenzione, mentre il suo saggio sulle fiabe è una difesa a un approccio specificamente cristiano al loro studio.21 Nella sua cosmologia egli scelse però, in modo totalmente consapevole, di non seguire questo metodo.



Cosa risulta, quindi, dalla sua cosmologia? La risposta si trova in una serie di testi completamente diversa: i volumi di bozze delle storie inedite di Tolkien curati e pubblicati dal figlio Christopher a partire dal 1983 in avanti. Sotto molto aspetti essi sono un modello di curatela editoriale: per la pazienza, la generosità e l’integrità del lavoro di Christopher Tolkien. Comunque, così come per le lettere pubblicate, anche questi volumi presentano dei problemi. Il primo è che, come Christopher stesso ha costantemente ribadito, le bozze sono spesso molto difficili da datare e da riordinare: non avendo quindi facile accesso agli originali, che si trovano in Wisconsin, dobbiamo accettare i giudizi del curatore, non privi di dubbi. Un altro problema è che, nel commentare le bozze, Christopher Tolkien aveva sempre una visione a posteriori partendo dalla forma che suo padre aveva dato alla propria mitologia verso la fine della sua vita. Il mio proposito qui è di fare l’opposto e guardare avanti partendo da come questi miti erano stati immaginati in principio. Infine, gli interventi editoriali di Christopher non sono sempre stati ideologicamente neutrali e, in alcune occasioni, sembrano voler suggerire una vena cristiana in passaggi che, a una mia lettura, non paiono necessariamente supportarla.



Chiariti questi problemi, è evidente che l’universo immaginario di Tolkien iniziò a prendere una forma consistente intorno alla fine degli anni ’10 e all’inizio degli anni ’20 del XX secolo. Volendo analizzare la sua cosmologia, la tattica più ovvia per uno storico è quella di compararla con altri sistemi di credenze mettendo in evidenza i punti da cui Tolkien avrebbe derivato le proprie idee. Sebbene questa è esattamente la strada che intendo intraprendere, prima di tutto vorrei seguire invece le parole di Tolkien e mostrare quanto la sua creazione sia in realtà diversa da qualsiasi altro sistema di credenze esistente. L’universo di Tolkien è davvero unico, e questo accade perché è basato su tre elementi molto diversi e, per certi versi, discordanti. Il primo elemento è costituito dall’Essere Supremo di Tolkien, Ilúvatar, che nella sua caratterizzazione somiglia molto al Dio cristiano. È considerato di sesso maschile ed è fonte di infinito amore, esiste al di fuori dello spazio e del tempo e gode della particolare commistione di caratteristiche esistenziali che anche il Jehovah cristiano possiede: da una parte, egli afferma che il mondo materiale è stato creato secondo il suo disegno e ogni cosa che vi accade segue i suoi piani; dall’altra, però, sembra sorpreso da ciò che effettivamente succede e reagisce agli eventi con angoscia o frustrazione. La natura cristiana di questa divinità è sottolineata anche dalla creazione di una corte di cori angelici che lo servono all’interno del suo disegno: gli Ainur. Uno di questi, Melko o Morgoth, finisce per guidare una ribellione contro l’autorità del suo creatore e per prendere possesso del mondo materiale come sua sfera di azione in cui egli incarna il male puro: un evidente rimando alla caduta degli angeli guidata da Satana. Oltre a tutto ciò, il fatto che i più potenti fra gli Ainur siano associati a particolari elementi naturali (Manwë all’aria, Ulmo all’acqua, Aulë alla terra e Melko al fuoco) è un ulteriore collegamento con i riti cristiani. Ciascuno di essi ha poi un seguito di spiriti legati al proprio elemento.22



In quest’ultimo caso si tratta però di Cristianesimo con un tocco particolare, e questo tocco, come ha fatto notare Mary Carman Rose anni fa, è il Neoplatonismo.23 La caratteristica che definisce questa tradizione cosmologica è una divinità suprema originale che emana potere sufficiente a creare divinità inferiori, le quali avranno diretta responsabilità degli accadimenti del mondo. Questo è esattamente ciò che fa Ilúvatar: canta per creare gli Ainur, lasciando poi a loro il compito di cantare per creare il mondo. Successivamente assegnerà diretta autorità sul mondo agli Ainur più entusiasti della creazione: i Valar.



