Recensione di La falce spezzata. Morte e immortalità in J.R.R. Tolkien,

di Roberto Arduini e Claudio A. Testi (Torino, Marietti editore, 2009)



di Patrick Curry


Questa raccolta di documenti è di altissima qualità, e coloro che vi hanno collaborato sostengono i loro punti di vista in modo sobrio e ben documentato su un tema di estrema importanza. Importante, cioè, per chiunque, senza eccezioni, compreso il sottoinsieme costituito dagli studiosi e dagli appassionati di Tolkien.

Non è un segreto che Tolkien stesso considerasse “la Morte e il desiderio d’immortalità” il tema fondamentale, per così dire, della sua fiction; dunque non è certo troppo presto che finalmente appaia una raccolta interamente dedicata ad esso. Si vede come i co-autori di questo libro siano a loro agio nei loro commenti, essendo non soltanto degli esperti dell’opera di Tolkien (degli scritti minori tanto quanto dei maggiori) ma insolitamente competenti in filosofia e teologia. Devono ricevere, assieme all’editore (la Walking Tree), le nostre congratulazioni poiché questo contributo arricchisce la scholarship tolkieniana anglofona.

Vorrei aggiungere che l’interesse del libro si estende ben oltre gli studi su Tolkien, nella misura in cui mette in evidenza i risultati e le implicazioni della battaglia di questo colto e brillante studioso, durata tutta la vita, con alcune delle domande più profonde nel cuore della teologia e della filosofia.

Non ho intenzione di commentare i singoli articoli ma piuttosto i problemi che sollevano nella loro globalità.

Una cosa che diviene chiara, a livello generale, è la straordinaria misura in cui i destini degli elfi e degli esseri umani sono intrecciati. (Incidentalmente, non trovo accettabile l’uso continuo del termine “uomini” per riferirsi all’intera umanità, in cui ci sono anche le donne. Era normale al tempo di Tolkien, ma ora non lo è più, ed è giusto così). Non avevo compreso la simmetria fondamentale tra i due popoli – con gli umani che desiderano fuggire dalla morte, mentre gli elfi desiderano essere liberati dai cicli del mondo – o tutte le complessità e le sottigliezze che questi saggi chiariscono facendo un buon lavoro. Ad esempio, gli Elfi ‘muoiono’ ma non, nonostante la comunanza evidente, allo stesso modo con cui lo facciamo noi. E pare che quando infine il mondo finirà, anche gli Elfi affronteranno una specie di morte, oltre la quale essi non possono vedere chiaramente più di quanto possiamo fare noi con la nostra.

Per quanto riguarda la possibilità di comprendere gli Elfi e la loro (condizionata) immortalità, così come Tolkien ce li presenta, mi chiedo se essi debbano essere affrontati come un aspetto dell’umanità, proprio come lo sono, in effetti, gli hobbit (per ammissione dello stesso Tolkien) e come possono essere considerate le altre “razze” della Terra di Mezzo. O forse dovrebbero essere trattati come un contrasto completo e una traccia interpretativa per noi esseri umani? Non è una questione banale, perchè l'una o l'altra linea interpretativa porterebbero a conseguenze diverse tra loro, anche se in parte intersecantisi.

Comprensibilmente, dato Tolkien stesso, le analisi dei co-autori sono spesso dominate da considerazioni teologiche e specificamente teistiche. Potrebbe essere una buona idea, tuttavia, quella di tenere in qualche modo a mente che – ovviamente, data l’universalità della morte come problema umano, e in ciò distinta dal Cristianesimo, il cui “cattolicesimo” nel senso di “universalismo” rimane un’ideale permanente piuttosto che una realtà storica – anche altre possibilità possono coesistere. Per esempio, nel suo Tractatus Logico-Philosophicus, Ludwig Wittgenstein osservò che «Se definiamo eternità non una durata temporale infinita ma una condizione senza tempo, allora la vita eterna appartiene a coloro che vivono nel presente». Ora, una “durata temporale infinita” è chiaramente identica a ciò che Tolkien chiama “longevità seriale illimitata” o “vita seriale infinita”; tuttavia l’alternativa di Wittgenstein è suscettibile di un esito e di una valutazione assai differenti: buddista, ad esempio, o semplicemente mistico. In ogni caso, se non esclude una divinità, neppure ne richiede una. Ma neppure questo punto è semplice: una strada per vivere nel presente potrebbe essere – in realtà – un tipo “forte” di fede cristiana!

Mi piacerebbe registrare un paio di punti su cui non sono esattamente d’accordo, cioè due altre riserve.

