Figure femminili ne Il Silmarillion

Spunti di riflessione



di Vincenzo Gatti



Non è ardito affermare che figure femminili, di Maia, di elfi e di uomini, ricoprano, ne Il Silmarillion, un ruolo cruciale, sebbene esse, come è tipico delle narrazioni epiche, non siano molto numerose. Basti pensare che nell’episodio della fuga dei Noldor sono menzionati più di venti principi e solo tre principesse, cioè Aredhel sorella di Turgon, Elenwë sua moglie e Galadriel sorella di Finrod (S 106)1.

Se si prende in considerazione Melian la Maia, si può ipotizzare che Tolkien disponga i personaggi femminili più rilevanti in una sorta di crescendo, fondato sull’amore che passa dai connotati dell’incantesimo a quelli della missione a causa di quel progressivo senso di perdita (della bellezza, ma anche della felicità, man mano che il mondo invecchia e il male si fa più pervasivo) che caratterizza l’opera di Tolkien2: con le vittorie sempre più frequenti e numerose di Melkor, la Prima era diventa un’epoca che ha bisogno di eroi. Alcune tra le figure femminili fondamentali sono legate inoltre alla Sorte di Mandos, cioè alla profezia della rovina degli Elfi Noldor passati nella Terra di Mezzo, e alla loro salvezza finale.

Melian incarna l’amore come totale rapimento e dono di sé che provoca elevazione ed estasi dell’anima: è una Maia di Lórien, seguace di Irmo, Vala dei sogni (S 30). Eccelle in bellezza, saggezza e nelle arti magiche. Thingol, attirato dal suo canto, la contempla, la prende per mano e ciò basta perché scenda su di lui una malia che lo lascia immobile per lunghi anni (S 62 e 63). Apparentata con Yavanna, che protegge la vegetazione e gli animali, Melian è accompagnata da usignoli: il suo canto ha effetti simili a quello del greco Orfeo: distrae persino i Vala dalle loro opere, i viventi dai loro spassi, ferma campane e fonti. Costituisce l’unica figura angelica del Silmarillion a congiungersi con un figlio, sia pur Primogenito (cioè Elfo), di Ilúvatar, con un essere in carne e ossa, in definitiva, non puro spirito. Eppure questi costituisce la di lei ragion d’essere nella Terra di Mezzo: alla morte dell’amato Thingol, abbandonate le spoglie terrene, la nobile creatura ritorna a Valinor (S 294): “passò nella contrada dei Valar, di là dal mare occidentale, a covare il proprio dolore nei giardini di Lórien donde era venuta, e nel presente racconto di lei più non si parla”.

Un aspetto che balza subito all’occhio, nello svolgersi della vicenda del Quenta Silmarillion, è che un elfo non sposa mai una donna mortale, mentre principesse elfiche come Lúthien, figlia di Melian e Thingol, ed Idril, figlia di Turgon, sposano rispettivamente Beren e Tuor, due uomini. Anche Finduilas, figlia di Orodreth (fratello di Finrod) ama il mortale Túrin, ma purtroppo (soprattutto per lui che tanto avrebbe bisogno dei suoi saggi consigli) non è corrisposta.

Lúthien, la più bella dei figli di Ilúvatar, rappresenta l’amore come sacrificio: se è vero che gli eroi maschi de Il Silmarillion sono innegabilmente prodi e valorosi, da Fëanor e Fingolfin fino ad Eärendil, è però una fragile fanciulla elfica ad aver ragione, per quanto temporaneamente, prima di Sauron (S 217) e poi di Melkor stesso (S 224), riuscendo a farlo assopire: sembra che la giovane moltiplichi il potere della madre Melian: “intonò un canto di così sopraffacente bellezza e di tanto accecante potere, che Morgoth non poté non ascoltarlo; e la cecità calò su di lui, e i suoi occhi vagavano di qua e di là, alla ricerca di Lúthien” (S 224).

Ella è figlia di una Maia, Melian, e di un elfo, Thingol: affratella le due specie. Non agisce per ambizione o sete di potere o per cupidigia, ma per amore: valore fondamentale nell’opera tolkeniana che lo scrittore proprio con lei vuole mettere in supremo risalto.

Per amore Lúthien affronta mille sacrifici, onde consentire a Beren di vincere la scommessa con Thingol di cui ella stessa è posta in palio. Come Melian si cala al livello di un elfo, così sua figlia si cala al livello di un uomo, giungendo a rinunciare persino all’immortalità che le è propria, pur di richiamare in vita il suo sposo, in quello che è un toccante ribaltamento del mito di Orfeo ed Euridice (S 232).