Fino a questo punto abbiamo un perfetto universo cristiano neoplatonico. Il secondo elemento costitutivo entra in gioco nel passo successivo del racconto originario di Tolkien, ossia quando i cori angelici di Ilúvatar prendono residenza nel mondo. Per seguire il modello cristiano, gli Ainur che non hanno seguito la ribellione di Melko dovrebbero ora avere il ruolo di angeli buoni, mettendo in atto gli ordini del loro creatore e agendo come suoi messaggeri. Questo è esattamente ciò che non accade poiché, a questo punto, essi prendono il ruolo di Dei (con la D maiuscola) e si comportano in modo quasi assurdamente non angelico. Prima di tutto, essi hanno un sesso e fanno sesso: sono decisamente maschi o femmine e alcuni di essi formano unioni e generano una progenie. Inoltre, il loro comportamento sarebbe considerato cattivo anche secondo canoni umani, figuriamoci secondo quelli del paradiso cristiano: battibeccano, litigano, competono costantemente, fanno gravi errori tattici e agiscono impulsivamente o irresponsabilmente.24 Recentemente Marjorie Burns ha ottimamente puntualizzato il modo in cui Tolkien ha preso in prestito alcune caratteristiche delle divinità norrene per modellare quelle delle proprie.25 Da un certo punto di vista, però, questa argomentazione non coglie come l’idea di una famiglia di dee e dei costantemente in litigio fra loro, ognuno dei quali sia responsabile di un particolare aspetto della vita sulla terra, possa essere ritrovato un po’ ovunque, dalla Scandinavia alla Mesopotamia. La più famosa fra le rappresentazioni di questa idea è l’Iliade, e gli Dei di Tolkien, sotto molti aspetti, sembrano avere una correlazione molto più stretta con gli dei dell’Olimpo che con altri, ad esempio nelle loro personalità e nei rapporti individuali, nelle loro relazioni e nei loro comportamenti efferati. A questo punto è bene riportare alla mente una lettera che Tolkien scrisse ad un suo amico gesuita molti anni dopo, nel 1953, contenente la frase: «Sono cresciuto leggendo i classici, e ho scoperto per la prima volta la sensazione di piacere che la letteratura può dare con Omero».26 Quattordici anni dopo, scrisse ancora a un’altra persona che la sua connessione con le lingue e le culture germaniche non avrebbe dovuto essere sovrastimata, e che egli aveva invece un particolare amore per il latino e per le altre lingue mediterranee. Inoltre, ricordò al suo corrispondente che in effetti egli aveva posto nel nord la dimore del male.27



Il sistema teologico di Tolkien ha dunque cambiato forma, fino a diventare un sistema neoplatonico pagano in piena regola. Eppure non aderisce perfettamente nemmeno a questo modello poiché il terzo elemento interviene a renderlo unico: l’amore di Tolkien per le fate e per Faërie. Nonostante le antiche divinità pagane avessero solitamente una dimora separata dal mondo umano, esse intervenivano costantemente nelle sue vicende: il mondo era il loro dominio e la loro principale occupazione. Gli Dei di Tolkien, invece, sono caratterizzati da una particolare mancanza di interesse, e perfino avversione, per la maggior parte del mondo che essi stessi hanno creato. Malgrado alcuni di essi si interessino sporadicamente alle vicende della terra, la loro principale preoccupazione è la creazione e la difesa di un luogo idilliaco riservato a loro stessi, ai loro spiriti subordinati e agli ospiti da loro invitati.28 Questo luogo è in effetti una terra delle fate che gli uomini possono raggiungere solamente in sogno o dopo la morte, ma che si cela appena oltre il limite della loro coscienza e di quella delle altre creature della Terra di Mezzo e che condiziona la loro visione del mondo. Un ulteriore segnale del personale amore di Tolkien per le fiabe è un’altra caratteristica unica del suo universo: non è mai visto attraverso occhi umani. La parte più vecchia delle sue storie è sempre raccontata attraverso gli occhi degli Elfi, mentre quella successiva, molto più famosa, attraverso quelli degli Hobbit: in entrambi i casi si tratta di creature provenienti concettualmente dal mondo delle fate. Questa determinazione assoluta a mostrare un mondo in cui gli esseri umani non sono la forma più alta di vita corporea intelligente non appartiene decisamente al Cristianesimo. È invece un’idea fortemente radicata nelle antiche credenze pagane che si è poi sviluppata attraverso il medioevo e le epoche successive mediante le leggende di fate e goblin: leggende che fungevano alternativamente da completamento o da antidoto all’ortodossa cosmologia cristiana.



