Su due recensioni a “Santi Pagani”. Risposta a Franco Manni e Wu Ming 4


di Claudio A. Testi





Il mio libro Santi Pagani nella Terra di mezzo di Tolkien (ESD, Bologna, 2015) è stato accolto con grande interesse e, soprattutto, ha suscitato numerose discussioni sia nelle varie presentazioni pubbliche che sul web. In merito, vorrei qui porre l’attenzione su due recensioni particolarmente acute e autorevoli.


La prima è quella di Franco Manni (Endore n. 17), da sempre tra i massimi esperti italiani su Tolkien, il quale al di là dei graditissimi elogi al testo, osserva che:


«Ho però una critica filosofica da rivolgere a Testi. Per distinguersi da alcuni dei critici sostenitori della terza tesi, i quali affermano che il paganesimo in T. corrisponde a una fase cronologicamente anteriore all'avvento del cristianesimo, Testi scrive: “per me è invece centrale la idea che la mitologia tolkieniana /..../ esprime un 'piano naturale' quasi astorico”. E anche : “userò il termine 'pagano' come sinonimo di 'naturale', di 'non-soprannaturale' e di 'non-cristiano' .” Ora, a me sembra probabile che T. [Tolkien] pensasse questo: probabilmente la sua formazione filosofica e teologica primo-novecentesca lo influenzava in questa direzione. Però non concordo con T. [Tolkien] che questa operazione sia possibile, e non concorderei con Testi se lui fosse d'accordo con T. Quello che voglio dire non è facile e per essere più chiaro dovrei diffondermi più a lungo, cosa che ora non mi è possibile, e dunque solo faccio accenni. Filosoficamente penso che tutto sia storico e non esista una natura a-storica, atemporale, né nelle stelle e nei pianeti, né nelle specie viventi né in quella umana in particolare. È , diciamo, la visione hegeliana perfezionata da Benedetto Croce. E teologicamente aderisco a quello che scrisse Henri De Lubac nel suo libro Il mistero del soprannaturale, nel quale egli sostiene che la “natura pura” non esiste e non è mai esistita; che l'umanità sin dai suoi inizi è sempre stata interlocutrice della Grazia divina , dunque di una continua trasformazione 'soprannaturale' (in una natura superiore); che la 'storia della salvezza' è cominciata sin da subito. E dunque che un uomo “pagano” nel senso di “naturale” non esiste... esistono solo uomini e popoli storici, con storie differenti, e tali storie sono intersecantesi con reciproche influenze in vari momenti e forme con la storia di Gesù e del cristianesimo» (enfasi aggiunte)


In questo denso brano Manni afferma due cose:

1- che Tolkien sarebbe d’accordo con me nel dire che esiste un piano naturale “quasi” a-storico che poterebbe essere espresso dall’universo sub-creato della Terra di mezzo;

2- che Manni non condivide l’esistenza di tale piano, ma si allinea filosoficamente con Croce e teologicamente con De Lubac.

Riguardo al primo punto, non posso che “registrare” l’autorevole parere di Manni, il quale in questo modo mi pare “avvalli” questa mia possibile lettura del pensiero di Tolkien.

Riguardo al secondo punto, bisognerebbe entrare nel tema squisitamente teologico del soprannaturale, che nel ‘900 è stato al centro di un profondissimo dibattito tra i massimi teologi e filosofi del tempo: si tratterebbe così di riprendere in mano quella “schermaglia” (cui oltre a De Lubac hanno partecipato Karl Rahner, von Balthasar, Malevez, Léonard e altri) ma non è questo il luogo per farlo. Mi basti qui dire che, per quanto quel dibattito abbia eliminato definitivamente certe letture troppo “rigide” dell’idea di “natura pura”, in realtà tutt’ora si “può” almeno usare questo concetto astratto per chiarificare certe problematiche, pur sempre tenendo a mente che nel concreto di “puro” resta poco. Del resto la Humani Generis afferma che:


Altri snaturano il concetto della gratuità dell'ordine sovrannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica. “ (Denz 3891)


Questo apre, come in fondo mi pare dica Manni, almeno alla possibilità dell’esistenza di “santi pagani” che a mio avviso popolano il mondo secondario della Terra di Mezzo e che solo per grazia (e non per necessità divina) saranno eventualmente elevati a vivere il piano superiore della fede.


