The Broken Scythe.
Death and Immortality in the Works of J.R.R. Tolkien, Roberto Arduini and Claudio A. Testi (editors), Zurigo e Jena. Walking Tree Publishers, 2012. xxviii + 252 pp.


di Tom Shippey



Vorrei esordire affermando che la mia copia de La Falce Spezzata ha più annotazioni e richiami sul margine delle pagine di ogni altra opera di critica tolkieniana che io abbia mai letto: ciò è un segno della sua originalità ed utilità. I nove saggi che contiene, oltre alla Prefazione di Veryn Flieger e all’Introduzione dei curatori, si concentrano, in una maniera diversa dalla grande maggioranza degli studi su Tolkien, non sulle sue opere narrative maggiori, ma sul suo pensiero filosofico e teologico – sebbene ciò naturalmente aiuti a inquadrare proprio le sue opere narrative maggiori. Lo sviluppo, in particolare, dei suoi pensieri sulla morte, sulla natura degli Elfi e degli Uomini, è chiarito in un modo che non abbiamo mai visto prima. Posso solo congratularmi con i curatori e con il loro insieme di collaboratori per una tale silloge, allo stesso tempo ben focalizzata e ricca di diverse prospettive.

Ciò premesso, questo recensore deve confessare – e la confessione sarà confermata dal curatore di Endorë – che le sue personali conoscenze di filosofia sono raramente preziose, e quelle sulla teologia spesso poco corrette. Quel che gli si è presentato ripetutamente alla mente mentre leggeva questa silloge erano, comunque, due componimenti poetici, entrambi certo noti anche a Tolkien.

Uno proviene dalla Scena 1 dell’Atto III di Measure for Measure di Shakespeare, dov’è presente un dialogo tra Claudio e sua sorella Isabella. Claudio è stato condannato a morte da Angelo, per fornicazione. Ma Angelo lo risparmierà se Isabella acconsentirà a dormire con lui (così Angelo commetterà il crimine per il quale ha condannato Claudio). Claudio tenta di persuadere Isabella a collaborare, ma lei rifiuta.



Claudio: La morte è una cosa spaventosa.

Isabella: E una vita disonorata una cosa odiosa.

Claudio: Ah, ma morire, e andare in un luogo che non conosciamo

Giacere in un freddo blocco di pietra e marcire…



I due versi di Claudio qui riportati sembrano in contraddizione. Il secondo esprime il terrore di Claudio della tomba e dell’orribile, familiare ed ineluttabile processo della decomposizione. Ma se egli sa che la tomba è dove deve andare, allora non è vero che egli andrà “in un luogo che non conosciamo”.

Tuttavia, questo duplice timore, del destino noto del corpo e della sorte ignota dello spirito, è qualcosa che noi tutti riconosciamo, I Numenoreani certo lo provavano. In parole simili a quelle di Claudio, e citate da Alberto Lavadas nel suo studio Il sentiero sbagliato del Sub-creatore: dalla caduta alla Macchina e la Fuga dalla Mortalità, essi dicono tra di loro: “Perché i Signori dell’Ovest devono sedere lì in perpetua pace, mentre noi dobbiamo morire ed andare dove non sappiamo?” (Silmarillion, pagina 264). I Numenoreani provano anche faticosamente a prolungare almeno un simulacro di vita, così negando la seconda paura di Claudio, sebbene tutto ciò che essi ottengono sia “l’arte di preservare incorrotta la morta carne degli Uomini”.

L’altra poesia di cui sempre mi ricordo, invece, esprime non timore ma rammarico, rammarico di dover lasciare la Terra di Mezzo di per sé, e questo è un sentimento ancor più presente in Tolkien e nei suoi personaggi. Una manifestazione molto celebre di esso si ha in una delle più celebri poesie della giovinezza di Tolkien (poi resa inattuale dall’emergere del modernismo), di A. E. Housman nella sua raccolta del 1896 Un ragazzo dello Shropshire. Lo Shropshire era una delle contee preferite di Tolkien; Housman era anch’egli (come Franco mi ha ricordato) un grande filologo, classico piuttosto che comparativo; la sua poesia suona molto come la poesia Hobbit della Contea.



Il più amato tra gli alberi, ora il ciliegio

È ornato di fiori sul ramo,

E si erge sul sentiero del bosco,

Vestendosi di bianco per il periodo pasquale.



Ora dei miei sessant’anni e dieci,

Venti non torneranno indietro,

E prendere da settanta primavere una ventina

Solo me ne lascia cinquanta ancora.