Questi sono quindi gli elementi costitutivi della visione religiosa di Tolkien, unica nel suo genere. Ciò che colpisce maggiormente è come essi siano mal mescolati all’interno delle sue storie: ciascuno tende infatti a dominare in una particolare sezione della narrazione. Si prenda, ad esempio, la domanda cruciale: cosa accade agli Uomini dopo la loro morte? Nel primo capitolo della prima bozza della mitologia tolkieniana, datata intorno al 1920, è spiegato che le loro anime lasciano il mondo per decisione di Ilúvatar e che alla fine esse si uniranno ai cori celesti. Questa spiegazione ben si accorda all’intonazione prevalentemente cristiana di quel primo capitolo, ma nel successivo sono i temi pagani a predominare: infatti ci viene detto che dopo la morte le anime degli Uomini si recano in un mondo sotterraneo per essere giudicate da una dea dei morti, Fui, che manda la maggior parte delle anime a vagare per una pianura tenebrosa, alcune ad essere torturate dal demoniaco dio Melko, alcune le tiene con sé, mentre altre ancora, amate in particolar modo dagli Dei, vengono portate nel loro reame incantato con cocchi e cavalli. Christopher Tolkien ha coraggiosamente provato ad assimilare questo schema a quello cattolico di Paradiso, Inferno e Purgatorio, ma esso ha evidentemente molti più punti in comune con la descrizione della vita dopo la morte che si trova nell’Odissea di Omero o nell’Eneide di Virgilio, con Fui e il suo consorte Vefantur che prendono le parti di Ade e Persefone.29 Il figlio di Tolkien è stato troppo onesto e scrupoloso per ignorare l’evidente contrasto fra questi due capitoli della narrazione. Sembrano esserci tre possibili spiegazioni per questa apparente contraddizione e, per mancanza di ulteriori risorse o prove a sostegno di una o dell’altra, non posso scegliere la più corretta tra di esse. La prima spiegazione è che il primo capitolo, più cristiano, sia giunto a noi in una forma scritta di molto successiva alla stesura del secondo capitolo. Christopher Tolkien rifiuta questa ipotesi sulla base del fatto che i manoscritti stessi suggeriscono che il secondo capitolo sia stato scritto, in quella forma, subito dopo il primo, ma questo era comunque l’unico modo che egli riusciva a concepire per risolvere il problema. Una seconda possibilità è che Tolkien stesso sia diventato meno cristiano nello spazio di tempo tra la stesura dei due capitoli: fatto possibile, alla luce di ciò che più tardi avrebbe scritto circa la sua perdita di fede proprio in quel periodo. La terza eventualità è che la sua visione della propria cosmologia fosse effettivamente contraddittoria e che egli adottasse soluzioni differenti a seconda dell’argomento di cui parlava e del proprio stato d’animo: diventava quindi più cristiano quando trattava dell’Essere Supremo e più pagano quando aveva a che fare con materie terrene. Poiché non portò mai a termine queste sue prime storie, o comunque non le perfezionò per la pubblicazione, queste contraddizioni non vennero mai appianate.