Sempre nella recensione Manni mi consiglia infine di dare maggior risalto al libro di Passaro e Respinti “Paganesimo e Cristianesimo in Tolkien” (citato alle pagine 26 e 32): in una eventuale seconda edizioni terrò sicuramente presente questa osservazione.



Altra articolata recensione è quella di Wu Ming 4, apparsa in due “puntate” sul sito dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Mi concentro qui sulla seconda parte, in cui W Ming 4 replica ad alcune mie critiche a lui rivolte in quanto autore che ravvisa in Tolkien delle contraddizioni.

Prima di entrare nel merito è necessario che io chiarisca cosa intendo per contraddizione:

A- è contraddittoria una frase che afferma e nega di un medesimo soggetto lo stesso predicato:

“A è B e A non-è B”

Queste due situazioni non si possono mai verificare contemporaneamente, e o è vera l’una o l’altra.

B- dirò invece oppositiva (e non contraddittoria) una frase che indica tendenze opposte all’interno del medesimo soggetto, ad esempio:

“ A è tendente a B e A è tendente a non-B”

Queste due situazioni si possono verificare anche contemporaneamente nel medesimo soggetto “A”, il quale “patirebbe” così tensioni contrastanti. Ad esempio Frodo è un personaggio estremamente pregnante perché ha delle tendenze opposte (ad esempio è vero che “Frodo è tendente a infilarsi l’Anello e Frodo è tendente a non infilarsi l’Anello” e questo anche nel medesimo momento) ma non è mai vero nello stesso momento che “Frodo è con l’Anello e Frodo non è con l’Anello” (il che sarebbe contraddittorio).

Faccio queste distinzioni perché a me pare che alle volte Wu Ming 4 non distingua adeguatamente i due concetti.


Ciò premesso, vengo alla prima contro-deduzione di Wu Ming 4, cui “rimproveravo” di accettare la posizione di Shippey sul problema del male, secondo la quale in Tolkien vi sono due posizioni contraddittorie: male come privatio boni (boeziana) e male come “ente” in sé contrapposto al bene (manichea). Io sostengo che le frasi “il male è una privatio boni” può “convivere” con la frase “esiste qualcosa che è un male”: l’Anello è infatti un male in quanto è un privatore di bene (o amplificatore di mali intesi come privazioni di beni). Mi pare che Wu Ming 4 alla fine accetti questa precisazione quando dice:


È un punto di forza narrativo proprio perché l’opera non ci offre una soluzione bell’e fatta, teologicamente coerente e armoniosa, anche se, come afferma Testi, non c’è incompatibilità manifesta con la dottrina cristiana. Tutta la trama del romanzo è mossa dalle contraddizioni psicologiche ed etiche dei personaggi e da una rappresentazione del male per nulla a tutto tondo, bensì scivolosa” (enfasi aggiunte)


Dalla frase a mio avviso emerge anche come Wu Ming 4 usi senza distinguerli i concetti di contraddizione e opposizione (quando parla di “contraddizioni psicologiche”): una volta fatti questi distinguo e accettato che “non c’è incompatibilità manifesta con la dottrina cristiana” si può benissimo riscrivere e accettare completamente (almeno da parte mia) la frase finale di Wu Ming 4 così: “Tutta la trama del romanzo è mossa dalle opposizioni psicologiche ed etiche dei personaggi e da una rappresentazione del male per nulla a tutto tondo, bensì scivolosa ma non contraddittoria”.