E poiché per guardare cose in fiore

Cinquanta primavere son breve spazio,

Andrò sul sentiero del bosco

A vedere il ciliegio coperto di neve.



L’emozione di Housman, possiamo dire, è molto simile a quella dell’Elfo Haldir, quando egli guida i superstiti della Compagnia dell’Anello in Lothlorien. Egli ha la possibilità di lasciare la Terra di Mezzo per recarsi in Valimar, ma è riluttante all’idea di sceglierla: “Sarebbe una povera vita in una terra dove non fiorisce il mallorn. Ma se vi siano alberi di mallorn oltre il Grande Mare, nessuno l’ha riferito.” Persino l’immortalità ardentemente desiderata dai Numenoreani non sarebbe completamente auspicabile senza gli alberi della Terra di Mezzo.

Questo “appassionato amore del mondo primario reale”, per usare la frase riepilogativa di Alberto Ladavas, è un’altra valida motivazione non per temere, ma per provar dispiacere del destino di morte. In un articolo citato da Andrea Monda (a pagina 162), La nostalgia di Leogolas di Fr. Guglielmo Spirito, l’autore mette in evidenza la “languida melancolia” che è l’opposto dell’”amore appassionato” come una tentazione che gli Hobbit, più che gli Elfi, son meglio adatti a superare.

Ma allora perché la morte ci è stata inflitta? I pensieri di Tolkien su questo tema sono complessi, erano soggetti a mutamento, e mentre era ben al corrente della teologia cattolica ortodossa, egli non temeva di spingere la riflessione al di là dei suoi confini (talvolta con errori). Gli aspetti che sono analizzati spesso dai coautori di questo volume sono, comunque, questi.

Primo, secondo l’opinione di Tolkien (che noi non dobbiamo considerare vincolante, sebbene sia di un autore) il tema de Il Signore degli Anelli, e delle sua altre opere d’invenzione, era Morte ed Immortalità. Egli lo ribadisce nelle sue Lettere, utilmente elencate da Andrea Mondo, per esempio le numero 186, 203, 208, 211: “Io non penso che persino il Potere o il Dominio siano il centro reale della mia storia… Il tema reale per me è su qualcosa di più permanente e difficile: Morte ed Immortalità” (Lettere, pagina 246). Si può ben vedere perché i lettori abbiano pensato differentemente. L’Anello stesso sembra un’immagine di Potere, osserva sempre Alberto Lavadas, nota a pagina 122. Si potrebbe essere anche persuasi dal commento di Bill Senior (citato in questa silloge da Franco Manni a pagina 10) che la preoccupazione centrale di Tolkien è “un senso di perdita” (perdita della bellezza, perdita dei linguaggi, perdita delle poesie) di cui la morte (perdita della vita) è solo un aspetto. Le sicure e ripetute affermazioni di Tolkien, tuttavia, sono rivolte oltre Il Signore degli Anelli verso lo scenario narrativo e mitico in cui tale opera è collocata.

Un secondo punto è l’insistenza ancora una volta forte di Tolkien che si deve chiaramente evitare “il pericolo orrendo di confondere la vera ‘immortalità’ con una longevità ripetitiva e senza limiti”, si vedano le Lettere, numero 208 pagina 267. La distinzione è menzionata da Franco Manni, Roberto Arduini e Andrea Mondo. La seconda è quel che gli Elfi sembrano avere quello che i Numenoreani sperano di possedere e ciò che E. Housman forse avrebbe desiderato.

Ciò però conduce, nel caso degli Elfi, ad una melancolia diffusa, e a “svanire”, che, naturalmente, è anche ciò che accade a quanti usano l’Anello, e a quelli che divengono spettri dell’Anello.

A queste due si dovrebbero aggiungere altre questioni collegate. Cosa bisogna pensare della reincarnazione degli Elfi? Cosa significa chiamare la morte, come Tolkien fa, “il Dono degli Uomini”, dono che Arwen definisce “amaro da ricevere” e che gli altri chiamano “il Giudizio degli Uomini”? La morte è naturale per gli uomini, o è una punizione, nella Terra di Mezzo come nel nostro mondo, per qualche Peccato Originale? Possiamo facilmente osservare perché gli uomini invidino agli Elfi la loro longevità (Housman, si pensa, sarebbe stato allietato davvero notevolmente da un semplice raddoppiamento del periodo assegnato che gli rimaneva). Ma perché gli Elfi a loro volta dovrebbero invidiare gli umani?