O meglio, furono appianate, ma solo mezzo secolo più tardi, ossia quando le lettere superstiti di Tolkien tornano in gioco. Ho largamente citato passaggi di queste lettere che contraddicono una lettura semplicistica del Signore degli Anelli come opera cristiana, tuttavia, considerate dal punto di vista qui assunto, le affermazioni di Tolkien secondo le quali il suo mondo immaginario non è cristiano risultano solamente sporadiche e vane azioni di retroguardia nel progressivo processo di abbandono degli elementi pagani della sua opera. Ansioso di ristabilire la sua fama di autore cattolico dopo le critiche fatte al libro, egli si accinse a preparare per la pubblicazione i suoi scritti precedenti rimodellandoli in una forma più coerente col Cristianesimo. Nelle lettere la maggior parte dei riferimenti a questo processo è costituita da frasi che enfatizzano gli elementi cristiani,30 e nella versione finale delle prime storie del suo mondo, pubblicata postuma da Christopher Tolkien come Il Silmarillion, il lavoro è completo. Le creature divine che vegliano sulla terra non vengono più chiamate “Dei” ed è l’Essere Supremo stesso, da solo e con una singola parola, a creare il mondo e ad assegnare quindi ai Valar il compito di vegliare sulla creazione sotto il suo controllo. I Valar non si riproducono più, non litigano, e i più distruttivi e simili ai mortali scompaiono del tutto. Le anime degli esseri umani, alla loro morte, lasciano la terra per raggiungere una destinazione decisa dall’unica grande divinità e la possibilità della reincarnazione è eliminata. Il risultato è un Neo-Platonismo cristiano coerente ed armonioso.31 Sottolineo, però, che questa operazione è stata effettuata dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli, e che è stata la prima versione dell’universo di Tolkien a gettare le fondamenta della creazione di questo capolavoro letterario.



Vorrei quindi concludere considerando quegli elementi contenuti nel libro stesso e presi sovente ad esempio delle implicite posizioni cristiane in opposizione ad espliciti riferimenti alla teologia cristiana che Tolkien, nelle sue lettere, sosteneva di aver inserito nel testo. Il primo di questi elementi è la costante sensazione della presenza di una provvidenza, ovverosia di una mano invisibile e benevolente che guida gli eventi. Questa sensazione è indubbiamente presente ed è rintracciabile anche nelle precedenti narrazioni, che sarebbero poi diventate Il Silmarillion, in cui si fa esplicito riferimento al fatto che Ilúvatar stesso, o uno degli Dei, stia indirizzando le vicende. Alcuni studiosi hanno creduto di individuare una specifica fonte cristiana per questa linea di pensiero, come Kathleen Dub che indica nell’autore alto medievale Boezio, certamente ben noto a Tolkien, la sua fonte di ispirazione.32 Questo approccio presenta però due problemi: il primo è che esistono anche possibile fonti pagane a cui fare riferimento, tra cui la più ovvia è indubbiamente il concetto di Wyrd, la spersonalizzata forza del fato che è presente in alcuni degli scritti anglosassoni di cui Tolkien era un esperto; il secondo è che in nessun punto del Signore degli Anelli è provata la reale esistenza di questa mano provvidenziale, così come nessun personaggio pone questa credenza alla base delle proprie azioni, sebbene essa sia accettata da alcuni personaggi come un pensiero confortante, benché irrilevante sul piano pratico. Nei primi racconti di Tolkien a volte è esplicitamente mostrato un dio che indirizza gli affari di Uomini ed Elfi per contrastare i piani di una divinità rivale, in linea con la migliore tradizione omerica, ma l’eventualità che Ilúvatar stesso stia guidando gli eventi è solo menzionata, in retrospettiva, come una fievole ma incoraggiante possibilità.33



Alla mitologia di Tolkien manca anche uno dei più rincuoranti aspetti del provvidenzialismo, ossia la sicurezza che gli eventi condurranno inesorabilmente ad un finale che includerà la salvezza per tutti i personaggi che avranno avuto la fede necessaria per credere nel disegno superiore. Nel Signore degli anelli nessuno basa le azioni della propria vita sulla speranza di un mondo migliore dopo di essa. Il momento in cui una speranza di questo tipo sarebbe maggiormente necessaria, ossia alla conclusione della storia d’amore fra Arwen e Aragorn, è invece marcato dalla desolata negazione di ogni certezza. A mio parere Tolkien non ha assimilato un simile atteggiamento da alcun testo, ma era intrinseco nella sua natura fatalista e pessimista. Una lettera del 1941a suo figlio Micheal riassume perfettamente questo atteggiamento: «Di solito tu scegli ben poco: la vita e le circostanze lo fanno per te la maggior parte delle volte (benché, se esiste un Dio, quelli devono essere i suoi strumenti)».34 Nella sua mitologia, personaggi come Gandalf si limitano a ribadire questo atteggiamento rassegnato ed agnostico, sebbene speranzoso.