La prima è questa: concedere a morte ed immortalità un’importanza centrale nell’opera di Tolkien non dovrebbe incoraggiare l’idea che il Potere (o la Magia, o le Macchine) non siano importanti; e questo per tre ragioni. Primo, sarebbe ingenuo fino ad essere stupido e tradirebbe la ricca complessità dei racconti stessi. (Respingere il potere come mero meccanismo letterario – come Tolkien stesso arrivò pericolosamente vicino a fare – è rischiare di volgere le storie in meri veicoli per un Messaggio; il che sarebbe un’allegoria). Secondo, il potere è inseparabilmente legato con la morte, poiché esso è la modalità di scelta per eccellenza per coloro (ed essi sono molti e potenti) che cercano di evitare la morte; potere di cui l’esemplare finale è l’Anello di Sauron. Nell’esperienza vissuta, pertanto, così come nella storia collettiva, Morte e Potere non possono essere chiaramente separati. Terzo, non dobbiamo essere del tutto vincolati all’opinione personale che Tolkien aveva del problema. Non fosse altro che egli diede varie “spiegazioni” della sua creazione letteraria in tempi diversi: il desiderio di un narratore di far sperimentare alla sua mano un racconto lungo ed avvincente, la necessità di fornire un mondo immaginario plausibile per i linguaggi da lui inventate, l’elaborazione di credenze cristiane profondamente radicate per un pubblico post-cristiano, e così via. Ancora di più per il fatto che se anche la sua visione della sua opera come meditatio mortis è indubbiamente vera, essa non è così esclusiva. Anzi, vederla in questo modo privilegerebbe esattamente quella “predominanza dei fini dell’autore” che Tolkien giustamente subordina al diritto del lettore di trovare “applicabilità” nella storia.

La mia seconda riserva concerne la visione, ripetuta nella raccolta, che gli Elfi siano colpevoli di evadere la sfida del “vivere il presente”, preferendo invece indulgere nel futile tentativo di preservare il passato. Sebbene la morte non sia un problema elfico bensì umano, perché gli Elfi non dovrebbero essere nostalgici? Sicuramente diverrebbe un problema solo se gli Elfi fossero quasi “umani onorari” e, pertanto, non dovessero fare ciò che noi non dobbiamo fare, o se fossero semplicemente un cattivo esempio per noi, essendo – loro e non noi – dei “fainéant”.

Ad ogni modo, concordo col fatto che questa tendenza elfica sia sostanzialmente inutile. Stranamente, viene menzionato una sola volta nel libro il fatto che il potere dei Tre Anelli di preservare e curare decade con la distruzione dell’Unico Anello dominante: un elemento che confermerebbe invece la tesi dei co-autori che le due strategie – e cioè la volontà di potere che si traduce in un’infinita vita seriale e il tentativo di preservare i castelli di sabbia del passato dalle maree del tempo – siano entrambe sbagliate e nocive.

Ma non allo stesso modo. È solo esagerando (o “mettendo troppe uova nel budino”: un modo molto più hobbit di porre la questione!) che si può implicare, come in particolare Andrea Monda arriva molto vicino a fare, che la debolezza degli Elfi – la quale è l’allontanarsi dalle forze reali della vita, come simboleggiato da ciascuno dei Tre Anelli – lavori nella stessa direzione o per lo stesso fine dell’esercizio del potere omicida e nichilistico simboleggiato dall’Unico Anello. Se ciò non vi fosse ovvio, lasciatemi elencare qualche ragione. Primo, la Compagnia dell’Anello che si oppone al Nemico include un elfo; non include invece uno Spettro dell’Anello. Secondo, gli Elfi sono chiaramente ritratti da Tolkien come esseri le cui virtù possono ugualmente essere caratterizzate come gli attributi di alcuni dei migliori, dei più grandi e dei più nobili esseri umani. Terzo, quando Tolkien dice (nella lettera 165), a proposito di ciò che lo muove sul Signore degli Anelli ( e cioè che “il cuore rimane nella descrizione di Cerin Amroth”), dobbiamo respingerlo in quanto banale o sbagliato? Tale descrizione comprende infatti uno dei capitoli più toccanti del libro, e per una buona ragione. Quarto, come ho mostrato in Difesa della Terra di Mezzo, esiste una cosa come la “nostalgia radicale” che spinge le persone a difendere attivamente il bene. Infine, Bilbo e Frodo, nelle cui mani (assieme a quelle di Gollum) l’Anello trova la sua fine, sono gli hobbit più elfici o “intellettuali”, e sono chiaramente individuati da Tolkien come tali.

In breve, i saggi di questa raccolta sono troppo duri con gli Elfi o con l’Elficità. Ma questo, come ho detto, è solo una mia riserva su quello che è un libro per lo più degno e ammirevole.



[traduzione di Adriano Bernasconi di questa recensione gentilmente scritta da Patrick Curry appositamente per la nostra rivista]