Eroi e eroismo: I problemi e le soluzioni di Tolkien1

di Tom Shippey



È stato sovente fatto notare come quello del lavoro sia un ambito della vita umana stranamente trascurato nella narrativa moderna. I romanzi mostrano persone che esplorano le relazione umane nel loro tempo libero, o che hanno avventure quando non sono al lavoro. Quando il lavoro viene rappresentato in un romanzo, è di solito un lavoro relativamente attraente e affascinante, o altrimenti ad essere messe in rilievo sono, ancora una volta, le relazioni umane sul posto di lavoro (“politiche d’ufficio”, come spesso viene chiamato questo filone). Molti fra i principali romanzieri inglesi – Dickens, Scott, Jane Austen, Henry James – hanno avuto lunghe e prolifiche carriere senza mai rappresentare seriamente qualcuno impegnato a lavorare per vivere, forse perché molti romanzieri professionisti, dopo tutto, non ne sanno granché di lavoro per esperienza diretta. L’autore di fantascienza Greg Benford, che è anche un professore di astrofisica, me lo fece notare una volta e mi disse che il capitolo 20 del suo romanzo di successo Timescape (1980) era un tentativo di correggere questo disequilibrio, e mostrare una scena familiare a tutti gli accademici: un esame di dottorato contrastato o incerto. Il problema di questo tentativo, diceva Benford, era che mentre esami di questo genere (come entrambi sapevamo per esperienza personale) erano nella realtà estremamente interessanti, la possibilità di trasmettere questa sensazione a qualcuno che non vi aveva mai preso parte era quasi pari a zero: a degli estranei scene come queste appaiono terribilmente noiose. Questo è il problema con il lavoro nella finzione letteraria e nella realtà. È allo stesso tempo estremamente noioso - non ho mai incontrato un lavoro che sia sempre, o anche solo la maggior parte del tempo, interessante - e totalmente coinvolgente. Quasi a tutti piace parlare del proprio lavoro. Quasi nessuno ha voglia di ascoltare.

Per quanto riguarda Tolkien, la mia tesi non è che avrebbe dovuto includere il mondo del lavoro nella sua narrativa, - ci sono ovvie ragioni per cui non avrebbe dovuto farlo! – ma che il suo lavoro lo influenzò almeno tanto quanto influenza chiunque altro, e che la critica che di lui si è occupata ha, come al solito, costantemente sottovalutato l’effetto che questo ha avuto su di lui. È chiaro oggi che Tolkien fu uno scrittore e ri-scrittore fra i più determinati, un uomo che impiegò un enorme ammontare di tempo nel lavorare alla propria opera letteraria, sia quella che poi pubblicò, che quella che lasciò inedita. E tuttavia io azzarderei l’ipotesi che per ogni ora che spese per la sua narrativa, egli ne spese quattro nel lavoro per le università di Leeds e Oxford. Questo immensa quantità di tempo, impiegata insegnando, correggendo, leggendo, preparando, discutendo, partecipando a commissioni, pensando al futuro della sua materia, ecc., non può non averlo segnato in profondità. Se quello che io sostengo nel prosieguo di questo saggio sembra esagerato o improbabile, chiedo ai miei lettori, nuovamente, di riflettere sul lavoro: è il Grande Non-Detto della narrativa e della critica.

Tolkien stesso era chiaramente sensibile al tema dei propri doveri professionali, per evidenti ragioni. Diventò professore a Leeds nel 1924, e a Oxford nel 1925, rimanendo titolare di una cattedra fino al suo pensionamento nel 1959. Durante questi trentacinque anni non ha mai scritto un libro sulla sua materia. Curò l’edizione del poema Sir Gawain and the Green Knight, in collaborazione con E. V. Gordon. Non proseguì, tuttavia, da questo alla progettata edizione di Pearl (vedi la prefazione di Ida Gordon a quella edizione, quando finalmente fu pubblicata nel 1953). La sua edizione del manoscritto 402 del Corpus Christi College della Ancrene Wisse uscì nel 1962, più di trenta anni dopo l’articolo estremamente interessante e stimolante che aveva dedicato a quest’opera in Essays and Studies; essa non è altro, tuttavia, che una trascrizione del manoscritto, senza l’ampia introduzione e le corpose note che sicuramente ci si attendeva.2 Due o tre degli articoli scientifici di Tolkien – incluso quello sulla Ancrene Wisse e soprattutto quello su Beowulf: i mostri e i critici – hanno avuto una grandissima influenza (vedi il saggio “Tolkien’s Academic Reputation Now” in questo stesso volume). Ma quasi tutte le pubblicazioni che hanno a che fare con il suo lavoro erano uscite entro il 1940, vent’anni prima che andasse in pensione. Continuo a ritenere “Foglia” di Niggle come una allegoria personale, con il dipinto di Niggle che corrisponde all’opera letteraria di Tolkien e il giardino di Niggle al suo lavoro accademico, ed è chiaro da questo che qualcuno, almeno, pensava che Niggle non stesse svolgendo il lavoro che gli competeva: “Certi visitatori alludevano al fatto che il suo giardino era piuttosto trascurato e che poteva capitargli di ricevere la visita di un Ispettore” (J.R.R. Tolkien; “Foglia” di Niggle; in Idem, Albero e Foglia; Milano, Bompiani, 2004; pg 111). Quando si rendono conto che ben presto sarebbe dovuto partire per il suo viaggio, “si chiedevano chi si sarebbe installato in casa sua e se il giardino sarebbe stato tenuto un po’ meglio.” (Ivi, pg. 112). Speculazioni su chi subentrerà in una data cattedra costituiscono naturalmente un aspetto fondamentale delle “politiche d’ufficio” accademiche, ad Oxford non meno che altrove.