Tali questioni sono difficile da risolvere, ed è impegnativo metterle in rapporto, per quanto correlate possano essere. Un passo avanti maggiore nell’iniziare ad affrontarle è offerto dal primo e più lungo saggio di Claudio Testi in questo volume, su Tolkien’s Legendarium as a meditatio mortis. Questi mette in rilievo, in maniera ferma e chiara, che il Legendarium nel suo compelsso ha “almeno sei temi di grande rilievo riguardo alla morte e riguardo alla sua negazione”, tre relativi agli Elfi (disagio, svanire, reincarnazione) e tre riferiti agli uomini (destino finale, invidia e natura). Per trovare loro senso si deve inoltre comprendere che essi sono in rapporto con cinque fasi principali di Tolkien, dal 1917 fino al 1973: con, come punto culminante, gli anni dopo la pubblicazione de Il Signore degli Anelli (1957-1960), periodo che, tra gli altri, ha generato “il capolavoro letterario/filosofico Ahrabeth Finrod ah Andreth, con il commento di Tolkien su esso”, e il tardo Conversazione tra Manwë ed Eru.

Le conclusioni di Claudio (a pagina 68) sono che Tolkien è divenuto progressivamente meno certo da I Racconti Perduti in poi, che la sua percezione della morte e della separazione di fëa e hröa son divenute più negative; e che il bisogno di una “cieca fede” può essere identificato come il motivo dell’invidia degli Uomini per gli Elfi. Che queste conclusioni siano accettate o no – ed è difficile confutarle –La trattazione esaustiva da parte di Claudio delle questioni e dei problemi ci dà un contesto tematico e cronologico che sarà sicuramente adottato dagli studiosi nella sua interezza.

Testi segue al saggio sopra esaminato con uno più breve su Logica e teologia nella Thanatologia (studio della morte ndt) di Tolkien, che anche si conclude con un chiaro schema che espone ordinatamente le vedute di Tolkien, e quelle della teologia cattolica su (a) la naturalità e (b) la conformità al disegno [divino], della morte degli Uomini e (solo nel caso di Tolkien) degli Elfi. Un punto importante è che Tolkien sembra aver cambiato idea, dopo il 1958, sulla naturalità della morte umana, credendo (erroneamente) che la teologia cattolica la considerasse non naturale.

Parlando qui da persona allevata dai Presbiteriani, questo recensore trova facile accettare che per noi la morte è naturale, come per le altre creature, ma diviene così come risultato di un disprezzo del piano divino da parte degli umani attraverso il Peccato Originale: anche se noi non capiamo più di Legolas o Gimli (e, naturalmente, di Tolkien) cosa fosse il piano divino e in quale modo esso sarebbe stato realizzato. Ma quella è la morte considerata come separazione di corpo e anima. È strano che Tolkien ponga la morte degli Elfi in deliberato contrasto con questa. Perché per gli Elfi (ma non per gli Uomini) la vera morte sarebbe la partenza da Arda: sebbene si possa aggiungere che questa separazione da Arda, è ciò che Housman temeva, non la separazione dal corpo. Gli Elfi presentano un elemento, un forte elemento, di umanità.

Gli altri saggi affrontano importanti punti correlati. Il principale, di Franco Manni, inizia affermando la padronanza e l’uso della Summa Theologiae dell’Aquinate, che entra in contrasto con una “latente attitudine polemica” verso i filosofi contemporanei, di cui l’Oxford di Tolkien era naturalmente piena. Franco procede prendendo in considerazione Tolkien e l’antropologia, e l’escatologia, e la filosofia della storia, in ogni caso collocando Tolkien in questo ora spesso trascurato contesto contemporaneo. Egli conclude con Tolkien in età avanzata, che si guarda indietro e diventa consapevole di una certa “Eulogia della finitudine”, non dimentico del potere e della virtù della filologia professionale o della narrativa personale, ma consapevole dei loro limiti. In un passo toccante Franco mette in rilievo il tema tolkieniano di successo dietro un apparente fallimento, e io citerei a supporto le parole del contemporaneo e compagno di classe di Tolkien (che, come Franco sa, spesso cito), Field-Marshal Slim. Slim scrive nella prefazione delle sue memorie, insolitamente umili per un generale di successo, ricordando che la vittoria a Burma scaturì dalla somma di molti sforzi di uomini e aggiunse (corsivo mio), “Noi tutti, persino quelli tra noi che possono aver dato l’impressione di venir meno, facemmo del nostro meglio”. Vedi inoltre il concetto di Andrea Mondo di “compiuto da una sola mano”, discusso sotto.