Un’altra presunta caratteristica cristiana di Tolkien è la sua decisione di assegnare azioni eroiche non agli eroi convenzionali, bensì a personaggi fisicamente deboli e politicamente marginali: i suoi Hobbit. È evidente che questa celebrazione degli emarginati è totalmente aliena allo spirito dell’epica pagana, ma è anche quasi ugualmente estranea alla tradizione romanzesca cristiana medievale. La ragione più ovvia di questa scelta è piuttosto da rintracciare nell’amore di Tolkien per i racconti popolari e fiabeschi. Per citare Tolkien stesso (attraverso Gandalf), essa è parte integrante delle storie «di draghi, goblin e giganti, del salvataggio di principesse e dell’inaspettata fortuna dei figli di vedove».35 Non bisogna certo ricorrere alla teologia per spiegare perché i racconti popolari tendono ad avere emarginati e derelitti come eroi. Comunemente citato come elemento cristiano è inoltre il ruolo del perdono nel Signore degli Anelli: le ricompense che si ottengono mostrando compassione e pietà per un nemico. Ancora una volta, ho due problemi riguardo a questa affermazione. Il primo è che, in poche parole, attraverso tutte le vicende immaginate da Tolkien dare una seconda possibilità ad un nemico semplicemente non funziona: Melko, Sauron e Saruman beneficiano di una seconda possibilità, ma tutti e tre la usano per fare ancora più male di quanto non avessero fatto prima. Il caso eccezionale che viene solitamente usato per invalidare questa tendenza è quello di Gollum, ma egli segue il solito cupo schema ripagando la compassione con un tradimento finale, rinforzando così la tesi che perdonare i nemici non riesce mai a redimerli. Tuttavia, il fatto di averlo risparmiato consente a Frodo, seppure in modo fortuito e per chissà quale gioco della sorte o di Ilúvatar, di riuscire nella sua impresa. Coloro che cercano in questo un messaggio cristiano non devono far altro che citare Tolkien stesso, il quale scrisse che la fine del viaggio del Portatore dell’Anello «esemplifica […] le note parole: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”».36 La mia difficoltà con queste affermazioni è anche il mio secondo problema, problema ammesso anche da Tolkien in un momento e in una lettera diversi: egli affermò infatti di aver scritto molte versioni diverse della resa dei conti finale su Monte Fato, e che quella infine scelta non era stata «deliberatamente elaborata né prevista».37



Oggi questi finali alternativi sono stati tutti pubblicati da Christopher Tolkien e mostrano che un primo tema ricorrente in ognuno di essi è il fallimento di Frodo nel gettare l’Anello, tema che è sia coerente con il dichiarato potere dell’Anello, sia funzionale ad un interessante climax narrativo. L’altra idea relativamente fissa consiste nel ruolo in qualche modo giocato da Gollum nella sua conseguente caduta nella Voragine del Fato. Tolkien non era però sicuro di come tutto ciò dovesse accadere, e così Gollum si ritrovò, nell’arco di sette anni, ad essere successivamente spinto da Frodo, spinto da Sam, a cadere con Sam o ad impazzire e a gettarsi lui stesso nelle fiamme.38 Nella lettera in cui parla di queste versioni alternative, Tolkien spiegò inoltre di essere arrivato alla redazione finale semplicemente seguendo «la logica del racconto fino a quel punto».39 Anche nella lettera in cui fa riferimento al Padre Nostro, inizia affermando di aver scelto quella soluzione perché «avendo considerato la situazione, e i “caratteri” di Frodo, Sam e Gollum, quegli avvenimenti mi sembravano credibili da un punto di vista meccanico, morale e psicologico», ma poi aggiunge la sua interpretazione cristiana con le parole: «Ma, naturalmente, se desidera una riflessione più profonda, dirò che…».40 Questo mi sembra suggerire che chi voglia cercare un significato cristiano nella fine dell’impresa di Frodo può sicuramente farlo, ma esporre un tale significato non era lo scopo primario di Tolkien.