Tuttavia ritengo che Tolkien, per quanto (occasionalmente) si possa essere sentito o sia stato messo nelle condizioni di sentirsi sulla difensiva, stesse sempre facendo il proprio lavoro, e spesso in maniera decisamente stimolante. Da quando è morto abbiamo visto la sua edizione di The Old English Exodus, pubblicato da Joan Turville-Petre, e di Finn and Hengest, curato da Alan Bliss (a questo riguardo, vedi il saggio “A Look at Exodus” e “Finn and Hengest” in questo volume). Entrambi questi lavori rappresentano una considerevole mole di riflessioni, passata sotto forma di lezioni a molte generazioni di studenti. Essi provano ciò che dovremmo comunque già aver indovinato, e cioè che persino mentre scriveva Il Signore degli Anelli e riscriveva Il Silmarillion e molto altro ancora, Tolkien non cessava di pensare al proprio lavoro e di affrontarne i problemi. La tesi di questo mio articolo è semplicemente che uno dei modi che aveva per risolvere questi problemi era di inserirli nella sua narrativa.

Qual era il problema il problema lavorativo che Tolkien doveva giornalmente affrontare? Era, direi, spiegare testi antiche e storie antiche: considerare e risolvere i nodi problematici. Se sembro spendere troppo tempo sui nodi problematici, ripeto che è sempre molto meno di quello che spendeva Tolkien: perché questi costituivano il suo lavoro. Presenterò, pertanto, tre casi difficili tratti dalle antiche storie germaniche – avrei potuto citarne con facilità trentatré – non in quanto casi speciali, ma come meri esempi del tipo di cose a cui Tolkien doveva costantemente applicare la propria riflessione.

Il primo di questi è la storia di Alboino figlio di Audoino, e del re dei Gepidi Torisindo (nonché del figlio di Torisindo, Cunimondo e della figlia di quest’ultimo, Rosmunda). Questa storia, trascritta sin dal VII secolo, chiaramente aveva una certa rilevanza per Tolkien, forse solo perché Alboin (Alboino) è palesemente la forma longobarda del nome antico-anglosassone Ælfwine, ‘Amico degli Elfi’, un nome che ha sempre attirato l’attenzione di Tolkien. Il nome e la storia sono entrambi riutilizzati nel suo racconto incompiuto ‘The Lost Road’, ora pubblicato da Christopher Tolkien nel volume con lo stesso nome, alle pagine 53-55 del quale il curatore fa una parafrasi della storia originale e aggiunge una significativa nota a piè di pagina. Parafrasando la storia ancor più brevemente, si potrebbe dire che in essa Alboino, principe dei Longobardi, non viene ‘promosso’ da sua padre perché non è stato ancora ‘fatto cavaliere’, per così dire; e tale onore gli può essere conferito solamente dal re di qualche altra tribù (per evitare favoritismi, si suppone). Alboino allora si reca a chiedere questa investitura al vicino re dei Gepidi, Torisindo, il cui figlio egli ha appena ucciso. Torisindo fa ciò che gli viene chiesto e rimanda Alboino sano e salvo da suo padre. In due seguiti di questa storia veniamo prima a sapere che Alboino più tardi ripagò questo gesto di generosità uccidendo l’altro figlio di Torisindo, Cunimondo, ricavando un calice dal suo teschio e invitando la figlia di Cunimondo, Rosmunda, che aveva nel frattempo sposato, a bere da esso. Per questo affronto Rosmunda, successivamente, lo ucciderà. Il problema per Tolkien – e ripeto che questo era lavoro per lui, non oziosa curiosità – è che senso dare a questo racconto. Nello specifico, cos’è che fece di Alboino un eroe dei carmi germanici, famoso per la sua generosità, come è rappresentato non solo nella storia di Paolo Diacono (forse tacciabile di partigianeria, essendo l’autore stesso un Longobardo), ma anche nel Widsith, un poema in antico-anglosassone? Alboino dopo tutto viene rappresentato come crudele e grossolano all’estremo, come lo stesso Christopher Tolkien sottolinea nella sua significativa nota, citando una differente e non certo elogiativa rappresentazione di Alboino come un schiavista senza scrupoli. La risposta potrebbe essere, secondo me, che ciò che rendeva Alboino ammirevole ai bardi dei tempi più antichi era il modo in cui era pronto a rischiare la vita per un punto di onore, e il fatto che quel punto d’onore era stato riconosciuto non solo da lui stesso, ma dai suoi nemici. Si era affidato alla magnanimità di Torisindo. Aveva invitato Torisindo a riconoscere che un codice d’onore era più importante dei suoi sentimenti personali e della vita stessa di Alboino. Per usare un termine moderno ed anacronistico, sia Alboino che Torisindo si mostrarono capaci di ‘decentramento’, vedendosi rispettivamente non come figlio rifiutato o padre afflitto, ma nei ruoli di aspirante guerriero o di re giusto. Questa ammirevole mancanza di egocentrismo coesiste, tuttavia, con il costume della caccia alle teste e con un evidente e quasi orchesco crudele umorismo – poiché Alboino invita Rosmunda a “bere in allegria con suo padre”, cioè dal teschio del padre.