Il saggio di Roberto Arduini su Tolkien, morte e tempo: la storia fantastica nel suo contesto segue poi il primo dei due suoi scritti di curatore, discusso sopra. Egli concorda con Claudio che le vedute di Tolkien si sono sviluppate, e son diventate sia più incerte sia più negative. Fatto sorprendente è la citazione tolkieniana di Simone de Beauvoir nel film documentario del 1968 Tolkien in Oxford. Arduini annota e concorda con l’opinione di Renée Vink, in un saggio del 2008, che Ahrabeth di Tolkien potrebbe essere un commento critico sull’opera di de Beauvoir del 1946 Tous les hommes sont mortels. Le letture di Tolkien, dovremmo ricordare, erano spesso più eclettiche (e più multilingue) di quanto si sia compreso.

Arduini continua il suo saggio con discussioni su Le storie fantastiche, Foglia di Niggle e sulla poesia Mythopoeia, in cui la compiutezza artistica e immaginativa sono viste come modi possibili per mitigare la mortalità. Io vorrei mettere in rilievo qui un'altra reminiscenza poetica, forse casuale. Niggle, come nota Arduini, non sente “l’angoscia” che uno si sarebbe potuto aspettare quando il Conducente viene da lui e trova Niggle del tutto impreparato, il suo quadro non completo. No, anzi, perché, come l’Amleto di Shakespeare sottolinea “quel vile sergente morte / è rapido nel suo arresto”! (I sergenti di solito non erano militari dell’esercito, ma ufficiali di una corte).

Il saggio di Lorenzo Gammarelli Sul Limite del Reame Pericoloso prende in esame ulteriormente il senso di perdita che è così forte nelle ultime poesie e nelle ultime storie di Tolkien, mentre I Tumuli di Mundburg: Morte, Guerra e Memoria nella Terra di Mezzo di Simone Bonechi evidenzia in maniera potente e veritiera quanto la Gran Bretagna fosse satura, nell’epoca successiva al 1918, di memoriali di guerra e rituali ufficiali e non ufficiali.

Certo lo è ancora, con un’intensità forse non evidente in ogni altro Paese che combatté nell’altra Guerra mondiale. L’anno scorso, l’11 novembre, a questo recensore è accaduto di camminare per le strade di un piccolo paese del Dorchester mentre si avvicinavano le 11 del mattino e di notare, prima i bambini uscire di scuola per formare file nel campo di giochi; poi la cessazione del rumore del traffico; poi, nel silenzio, armi da fuoco sparare per un saluto militare alla morte. Tali usanze, come portare papaveri Flanders, sono ancora osservate, e persino di più, quando i corpi son riportati dall’Iraq e dall’Afghanistan. Tra gli uomini contemporanei di Tolkien erano universalmente osservati. Persino il traffico di Londra si fermava.

Il saggio già menzionato di Andrea Monda fa alcune osservazioni inattese su Denethor (“il più pagano e il più elfico personaggio mai creato da Tolkien”), su Bombadil (sicuramente lui non sarà mai separato da Arda), e sulla necessità di abbandonare “la visione ciclica del tempo”, “la circolarità del mondo”. Egli conclude discutendo la necessità di “fare da soli”, il senso che non si è ancora completi o realizzati e così non ci si può immergere nella semplice memoria o nella semplice longevità ripetitiva, ma bisogna andare oltre, verso un (ignoto) destino. Giampaulo Canzonieri torna sul tema dell’“invidia malriposta” tra Elfi e Uomini riguardo alla morte. Perché, dicono gli uomini, dovremmo noi soli fondarci su “cieca fede” mentre gli Elfi conoscono la loro sorte? Persino Arwen trova impossibile accettare il fato che suo marito Aragorn affronta nella morte. Non c’è una risposta facile per il dubbio dei Numenoreani.

Quanto detto sopra dà solo delle impressioni o “inkling” dei contenuti de La Falce Spezzata. Leggetelo per esteso, offre una guida e un consiglio per questioni esistenziali universali; e suggerisce fortemente che queste sono tuttavia altre ragioni nascoste per il sorprendente e continuo fascino delle opere di Tolkien. Come il suo amico Lewis, Tolkien colmò un bisogno che non era affrontato dai tradizionali portavoce della cultura letteraria e filosofica, o non affrontato in un modo prontamente comunicabile. Sia l’esigenza sia la risposta ad essa – come mostrato in questa silloge – sono ancora con noi.







[traduzione di Vincenzo Gatti]