Un secondo rilievo che mi muove Wu Ming 4 è legato all’aldilà: nella sua recensione egli sostiene che


È pur vero che per Aragorn «non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo e al di là di essi vi è più dei ricordi» (celeberrima citazione nelle Appendici del SdA, che Testi pone a conclusione del suo saggio), ma non si può tacere che questa è la considerazione di un singolo personaggio, pronunciata in punto di morte al cospetto dell’amata, per consolarla dell’imminente vedovanza. Un appiglio un po’ debole per farne la chiave di volta di un’apertura teologica verso la salvezza ultramondana.” (enfasi aggiunte)


Su questo tema faccio notare che:

- io parlo di accenni a una “dimensione ultramondana” e non a una “salvezza ultramondana”;

- inoltre è pur vero che la frase di Aragorn è “una” frase, ma non la si può ignorare, tanto più che è detta da un personaggio fondamentale in un momento fondamentale: proprio perché sono parole in punto di morte, hanno un particolare valore veritativo (e non “borghesemente” consolatorio). Al proposito si ricordino anche le ultime parole di Thorin che ha una chiara visione delle cose vere e che contano nella vita (cfr. l’elogio di Bilbo) e accenna pure a misteriose Sale dell’Attesa (Lo Hobbit cap. 18).

- questa obiezione poi ricorda quelle di chi vuole operare una lettura completamente cristiana (o pagana), mettendo tra parentesi i testi di Tolkien che sottolineano la differenza tra Legendarium e cristianesimo (o l’apertura al cristianesimo). Ma Tolkien o lo si prende “tutto” cercandone una sintesi, o ogni “messa tra parentesi” di brani “scomodi” risulta riduttiva della sua profondità.

- infine, non è nemmeno vero che in tutto il Legendarium vi sia solo la frase di Aragorn ad indicare un misterioso “oltre”: che l’uomo abbia un destino che va oltre le cerche di Arda ribadito in tantissimi luoghi, senza contare i numerosi richiamo alla prospettiva escatologica di Arda Healed e Arda Remade (cfr. Santi Pagani…pp. 145-146).


Da ultimo Wu Ming 4 difende la sua lettura legata al femminino che opera, relativamente ad alcuni personaggi dell’opera di Tolkien. Io gli rimproveravo che alcune sue frasi rischiavano di ricadere in una lettura “allegorizzante” del Legendarium che tende a ricondurre i personaggi a degli “archetipi”. A questo rilievo egli replica che:


riconoscere un archetipo narrativo non contraddice la possibilità che tale archetipo venga riproposto in maniera originale all’interno di una storia narrata. Fare finta che la componente di originalità narrativa non esista o non abbia alcun peso, come fanno i simbolisti, è un limite esegetico; ma lo è anche fare l’opposto, cioè ignorare la componente mitico-archetipica. Un fautore dell’approccio sintetico come Testi non dovrebbe avere difficoltà a cogliere questa visione sintetica, appunto. La grande potenzialità espressa dal lavoro narrativo di Tolkien – e si può dire dalla narrativa in genere – consiste proprio nell’affrontare la dialettica tra archetipo e unicità dei personaggi. Non considerare questo significa perdersi per strada una parte considerevole del tesoro che ci ha lasciato.” (enfasi aggiunte)


Continuo a essere perplesso sul discorso degli archetipi (anche se intesi “letterariamente”), visto che Tolkien usa questo termine una sola vota in “Sulle Fiabe”, e in senso negativo (“Quanto più vicino il cosiddetto «mito della natura », ovvero allegoria dei grandi processi naturali, è al suo supposto archetipo, e tanto meno risulta interessante, soprattutto di un mito capace di gettare un po' di luce sul mondo.). Devo però dire che le precisazioni di Wu Ming 4 mi hanno meglio chiarificato il suo approccio, che mi pare si avvicini all’idea di tolkieniana di “esemplificazione” (cfr. Santi Pagani.., p. 39, 177), secondo la quale ogni “vero” personaggio in qualche modo esemplifica un “concetto” (o un “problema”) universale. Non so se Wu Ming 4 “avvalli” questo accostamento terminologico, ma in ogni caso parlare di “esemplificazione” (anziché di “archetipo”) è più coerente con la poetica di Tolkien e non fa “perdere per strada” nulla “del tesoro che ci ha lasciato”.