Una seconda scena su cui Tolkien deve aver riflettuto, sebbene non penso che sia stata riassorbita direttamente nella sua fiction, viene dalla Saga di Egil Skalla-Grimsson, che si può leggere ora nella traduzione di Harmann Pálsson e Paul Edwards (1976) nelle edizioni Penguin. Una scena di quest’opera che può ben aver attirato la particolare attenzione di Tolkien si svolge dopo la battaglia di Vinheith, nella quale, racconta la saga, il re inglese Æthelstan, sostenuto da Egil e da suo fratello Thorolf, sconfigge una coalizione di re del Nord. La battaglia viene generalmente identificata con quella (storicamente avvenuta) chiamata dagli inglesi Brunanburh, commemorata in una lunga poesia in inglese contenuta nella Anglo-Saxon Chronicle – sebbene nessun resoconto in lingua inglese faccia mai riferimento ad un personaggio come Egil l’Islandese. Tolkien aveva un interesse professionale per gli eventi che apparivano in più di una tradizione germanica (come la storia di Alboino) e mostrava altresì particolare interesse per eventi che “incrociavano” sia la tradizione scandinava che quella inglese. Era una cosa che faceva egli stesso: Christopher Tolkien riferisce (Book of Lost Tales 1, pg. 245) che ad un certo punto in un manoscritto suo padre aveva vergato sopra un nome in Elfico la parola in Antico Inglese Aesc. E annotava: “sembra ipotizzabile che questa sia una anglicizzazione della parola in Antico Norreno Askr (‘ash’, cenere), nella mitologia nordica il nome del primo uomo.” Se le cose stanno così, allora possiamo considerarlo un tentativo da parte di Tolkien di anglicizzare, di mettere in (Antico) Inglese un frammento di mitologia nordica – ovviamente perché la “mitologia nordica” era sopravvissuta ampiamente in lingua Norrena, ma quasi per niente in Inglese. Tolkien voleva recuperare pezzi di Norreno per l’Inglese e la saga di Egil metteva a disposizione una considerevole mole di materiale per questa operazione di recupero, perché molti degli avvenimenti avevano luogo in Inghilterra, e all’interno dell’opera stessa si ipotizzava con decisione che il famoso poema di Egil Höfuðlausn fosse stato in effetti composto a York e fosse pertanto, in un certo senso, “inglese”, benché scritto in Norreno.

Sia come sia, la scena che ho in mente mostra il comportamento di Egil dopo che la battaglia è stata combattuta e vinta – ma anche, purtroppo per tutti, dopo che suo fratello Thorolf è rimasto ucciso. Egil, racconta l’autore della saga, sedeva al posto d’onore al banchetto, a testa bassa. Teneva la spada sulle ginocchia e ogni tanto la estraeva per metà, per poi rinfilarla nel fodero. Era un uomo di inusuale bruttezza, commenta l’autore a questo punto, prematuramente calvo, con un naso corto e tozzo, labbra grandi, mento insolitamente ampio, di espressione aspra e feroce. Mentre sedeva, sbattendo la sua spada dentro e fuori il fodero e rifiutandosi di bere, egli “non faceva altro che alzare e abbassare le sopracciglia, prima una e poi l’altra” (Pálsson e Edwards, 1976; pg. 129). Di questo allarmante comportamento si occupa infine re Æthelstan, che senza una parola si toglie dal braccio un grosso anello d’oro, lo infila sulla punta della propria spada e lo passa a Egil, che lo prende allo stesso modo. Egil allora si rasserena, posa la spada e accetta una bevuta, rallegrandosi sempre più via via che il re gli fa ulteriori regali. Ma qual è il senso di questa scena, dove ancora una volta vediamo un eroe germanico comportarsi in maniera villana, ma stavolta anche quasi infantile, come un bambino di cinque anni che fa le bizze?

Dietro a questa scena, a mio parere, sta la consapevolezza del pubblico della saga che Egil non è interamente umano. Egli ha preso da suo padre, Skalla-Grim (cioè “Grim il Calvo”). Questi aveva preso a sua volta dal proprio padre, Kveld-Ulf (cioè “Lupo della Sera”). Perché il nome ‘lupo della sera’? Perché Ulf aveva preso da suo zio Hallbjörn Halftroll (“Mezzotroll”). C’è infatti sangue mostruoso in famiglia, accanto a quello umano, un incrocio che genera la tendenza ad diventare lupi mannari o a diventare berserk (cioè ‘camicia di orso’), e a produrre in ogni generazione un fratello bello, capace, socialmente ben inserito, dal lato umano della famiglia – in questo caso Thorolf – che deve agire come una sorta di “guardiano” per il fratello brutto, calvo, talentuoso, ma psicopatico dell’altro lato della famiglia. A Tolkien, ritengo, piaceva molto l’idea di geni mostruosi annidati in una famiglia e continuò a giocherellarci: la gente mormorava di Meglin l’Elfo Scuro (Book of Lost Tales 2, pg. 165) “che aveva sangue d’Orco nelle vene”, sebbene non si possa immaginare come questo sarebbe stato possibile in uno qualsiasi dei contesti della cosmologia sviluppata da Tolkien. Ma ciò che colpisce nella scena, è anche, di nuovo, l’elemento di umorismo satirico diretto questa volta contro Egil, e lo strano, sfacciato materialismo secondo il quale l’unico modo per consolare qualcuno per la morte di un fratello amato, è semplicemente offrirgli del denaro in cambio. Una parte del suo dolore può nascere dal fatto di aver sepolto con suo fratello (spinto dall’emozione e dalle convenzioni sociali) due anelli d’oro.