Bisogna infine sottolineare che Lúthien, a prescindere da Gandalf, è tra i pochi personaggi in carne e ossa de Il Silmarillion a sottoporsi ai più grandi pericoli per amore, con un dinamismo sconosciuto a sua madre: soltanto Finrod le si può paragonare, perché anch’egli si sacrifica per salvare Beren, spinto da riconoscenza ed amicizia.

È noto, invece, che Fëanor è spinto da desiderio di vendetta, il suo fratellastro Fingolfin si sacrifica duellando con Melkor per rabbia e per risparmiare sofferenze alla Terra di Mezzo, Thingol perisce per orgoglio e per superbia, ucciso dai nani che hanno incastonato nella loro celebre Collana, già appartenuta a Finrod e poi recuperata da Húrin, il Silmaril.

Le unioni tra principesse elfiche e uomini portano al compimento delle imprese più grandi: Lúthien aiuta Beren a recuperare un Silmaril, mentre Celebridal collabora con Tuor nello scavare una via di fuga sicura dalla città elfica di Gondolin (S 303-304) e nel portare in salvo i sopravvissuti di quel luogo apparentemente inaccessibile. Elwing (che ha però sangue elfico e di Maia nelle vene, essendo nipote di Lútien e Beren) sempre mossa da amore, con il Silmaril al collo, vola, mutata in gabbiano, da Eärendil e così consente allo sposo di raggiungere il Reame Beato e di impetrare il perdono dei Vala per elfi e uomini. Questa è l’estrema missione della nipote di Lútien: collaborare nel raggiungere Valinor e permettere il ritorno degli elfi che lo vogliano a Tol Eressea, secoli dopo la loro fuga, precipitosa e sanguinosa a causa della strage degli innocenti Teleri (S 102).

Esiste comunque una differenza fondamentale tra Melian e Lúthien da una parte, Elwing dall’altra. Le prime due, infatti, accettano una rinuncia più penosa: Melian abbandona la beatitudine di Valinor per rinchiudersi nei limiti della carne e della Terra di Mezzo e per poi soffrire perpetuamente alla morte di suo marito, Elfo sì, ma mortale (S 294), Lúthien esce dalla quiete del Doriath e rinuncia all’immortalità e così almeno le è risparmiato il dolore senza fine derivante dalla perdita dell’amato (la sorte di sua madre). Elwing fugge da una situazione di dolore, l’attacco dei figli supersiti di Fëanor al suo popolo, per giungere alla felicità della condizione elfica a Valinor (S 314).

Eärendil ed Elwing, discendenti l’uno dei Noldor e di Tuor, l’altra dei Teleri e dei Maia e di Beren, avrebbero potuto costruire una nuova Gondolin, proprio come Eleno ed Andromaca, nell’Eneide, costruiscono una nuova Troia. Ma sarebbe stata una Gondolin sbagliata: la missione provvidenziale spinge a ovest, tanto nell’Eneide quanto nel Silmarillion: “antiquam exquirite matrem”, si potrebbe commentare, con le parole di Virgilio. È destino che i Noldor e i discendenti di Beren non abbiano requie nella Terra di Mezzo e, strumenti inconsapevoli e beffati di questo fato, che poi coincide con la Sorte di Mandos, sono i figli di Fëanor. Già Eärendil navigava verso ovest, peregrinava come Ulisse, e forse avrebbe vagato inutilmente per anni, quando giunge Elwing con il Simaril. È il santo gioiello che segna la via retta per l’ovest: raggiungerlo ha anche il significato di una restituzione.

Tutto coincide a questo punto: Melian, come si è visto, era imparentata con Yavanna, che fece anche nascere gli alberi sacri dalla luce dei quali Fëanor aveva ricavato i Silmaril. Il superbo secondo re dei Noldor si rifiuta di cedere l’opera delle sue mani, il “forte marinaio celebrato nei canti” porta a termine la missione della sua stirpe. Perché? Perché non si chiude orgogliosamente nell’orgoglio di casta o nell’amore dei beni di un’epoca smarrita: oltre che per la superbia e la violenza i figli di Fëanor falliscono anche per il loro atteggiamento di disprezzo verso l’altro.

