LA THAUMASTÍA

Sulle orme del pensiero di J.R.R. Tolkien

di Angelo Mereghetti













INTRODUZIONE


In questo contributo scientifico, l’intento è quello di elaborare il pensiero di J.R.R. Tolkien1, illustre filologo e autore di opere dalla portata colossale, sul tema della thaumastía. Di essa l’autore non ha mai parlato espressamente ma, come farò emergere in seguito, noteremo come in alcune delle sue più grandi opere sia evidente quanto questo tema sia a lui caro, dimostrando così che, anche per lo stesso Tolkien, la thaumastía è necessaria all’uomo.

Questo è il primo lavoro di studio svolto su questo tema in relazione a Tolkien, per questo motivo mi concentrerò molto sulle fonti primarie esponendo il mio pensiero in relazione all’argomento, mantenendo comunque presenti i molteplici studi fatti da altri autori nelle diverse fonti secondarie.

Nel seguente elaborato vedrò in primo luogo cosa si intende per thaumastía e qual è l’uso che ne farò nel testo (§ 1), evidenziando in seguito l’indispensabilità di questa nell’uomo (§ 2); a conclusione di questa prima parte introduttiva entrerò nel pieno di questo studio evidenziando, nel migliore dei modi possibili, il rapporto tra il pensiero di Tolkien nei suoi scritti e il tema da me affrontato (§ 3).



1. La thaumastía, stupore o meraviglia


Thaumastía è una parola di origine greca che letteralmente significa “senso di stupore/meraviglia”. Nella lingua italiana “stupore” e “meraviglia” hanno delle sfumature differenti e, in questo paragrafo, andrò ad analizzarle. Inizio con il precisare quali sono le differenze tra “stupore” e “meraviglia”; prendendo il primo significato che il dizionario Treccani ci offre dei due termini:

stupóre s. m. [dal lat. stupor -oris, der. di stupēre «stupire»]. – 1. Forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire.2

meravìglia s. f. [lat. mīrabĭlia, propr. «cose meravigliose» (pl. Neutro dell’agg. Mīrabĭlis «mirabile, meraviglioso»]. – 1. Sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata.3



Sostanzialmente le due definizioni sono simili, tanto che nella descrizione di “stupore” viene usata la parola “meraviglia”. C’è però da evidenziare che tra i due vi è una differenza sebbene sottile: mentre lo “stupore” è una condizione coscienziale in cui la sorpresa è ancora disarmata, la “meraviglia” è quel momento in cui lo stupore trova modo di darsi una formulazione verbale che va dal ‹‹che meraviglia!››, al ‹‹mi meraviglio che…››. Lo “stupore” è quel sentimento suscitato dall’urto con una realtà imprevista che eccede le attese e le schianta. Esso, corrisponde a quello stato in cui ci si trova quando qualcosa ci sorprende, mostrando che il mondo è altro, è di più, è oltre tutte le possibilità di cui eravamo pronti a tenere conto. La “meraviglia” è l’espressione diretta dello stupore, è la comunicazione di un vissuto, di un’esperienza in cui si esprime una forma di sorpresa per qualcosa che non ci si aspettava, o che non si pensava tale. Ma tutto questo tema ha a che fare con la filosofia e viaggia nella stessa direzione; anche lo stesso Platone lo esprimeva dicendo che la meraviglia è propria della natura del filosofo, e la filosofia trova la sua origine proprio nello stupore.4 A partire da questi due stati cresce nell’uomo la curiosità, che è il vero motivo della continua ricerca filosofica, a partire dalla ricerca del mondo, per arrivare alla ricerca sull’uomo.

Per comodità, avendo ormai chiarito le dovute differenze, nell’elaborato userò sempre la parola thaumastía, intendendola come già espresso come “senso di stupore/meraviglia”.