Non c’è dubbio, per farla breve, che Egil sia un eroe delle leggende germaniche. Ma egli aggiunge strane note di avidità e infantilismo alla concezione dell’eroe. Infine, e in breve, si potrebbe considerare la famosa storia di Gunnar e del fratello Högni nel poema Antico Norreno Atlakviða. Entrambi sono catturati dagli Unni, il cui re, Attila, domanda a Gunnar dove sia il famoso tesoro della sua famiglia. Gunnar si rifiuta di rispondere fino a che non gli porteranno il cuore di suo fratello Högni. Prima gli Unni gli portano il cuore di un altro, che egli respinge per la sua flaccidità. Poi gli portano il cuore di Högni, immediatamente riconosciuto con approvazione da Gunnar per le sue piccole dimensioni e la sua durezza. “Questo è il cuore di Högni il prode”, dice, “non come il cuore di Hjalli il codardo. Trema appena mentre giace sul piatto. Non tremava neanche così poco quando era nel suo petto” (traduzione mia, da Ursula Dronke, curatrice, The Poetic Edda; Oxford, Clarendon, 1969: pg. 8). Ma ora che suo fratello è morto, dice, non dirà dov’è il tesoro, ma morirà sotto le torture, invece. Non si può essere sicuri di un segreto finché vive un’altra persona che lo conosce. Ma ora che ha visto il cuore, può fare ciò che gli piace. In questa scena, ciò che colpisce è la strana crudeltà del comportamento di Gunnar, e anche il modo del tutto privo di sentimentalismo con cui combina l’ammirazione per suo fratello con la mancanza di fiducia in chiunque, eccetto se stesso. Egli ama Högni, ma vuole vedere il suo cuore estratto dal petto. Sa che Högni è del tutto senza paura, ma sente che non c’è ragione di correre rischi. In rilievo in questa scena è anche la totale fiducia in se stesso di Gunnar, il suo senso di sollievo quando la questione si riduce alla sua sola persona. Anche questo fa parte di ciò che definisce un eroe.

Come ho già detto prima, tutte queste scene – e molte altre ancora – facevano parte del bagaglio quotidiano di Tolkien in quanto professore di Anglo-Sassone, poi professore di Lingua Inglese (un incarico di più ampio raggio), come insegnante di poesia eroica e di leggende germaniche. Doveva affrontarle. Doveva spiegarle. Doveva esplorare in profondità il loro modello di funzionamento, estremamente peculiare e allo stesso tempo coerente, cioè, in altre parole, il loro “gusto”. Penso che uno dei suoi obiettivi fosse reintrodurre questo stile eroico in una letteratura ed un linguaggio che lo avevano completamente dimenticato. E tuttavia c’erano degli evidenti problemi nel tentare una simile reintroduzione:

  1. Questo stile – Alboino, Egil, Gunnar – è estremamente crudele

  2. Tutti i personaggi coinvolti erano pagani, sebbene le loro storie fossero state scritte e copiate da cristiani pieni di ammirazione.

Io penso che Tolkien fosse estremamente coinvolto e preoccupato da entrambi questi aspetti, sebbene, forse, in particolar modo dall’ultimo.

Ho suggerito diffusamente nel mio lavoro su “Il ritorno di Beorhtnoth” in questo stesso volume che il saggio/poesia che Tolkien scrisse nel 1953, Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, è una meditazione sul problema dell’eroismo cristiano e ho anche ipotizzato che il segno della difficoltà di Tolkien al riguardo, è il modo in cui fu obbligato (a parer mio) a distorcere pesantemente il poema in Antico Inglese su La battaglia di Maldon, per far sì che concordasse con ciò che voleva affermare. È doveroso aggiungere che la mia opinione non è in linea con il consenso accademico, che, su questo argomento, è stato persuaso quasi totalmente a concordare con Tolkien – che era, bisogna dire, uno scrittore molto persuasivo. Chi fosse interessato ad un’analisi relativamente completa del Maldon e de “Il ritorno di Beorhtnoth”, può dare un’occhiata al mio saggio in questo volume. Ma nel contesto di ciò che ho già affermato in questo saggio, lasciatemi dire che una ulteriore difficoltà per Tolkien nella storia del concetto germanico di eroe è il discorso che ha luogo verso la fine del poema di Maldon, quando il vecchio compagno d’armi Beorhtwold dice che non ha intenzione di sopravvivere alla morte del suo signore Beorhtnoth, anche se – come Tolkien sottolinea, al contrario di quanto faccia però lo stesso Beorhtwold – Beorhtnoth ha commesso un errore tattico di proporzioni disastrose, invitando l’armata Vichinga ad attraversare il fiume Blackwater senza opposizione e a risolvere la contesa combattendo in terreno pianeggiante. Il discorso di Beorhtwold, nella mia traduzione alla buona, ma verso per verso, dice:

Il pensiero sarà più risoluto, il cuore più saldo

Il coraggio maggiore, col diminuire delle nostre forze.

Qui giace il nostro capo, fatto a pezzi,

Il valent’uomo è a terra. Piangerà in eterno

Chi intende ora fuggire dal gioco della guerra.

Sono vecchio d’anni. Io non andrò,

Ma a fianco del mio signore,

l’uomo che mi era così caro, intendo giacere.3


Non c’è nulla di crudele in questo brano, al contrario delle scene che abbiamo visto con Alboino, Egil e Gunnar. Ma condivide qualcosa con esse, per esempio, il sangue freddo – Beorhtwold parla di se stesso come se la propria vita o la propria morte fossero argomenti di assai poco valore- e anche per ciò che ho chiamato sopra “decentramento”. Il verso 6, per esempio, è un ottimo esempio di quello che gli studiosi dell’Anglo-Sassone chiamerebbero “paratassi causale” (usuale nella poesia in Antico Inglese). Beorhtwold sembra voler intendere: “Io sono vecchio. Dunque non ho molto da vivere comunque. Dunque non significa molto se vivo o muoio. Dunque, poiché non significa molto, tanto vale rimanere. Dunque non scapperò (…)” . Tutto questo sminuisce di molto il suo gesto eroico, ma naturalmente significa anche, per converso e implicitamente, che comportarsi in modo eroico è semplicemente la cosa giusta, naturale e logica da fare.