Si propone un semplice esempio: quando Angrod, figlio di Finarfin e parente di Thingol (zio della di lui madre), riferisce il volere del re del Doriath in merito alle terre ove i Noldor potranno avere rifugio, Caranthir, “che non amava i figli di Finarfin” (S 135) commenta: “Un momento! Non possiamo permettere che i figli di Finarfin vadano e vengano a cianciare con codesto Elfo Scuro nelle sue grotte! […] Non dimentichino che il loro padre è un signore dei Noldor, ancorché la loro madre sia di altra schiatta” (S 135). Nel suo discorso sbaglia più volte: l’Elfo Scuro, come sprezzantemente lo chiama, è Thingol, che non può essere certo considerato tale, dato che ha visto la luce di Valinor (S 58), dalla differenza delle schiatte nasce il bene, mentre, con un atteggiamento di chiusura, si preclude ogni possibilità di collaborazione.

Non che Thingol sia più illuminato e aperto: fa pesare tutto il suo disprezzo sull’uomo Beren, cui invece gli Elfi devono immensa gratitudine. Persino Finrod, persino Turgon, in fondo sbagliano: creano i loro reami nascosti e isolati, cercano di serbare la memoria di un passato irripetibile, vogliono portare Valinor nella Terra di Mezzo, fuggiti dal Paradiso cercano di ricrearlo nel Reame di Melkor, ma la loro è una pallida imitazione come la Troia di Andromaca dell’Epiro.

Certo, Elwing diventa strumento della provvidenza quando e soltanto quando compie un gesto disperato: si getta in mare per sfuggire alla ferocia dei figli di Fëanor. Ma c’è appunto una forza più grande all’opera quando ella è trasformata in gabbiano e quando Eärendil sulla sua nave raccoglie e abbraccia proprio quell’uccello (S 311). Bisogna avere il coraggio di mutare e, tra gli esempi più eclatanti di mutamento vi è la morte, il dono di Ilúvatar ai Secondogeniti: ecco perché, sia pur con dolore, Lúthien sceglie questa sorte: almeno eviterà di rimpiangere l’amatissimo Beren per l’eternità. Di Morwen, una donna, Tolkien narra la morte in maniera struggente.

Se prendiamo in considerazione Haleth della stirpe degli Haladin o Emeldir cuore virile, vediamo che le mogli dei Secondogeniti hanno più lo spirito di condottieri che di madri (S 180 e S 191), sebbene la seconda sia la madre di Beren (S 191). Entrambe sembrano anticipare Eowin, eroina del Signore degli Anelli. La donna più grande e sventurata dell’opera è Morwen, moglie di Húrin, madre di Túrin. Marito e figlio sono i più possenti guerrieri degli uomini, eppure ciò non mette a riparo né loro né lei dalla sofferenza. Per l’infame disegno di Melkor, narrato nella storia di Túrin, il primo rende possibile la caduta del Doriath (S 290, facendo sì che la collana dei Nani risvegli la cupidigia dei Nani stessi che vi hanno incastonato il Silmaril) e di Gondolin (S 287, rivelandone involontariamente la posizione), l’altro abbatte sulla sua strada il Nargothrond, dando inizio ad una politica bellicosa che scatena le ire di Melkor e del suo drago Glaurung (S 267). Come scrive Tom Shippey3: “Orgoglio e paura si combinano nella madre e nel figlio per tenerli lontani”. Quando però Húrin rivede la sposa cupa e orgogliosa, ella gli dice solo che è in ritardo. Muore e il marito commenta: “No, non è stata vinta” (p. 288) e per giunta è libera dalle pastoie, anche le più splendide, della Terra di Mezzo. Invitta è Morwen come invincibile è suo marito, sebbene venga il dubbio che siano stati strumenti di Melkor. Melkor li ha usati per quella cacofonia non priva di coerenza della quale si narra nell’Ainulindalë, Ilúvatar, dio supremo, a sua volta ha incorporato lo strepitare del Vala malvagio nella melodia della sua creazione (S 13).





1 S: J. R. R. Tolkien, Il Silmarillion, Rusconi, 1978.

2 La falce spezzata: Morte ed immortalità nelle opere di J. R. R. Tolkien, curato da Roberto Arduini e Claudi A. Testi, Zurigo e Jena. Walking Tree Publishers, 2012. Xxviii + 252 pp.

3 Tom Shippey, La via per la Terra di Mezzo, Marietti, Milano, 2005 (Prima edizione italiana), p. 371.