È tempo di concludere. Ciò che dovrebbe emerge da questa disquisizione è che, mentre sono felice di accettare Tolkien come autore cristiano in riferimento al suo credo personale e ad alcune delle sue opere pubblicate, non credo di poterlo fare, in modo semplice e diretto, in riferimento alla sua mitologia. Egli non è quindi un autore cristiano nello stesso modo lineare in cui G.K. Chesterton, Hilaire Belloc, T.S. Eliot, Charles Williams, Helen Waddell, Christopher Fry, Dorothy Sayers, Graham Greene, Evelyn Waugh e Rose Macaulay lo sono, e neppure può essere inserito insieme a loro all’interno dell’ultimo grande periodo di scrittura creativa cristiana in lingua inglese. Come ho già suggerito altrove, Tolkien dovrebbe essere invece inserito in quel gruppo di autori del suo stesso periodo che hanno utilizzato sia temi pagani sia temi cristiani per ottenere una mescolanza di entrambi: Rider Haggard, Kenneth Grahame, Algernon Blackwood, Dion Fortune, Rudyard Kipling, William Butler Yeats, George Russell e, in modo ancora più significativo, C.S. Lewis.41 Di conseguenza, come classificare Tolkien è un questione ancora aperta. Si può pensare di trattare il suo sistema cosmologico e teologico, unico nel suo genere, come un classico esempio di autore cristiano in vacanza intellettuale. In fin dei conti, la Terra di Mezzo è diversa dalla nostra Terra nella sua biologia, nella geografia e anche nella storia, quindi perché non nella religione?42 L’unica cosa che qui mi da tregua è un altro estratto da una delle sue lettere. Parlando della sua mitologia, Tolkien ha scritto: «teologicamente (se l’espressione non è troppo pomposa) credo che il quadro sia meno dissonante da ciò che alcuni (me compreso) credono sia la verità».43



Ad ogni modo, per quanto il suo universo immaginario possa essere un riflesso di ciò che egli sentiva essere, realmente o idealmente, il “vero” universo, esso ha chiaramente una teologia distintamente propria. Se è cristiana, si tratta di una cristianità così non ortodossa e così rarefatta da meritare l’etichetta di eretica. Si può considerare ortodossa solo eliminando molti dei suoi più caratteristici elementi primitivi: questa è, in parte, proprio l’operazione cui Tolkien dedicò le ultime due decadi della sua vita. Penso che egli sarebbe stato profondamente ferito dal sentirsi chiamare eretico, e questo è il motivo per cui definisco “pagani” gli elementi non cristiani della sua mitologia nella forma in cui rimase per gran parte della sua esistenza e con cui diede vita alla suo opera più grande. Considerando che questi elementi rappresentano circa i due terzi degli ingredienti che costituiscono il suo universo immaginario, non possono certo esserne considerati una parte accidentale o dannosa. Sono invece parte dell’essenza stessa della sua opera, e quindi dell’uomo, e questo giustifica la scelta del titolo di questo saggio.



[traduzione di Alberto Ladavas di The Pagan Tolkien, tratto da da Aa. Vv, The Ring Goes Ever On, proceedings della Tolkien Conference di Brimingham 2005]

1 Traduzione di Cristina Arnaboldi a cura di Alberto Ladavas.

2 Catherine Madsen, “‘Light from an Invisible Lamp’: Natural Religion in The Lord of the Rings”, in Tolkien

and the Invention of Myth, a c. di Jane Chance, University of Kentucky Press, Lexington 2004, pp. 35-47.