Tolkien certamente si soffermò parecchio su questa scena e sul discorso di Beorhtwold. Oso dire che non gli piaceva. Pensava che fosse troppo tradizionale, troppo eroica e troppo esplicitamente non-cristiana per l’anno 991 (quando fu combattuta la battaglia), quasi quattro secoli dopo l’arrivo del Cristianesimo in Inghilterra. I primi longobardi e i vichinghi ancora non convertiti avrebbero potuto comportarsi in questo modo. Inglesi nati nella religione cristiana come Beorhtwold non avrebbero dovuto, e il poeta della Battaglia di Maldon non doveva avere interesse ad esprimere ammirazione per tali sentimenti. Nel Ritorno di Beorhtnoth, Tolkien, di conseguenza (come ho suggerito nel saggio già citato), rimodellò il poema in Antico Inglese per esprimere sentimenti più accettabili. Ed estrapolò – e questo è ciò che colpisce – il discorso di Beorhtwold e lo trasferì alla parte avversa, la parte pagana, citandone i primi due versi solo come parte di un sogno fatto da un confuso Torhthelm e immediatamente disapprovato in quanto “paganeggiante” dal saggio Tídwald; e per di più aggiungendo un paio di versi, inventati di sana pianta da lui stesso, per assicurarsi che il tutto avesse davvero un tono “paganeggiante”! Le parole che Torhthelm canta, svegliandosi, sono

Il cuore sia più saldo, più fermo il proposito,

più prode lo spirito, se la forza vien meno.

Non vacilli la mente, né l’animo tentenni,

benché giunga la rovina e l’oscurità trionfi.4

Gli ultimi due versi, per tornare ad un contesto tolkieniano, suonano più adatti a un Túrin Turambar, per esempio, che a figure più sagge come Gandalf o Aragorn.

Come esattamente Il ritorno di Beorhtnoth (pubblicato nel 1953) si colleghi al Signore degli Anelli (completato nella sostanza nel 1949), rimane da chiarire. Se le date ora citate non sono fuorvianti – Tolkien spesso scriveva i propri testi molti anni prima di pubblicarli5 - allora il saggio/poesia può sembrare una sorta di ammenda per aver creato una nuova opera eroica priva di evidenti derivazioni cristiane e di espliciti riferimenti al Cristianesimo. O può essere vista come una sorta di “autorizzazione” per aver creato un dialogo tra cristiano ed eroico. Comunque lo si prenda, tuttavia, Il ritorno di Beorhtnoth mostra esattamente quel tipo di interesse e di inquietudine per le scene e attitudini dell’antica poesia che ritengo Tolkien fosse costretto a fronteggiare dal suo lavoro di docente. In che modo questo influenzò la sua opera letteraria?

A questo punto sarebbe possibile – e forse per un’altra occasione e per un’altra persona potrebbe essere una buona idea – passare in rassegna un elenco delle principali figure eroiche tolkieniane (Théoden e Éomer, Boromir, Faramir e Denethor; Aragorn; Frodo; Thorin Scudodiquercia; Beren e Túrin) e riordinarle in una sorta di classifica fra i due poli rappresentati nelle loro peculiarità da Tídwald (cristiano, abituato alla sofferenza) e da Egil Skalla-Grimsson (pagano, mostruoso, vendicativo, impavido). Denethor, per esempio, sarebbe molto vicino all’estremità “pagana” della classifica ed è infatti – come ho spesso sottolineato – l’unico personaggio nel Signore degli Anelli cui questo termine è, anacronisticamente e persino impropriamente, applicato. Egli è andato troppo oltre, come Túrin Turambar, altro personaggio che commette suicidio (una caratteristica ovviamente pagana). Tuttavia l’immagine di Túrin che ha Tolkien è assai più clemente di quella che ha di Denethor: nel Book of Lost Tales 2, a pg. 116, e di nuovo in The Shaping of Middle-earth, a pg. 73, a Túrin viene persino dato una sorta di perdono dopo la morte, con più di un rimando al mito nordico del Ragnarök, laddove ci viene detto che in una qualche ultima battaglia sarà la spada nera di Túrin a dare a Melkor la morte.

Per contrasto con entrambi questi personaggi, Aragorn mostra alcune delle qualità dell’eroe cristiano, nella sua mitezza, nella sua abilità di non reagire alle provocazioni e nel suo mettersi da parte – sebbene nuovamente si possa notare che queste qualità erano meno prominenti nella prima edizione del Signore degli Anelli, di quanto divennero in seguito (vedi i miei commenti in J.R.R Tolkien. La via per la Terra di Mezzo; Genova, Marietti, 2005, pg. 328) 6. Ognuno degli altri personaggi menzionati più sopra trarrebbe beneficio, ritengo, da una simile studio comparativo. Ma la mia argomentazione principale è solo questa: che in tutti i personaggi eroici dell’opera narrativa di Tolkien si può ritrovare almeno una traccia di questa tensione tra due differenti stile eroici (arcaico/pagano e moderno/cristiano), o forse si potrebbe dire tra una disapprovazione di principio e una riluttante ammirazione delle qualità positive del primo, su cui l’attenzione di Tolkien era così saldamente focalizzata in conseguenza della sua professione. Il “decentramento” e l’ammirevole autocontrollo degli Alboino e dei Beorhtwold dei racconti era inseparabile dalla crudeltà degli Egil e dei Gunnar? Era possibile rappresentare l’umorismo senza cuori esposti su di un piatto? Si poteva avere il raffinato punto d’onore senza l’usanza della caccia alle teste? Rispondere “sì, certo” a queste domande va contro l’evidenza della letteratura che Tolkien conosceva così approfonditamente. Ma rispondere “no, l’una è parte necessaria dell’altra” equivale ad una sconfitta per la civiltà. L’opera narrativa di Tolkien oscilla tra questi dubbi: e da quella oscillazione, io penso, acquista una forza ed una vitalità che sono una delle cose che più mancano al suo esercito di imitatori, i quali (posso affermare in base alle mie letture) hanno una visione del mondo eroico e della mentalità eroica molto più piatta e assai meno autentica.

Un secondo punto che vorrei affermare è questo: che sebbene ci sia molto da guadagnare nel guardare ai personaggi principali di Tolkien dal punto di vista sopra richiamato, un espediente che Tolkien usava spesso era quello di proiettare le tensioni che ho descritto, nelle loro forma più estrema, su personaggi minori e persino nelle Appendici – come se si deliziasse a creare scene analoghe a quello che ho adesso discusse, ma non volesse che andassero a disturbare il motivo trainante della sua storia. Un carattere molto simile ad Egil nel Signore degli Anelli, ad esempio, è Helm Mandimartello, dall’Appendice A, II, “La Casa di Eorl”. Helm è assai chiaramente un “decentratore”. Il punto focale della prima storia, che parla della sua disputa con Freca, è che Helm rifiuta di offendersi per le accuse insultanti di Freca riguardo alla sua età decrepita, finché è seduto nel Consiglio, finché riveste il suo ruolo di re. Ma una volta che il Consiglio si è concluso, egli spinge di forza Freca fuori dalla sala (e perciò fuori dall’area della “pace del re”, un elemento importante nella legge Anglo-Sassone), per ucciderlo non da re a suddito, ma da uomo a uomo. In un certo senso ciò che fa è l’opposto del gesto magnanimo del re dei Gepidi Turisindo, che volle continuare ad agire da re, non da padre: ma Helm, nel suo distorcere il proverbio citatogli da Freca (un tratto altamente caratteristico), mostra anche il crudele gusto per il gioco di parole che abbiamo già visto in Alboino, quando offre il teschio a sua moglie Rosmunda (vedi Il Signore degli Anelli, Milano, Bompiani, 2003; pg. 1150). Mentre riguardo alla seconda storia su Helm, che narra del suo dolore e della sua vendetta per il proprio figlio, basti dire che egli si trasforma in una sorta di mostro – egli è “come un troll delle nevi” – proprio come gli antenati di Egil (ivi, pg. 1151). Helm infatti, a questo punto, assomiglia meno a Beowulf di quanto somigli a Grendel: di entrambi si pensa che le armi non possano ferirli e nessuno dei due usa armi, preferendo uccidere la gente a mani nude (sebbene questo sia vero anche di Beowulf ed il fatto che Helm sia un cannibale come Grendel è solo presunto, non provato). Nulladimeno, questa sinistra e spietata vena di antico eroismo nordico è molto più chiara in Helm Mandimartello che in qualsiasi personaggio maggiore del Signore degli Anelli. A Tolkien piaceva, ritengo, sul piano del gusto letterario, ma non poteva tollerarla. Egli rappresenta Helm come uno “spettro”, ma permette al simbelmynë di crescere sulla sua tomba.

Ancora, esaminiamo Dáin Piediferro, che appare (anche se solo indirettamente) nel Signore degli Anelli stesso, nel capitolo “Il Consiglio di Elrond” e nell’Appendice A, III, “Il popolo di Durin”. Al consiglio, Dáin è posto in risalto dal modo in cui parla (è Glóin a riportarne le parole, ma le rende comunque sotto forma di discorso diretto). Il messaggero di Sauron gli chiede di trovare e recuperare l’Anello che si sa essere stato preso da un Hobbit e Dáin replica: “La mia risposta non è un sì né un no. Devo riflettere sul tuo messaggio e su ciò che implica dietro le belle apparenze”. “Rifletti bene, ma non troppo a lungo,” dice il messaggero. “Il tempo del mio pensiero è mio, e sono libero di impiegarne quanto voglio”, risponde Dáin. “Per ora,” dice il messaggero, cavalcando via nell’oscurità (SDA, ediz. cit.; pg. 278). Ciò che avviene in questo dialogo è chiaramente un processo di graduale e progressivo inasprimento: il messaggero si avvicina sempre di più alla minaccia pura e semplice – cosa che avrebbe probabilmente provocato una completa rottura – mentre Dáin ostinatamente mostra diffidenza e indipendenza, senza giungere ad una sfida aperta, che a sua volta avrebbe probabilmente provocato un attacco diretto. Posso solo dire, primo, che questo è un tipo di espressione arcaico, derivato soprattutto dal Norreno (sebbene gli eroi Anglo-Sassoni valorizzino una simile tortuosità), e, secondo, che le qualità che mette positivamente in risalto sono qualità che nel mondo moderno veniamo invece abituati a non valorizzare: mancanza di franchezza, profonda insincerità, un atteggiamento mentale che ritiene la non cooperazione facile e naturale. Il lato positivo di questo atteggiamento, naturalmente, è il rifiuto di cedere alle minacce o alla forza. Dáin dimostra il primo di questi aspetti – dice Glóin – col suo successivo rifiutarsi di venire a patti con il messaggero, e il secondo con la sua morte, raccontata da Gandalf nell’Appendice A. Gandalf rifiuta di definire quella morte una perdita: essa fu riscattata, dice, dal modo in cui il vecchio Dáin continuò a maneggiare l’ascia finché fu ucciso “ergendosi dinanzi al corpo di Re Brand sino al calare delle tenebre” (SDA, ediz. cit.; pg. 1166). Cosa sono queste tenebre? La notte? O la morte? O forse, considerando le circostanze, la morte e la sconfitta senza, per quanto ne poteva sapere Dáin, nessuna prospettiva di vittoria finale – tutte considerazioni che non influenzarono minimamente Dáin, così come non influenzarono Beorhtwold alla battaglia di Maldon. Il vero spirito eroico, Tolkien lo sapeva, era fondato sulla “fede nella volontà inflessibile” (J.R.R. TOLKIEN; “Beowulf: i mostri e i critici”, in IDEM, Il medioevo e il fantastico; Milano Bompiani, 2004; pg. 49) e su una fondamentale mancanza di speranza,7 e non poteva essere fatto proprio, almeno in teoria, da un cristiano, al quale non era permesso perdere la speranza. Subito dopo il racconto appena citato, Gandalf prosegue facendo delle osservazioni fortemente suggestive di una sua fede nei Valar, ma questa suo atteggiamento più ottimistico rende ancora più netto il contrasto con la morte di Dáin. Si potrebbe dire che Dáin, come Beorhtwold e come Théoden, è un immagine potente dello spirito non indebolito dalla vecchiaia, di un uomo (o nano) vecchio, ma impavido.8 Ma Dáin va un poco oltre rispetto a Théoden, più oltre persino di Húrin, ma non tanto quanto Beorhtwold (le cui parole, ricordiamoci, Tolkien non approvava), lungo la strada che porta dalla resistenza al suicidio disperato. Se fosse stato nella storia principale, ciò avrebbe potuto risultare più difficile da gestire.