3 Ronald Hutton, Witches, Druids and King Arthur: studies in paganism, myth and magic, Hambledon and London, London 2006, Capitolo 7, “The Inklings and the Gods”, pp. 215-238.

4 La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, a c. di Humphrey Carpenter, Bompiani, Milano 2004.

5 Lettere, n. 213.

6 Ivi, n. 142, t.n.

7 Ivi, n. 165.

8 Ivi, nn. 142, 213.

9 Ivi, nn. 153, 211, 269.

10 Ivi, n. 250.

11 Verlyn Flieger, Schegge di luce, Marietti, Genova-Milano 2007, pp. 27-31.

12 Lettere, n. 250, t.n.

13 Ibid., t.n.

14 Lettere, n. 131, t.n.

15 Ivi, n. 212.

16 Ivi, n. 269, t.n.

17 Ivi, n. 153, t.n.

18 Ivi, n. 155.

19 Ivi, nn. 131, 153, 212.

20 Ivi, n. 131.

21 Pubblicato la prima volta nel volume dedicato a Charles Williams e ristampato in J.R.R. Tolkien, Albero e foglia, Bompiani, Milano 2004 che contiene anche “«Foglia», di Niggle”.

22 J.R.R. Tolkien, The Book of Lost Tales, a c. di Christopher Tolkien, Allen & Unwin, London 1983, vol. I, pp. 45-63.

23 Mary Carman Rose, “The Christian Platonism of C.S. Lewis, J.R.R. Tolkien and Charles Williams”, in Neo-Platonism and Christian Thought, a c. di Dominic J. O’Meara, State University of New York Press, Albany 1982, pp. 203-217.

24 J.R.R. Tolkien, The Book of Lost Tales, op. cit., vol. I, pp. 64-245, passim.

25 Marjorie J. Burns, “Norse and Christian Gods: The Integrative Theology of J.R.R. Tolkien”, in Tolkien and the Invention of Myth, a c. di J. Chance, The University Press of Kentucky, Lexington 2004, pp. 163-178.

26 Lettere, n. 142.

27 Ivi, n. 294.

28 Questo è un tema costante in J.R.R. Tolkien, The Book of Lost Tales, op. cit., vol. 1, p. 64 e sgg.

29 J.R.R. Tolkien, The Book of Lost Tales, op. cit., vol. 1, pp. 59, 77, 92-93.

30 Lettere, nn. 131, 165, 181, 212.

31 J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, a c. di Christopher Tolkien, Bompiani, Milano 2005.

32 Kathleen E. Dubs, “Providence, Fate and Chance: Boethian Philosophy in The Lord of the Rings”, in Tolkien and the Invention of Myth, op. cit., pp. 133-142.

33 J.R.R. Tolkien, The Book of Lost Tales, op. cit., vol. 1, pp. 118-119, 150-151, e vol. 2, pp. 144-156.

34 Lettere, n. 43, t.n.

35 J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit annotato, a c. di Douglas A. Anderson, Bompiani, Milano 2004, p. 43, t.n.

36 Lettere, n. 181, t.n.

37 Ivi, n. 246, t.n.

38 J.R.R. Tolkien, The Return of the Shadow, a c. di Christopher Tolkien, HarperCollins, London 2002, pp. 126, 380-381; J.R.R. Tolkien, The Treason of Isengard, a c. di Christopher Tolkien, HarperCollins, London 2002, pp. 208-209; J.R.R. Tolkien, Sauron Defeated, a c. di Christopher Tolkien, HarperCollins, London 2002, pp. 4-5.

39 Lettere, n. 246.

40 Ivi, n. 181.

41 Ronald Hutton, Witches, Druids and King Arthur, op. cit., Capitolo 7, “The Inklings and the Gods”. Il primo autore ad attirare l'attenzione sulla presenza di temi pagani in Tolkien è stato Patrick Curry, Defending Middle-earth, Floris, London 1997, pp. 29, 110-118. Curry ed io siamo giunti a conclusioni simili attraverso strade diverse e con enfasi su punti diversi.

42 Come ho suggerito in Witches, Druids and King Arthur, op. cit., pp. 236-237.

43 Lettere, n. 211, t.n.