Il mio terzo e ultimo caso di sensazioni arcaiche relegate in un appendice è la morte di Aragorn e di Arwen Undómiel, alla fine dell’Appendice A, I (5) (SDA, ediz. cit.; pg. 1139-1147). Aragorn, bisogna dire, muore in modo assai simile ad un santo cristiano: prevede la propria morte, può persino scegliere il momento della dipartita, muore serenamente, parlando e dando consolazione agli altri, confidando in una sorta di resurrezione (“ Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi”. Pg. 1146). Ma tutta la consolazione e l’insegnamento che offre ad Arwen appare senza valore. Ella muore, bisogna dire, in modo assai più simile ad una pagana antica: cercando di persuadere Aragorn a vivere ancora, dicendo che alla fine capisce l’errore dei Numenóreani (con i loro sacrifici per assicurasi una lunga vita e le loro imbalsamazioni), parlando in maniera commovente dell’amarezza della morte, rifiutando la consolazione e alla fine morendo sola. E tuttavia non vi sono indizi di critica verso di lei, solo pena e simpatia. Essa rappresenta un atteggiamento che Tolkien (e Aragorn) ritenevano fosse del tutto errato, ma anche del tutto naturale. Nella sua speciale posizione, in quanto immortale che ha rinunciato all’immortalità, ella percepisce la natura della morte più di qualsiasi altro nel Signore degli Anelli – ma solo tanto quanto la percepivano i mortali del mondo reale nella storia Anglo-Sassone, prima ancora che venisse offerta loro la speranza di una vita oltre la tomba.

Non posso fare a meno di ritenere – sebbene questo sia una pura speculazione – che quando Tolkien pensava al paganesimo degli antichi Germani egli non pensasse alle nozioni vagamente incantate che abbiamo oggi di Valhalla e funerali guerrieri e navi incendiate con dentro cadaveri di capi, ma a cose come la tomba trovata non molto lontano da qui dove scrivo e dove una volta lavoravo, nello Yorkshire. In questa gli archeologi hanno rinvenuto un’anziana donna, del primo periodo della colonizzazione dell’Inghilterra, distesa dignitosamente con le braccia incrociate e i gioielli indosso. Ma su di lei c’è lo scheletro di una giovane donna, ancora chiaramente nella posizione di chi cerca di spingersi fuori dalla tomba nella quale è stata gettata, puntando i gomiti. La ragione per cui non vi riuscì è che aveva la schiena spezzata. E la ragione per cui aveva la schiena spezzata è che una macina da mulino le era stata gettata addosso. Era ancora viva quando la fossa fu riempita.9

Ecco, avrebbe detto Tolkien, dove finiremmo, se non fosse per la Grazia di Dio (e l’avrebbe inteso in senso letterale). Questo è com’era veramente il paganesimo degli antichi Germani. Questo è quello che i suoi e i miei antenati erano abituati a fare. Non c’è proprio nulla di ammirevole in tutto questo.10 Tuttavia coesisteva con quella cultura fiera, crudele, umoristica, intrepida che sia lui che io abbiamo studiato e rispettato per tutta la vita. Il problema di Tolkien riguardo alla letteratura eroica dell’antichità era, direi, da un lato una grande attrazione professionale, dall’altro un’estrema avversione ideologica. Quel era la soluzione? Semplicemente, provare e riprovare a riconciliare questi due aspetti. Una definizione del mito è che esso è un tentativo di una particolare cultura di riconciliare o di mediare fra gli inconciliabili. In questo caso, Tolkien stava elaborando un mito del ventesimo secolo, sotto più punti di vista di quelli di cui poteva essere consapevole o di quelli che sono stati percepiti di primo acchito. Egli si domandava, narrativamente, se in un’era post-cristiana poteva darsi un mondo nobile che non fosse cristiano; se poteva darsi un senso dell’etica sviluppato senza il sostegno della rivelazione della fede, se le virtù dei nobili pagani potessero essere separate dai lori vizi. Queste domande mi sembrano aver acquistato sempre maggiore rilevanza, con il passare del tempo, ed essere diventate sempre più urgenti, via via che l’Europa Occidentale almeno entra in un’era post-cristiana. In Tolkien, tuttavia, queste domande sono espresse soprattutto attraverso stili eroici contrastanti.



[ con l'autorizzazione di Tom Shippey, Simone Bonechi ha tradotto in italiano il saggio Heroes and Heroism: Tolkien’s Problems, Tolkien’ Solutions , tratto dal libro Roots and Branches. Selected Papers on Tolkien, Zollikofen, Walking Tree Publishers, 2007; pp. 267-283]

1 Questa relazione fu pubblicata per la prima volta in “Lembas Extra” (1991): p. 5-17. Sono grato ai curatori e alla Società Tolkieniana Olandese Unquendor per l’iniziale invito ad esporla e per il permesso di ristamparla.

2 Sebbene, come segnalo nel mio articolo Tolkien’s Academic Reputation Now in questo volume, gran parte del pensiero di Tolkien sull’argomento può essere stato riassorbito nella pubblicazione della sua studentessa, Simone D’Ardenne (vedi D’Ardenne (curatrice), þe Liflade ant the Passiun of Seinte Iuliene, Early English Text Society Original Series 248. London. Oxford University Press, 1961).

3 Traduzione mia (N.d.t.).

4 J.R.R. TOLKIEN, Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm; a cura di Wu Ming 4; Milano, Bompiani, 2010; pg. 54. Ho leggermente modificato l’ultimo verso, per renderlo (a mio parere) più fedele all’originale. (N.d.t.)

5 Ora sappiamo che una versione del Ritorno di Beorhtnoth esisteva effettivamente anni prima che Tolkien iniziasse a scrivere Il Signore degli Anelli, vedi Wayne G. Hammond and Douglas A. Anderson; J.R.R. Tolkien: A Descriptive Bibliography, Winchester, St Paul’s Bibliographies; New Castle, DL, Oak Knoll Books, 1993; pg. 303 e J.R.R. Tolkien, The Treason of Isengard. The History of the Lord of the Rings, part two; edited by Christopher Tolkien, “The History of Middle-earth VII; London, HarperCollins, 1989; pp. 106-107.

6 Nella prima edizione Aragorn perde la pazienza con Gimli e gli risponde aspramente per aver messo in dubbio la saggezza della sua decisione di guardare nella Pietra di Orthanc. Nelle edizioni successive questa parte venne cassata (la scena, nella sua forma abbreviata, è a pagina 763 dell’edizione 2005 che ho usato come riferimento per questo volume). Non viene spesso notato, tuttavia, come Gimli sia stato costantemente critico delle decisioni di Aragorn sin dall’inizio de Le Due Torri: sembra quasi che Tolkien stesse facendo montare la tensione per giungere ad uno scontro di personalità.

7 Questo punto, sorprendentemente, spesso non viene colto. I rilievi assai poco perspicaci di Muir di tanto tempo fa (vedi Edwin Muir “A Boy’s Wold”; recensione a Il Ritorno del Re, in Observer (27 novembre 1955), pg. 11), nei quali accusava Tolkien di aver scritto un blando lieto fine per Il Signore degli Anelli, furono ripetuti – si potrebbe anche aggiungere “a pappagallo” – dal professor Jasper Griffin dell’Università di Oxford, nella New York Review of Books (Griffin 2006). Ho replicato loro nella stessa rivista (“The Wrong Sow”, The New York Review of Books, 53.9 (25 Maggio 2006)), concludendo con le parole che si dice vennero rivolte alla regina Elisabetta I da un leale contadino inglese, a proposito delle sue vicende con Filippo II di Spagna e l’Invincibile Armada: “Ha preso per le orecchie la scrofa sbagliata, quella volta!”.

8 Tali figure sono caratteristiche della tradizione letteraria in Antico Inglese e Antico Norreno, che sembra ricavare un particolare piacere dall’idea di un cuore che si indurisce via via che l’età e la debolezza del corpo aumentano. Accanto alle figure già menzionate, si può pensare all’eroe della Viga-Glúms saga, al leggendario Starkath, al eald æscwiga di Beowulf. Ma queste figure esemplificano un ideale aspro e crudele, la cui principale qualità – in opposizione totale all’ideale cristiano – è il desiderio di vendetta e il rifiuto di perdonare o finanche di negoziare.

9 Vedi Lloyd e Jennifer LAING, Anglo-Saxon England; London, Routledge, 1979; pp. 81-82 e anche S.M. HIRST; “An Anglo-Saxon Inhumation Cemetery at Sewerby, East Yorkshire”, in University Archaeological Reports; 4; (1985).

10 C’è un senso dell’orrore da cui il cristianesimo liberò il Settentrione pagano nella poesia di Tolkien su “King Sheave” in The Lost Road, pp. 87-91 e in special modo la pag. 89. Vedi anche la citazione della lezione di suo padre sul Beowulf fatta da Christopher Tolkien alle pagine 95-96. È vero che in quella poesia e nella narrazione ad essa collegata, la figura di Sheaf o Sheave reca soccorso (se non salvezza): cosa Tolkien pensasse dell’intrico di leggende associate con questo personaggio non è facile da comprendere. Il problema merita ulteriore studio.