2. Indispensabilità della thaumastía per l’uomo



Iniziando dall’affermazione del paragrafo precedente, in cui mi sono soffermato sulla necessità di questo senso di stupore/meraviglia per la filosofia, in questo paragrafo affronterò i motivi per i quali esso sia indispensabile. Perché per l’uomo la thaumastía è indispensabile? Per trovare una risposta a questo interrogativo voglio iniziare con una frase molto significativa, dell’autore argentino Jorge Luis Borges ‹‹Tutte le emozioni passano, solo lo stupore rimane››.5 Secondo alcune fonti questa frase citata da Borges, appartiene ad un altro scrittore, G.K. Chesterton. Seguendo il pensiero di quest’ultimo, la frase avrebbe voluto affermare che la thaumastía non solo è più importante delle emozioni, che sono momentanee, ma anche che essa è legata ad una certa innocenza primordiale, parola che non può rimandare che ai bambini, e richiama uno stato originale di questa caratteristica. Tutto ciò ci aiuta ad entrare sempre più nel perché dell’indispensabilità di questo senso.

Andando alle origini dell’uomo possiamo dire che tutto ciò che è nato, lo è stato come una ricerca del mistero, e ciò può provocare due reazioni: paura, che porta alla fuga o ad evitare un determinato evento, oggetto o situazione; o thaumastía, che conduce l’uomo a farsi delle domande, a cercare di capire come manipolare e controllare quel determinato evento, oggetto o situazione, come ingegnarsi ed evolversi verso il progresso e l’apprendimento. Di questo parla Aristotele in relazione alla filosofia:



Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori.6



Ora non bisogna chiudere in una gabbia la thaumastía, limitandosi alla sola novità o all’impossessarsi di tutto, perché così facendo con il passare del tempo si arriverebbe a un punto in cui l’uomo, non potrà più andare avanti a spiegare le cose, e a continuare a cercare di vedere attraverso di esse. Ciò è espresso da Lewis in questo suo testo:



E comunque non si può sempre continuare a perdere le cose. Si finirebbe per scoprire di aver perso spiegando la spiegazione stessa. Non si può continuare sempre a ‹‹vedere attraverso›› le cose. Il buono del vedere attraverso le cose sta nel vedere qualcosa attraverso. È bene che la finestra sia trasparente, dal momento che la strada e il giardino che stanno al di là sono opachi. Ma che succederebbe se vedessimo anche attraverso il giardino. È inutile cercare di ‹‹vedere attraverso›› i principi primi. Se si vede attraverso ogni cosa, allora ogni cosa è trasparente. Ma un mondo completamente trasparente è un mondo invisibile. ‹‹Vedere attraverso›› ogni cosa è lo stesso che non vedere.7



Se tutto ciò accadesse, la thaumastía non sarebbe più indispensabile e quindi tutto questo lavoro sarebbe inutile. Fortunatamente non è così. Come ho detto, l’uomo ha bisogno di essa perché non si soffermi semplicemente alle nuove scoperte, ma a tutto ciò che circonda l’uomo e che fa parte della sua vita. Ma cosa può trovare l’uomo di meraviglioso in ciò che lo circonda da sempre, in ciò che gli “appartiene”? A mio parere tutto!

Ed ecco che arrivo al vero nodo del perché, alle volte, non ci rendiamo conto dell’indispensabilità della thaumastía: non ci stupiamo più di quel che crediamo di “possedere”. Tutto quello che ci circonda non ci stupisce più, non crea più in noi quei sentimenti che magari sono stati suscitati quando ci è stato imposto qualcosa per la prima volta. Questo è ciò che uccide la thaumastía: l’atteggiamento di possessione nei confronti di cose che abbiamo più spesso sotto mano, in altre parole l’abitudine. Il poeta J.L. Borges lo dice con una sua celebre poesia, nella quale descrive così le vie della sua Buenos Aires: ‹‹Quasi rese invisibili dall’abitudine››8. Questo è quello che accade all’uomo se si lascia catturare dall’abitudine, lasciando sparire dentro di sé questo senso di stupore e di meraviglia. Ma dobbiamo stare molto attenti perché questo senso di possessività ci porterà a vivere quello che abbiamo letto da Lewis poco sopra, cioè cercare di svelare il mondo, fino a renderlo trasparente, invisibile, morto. Chesterton afferma a riguardo: ‹‹Il mondo non morirà mai di fame per la mancanza di meraviglie, quanto per la mancanza di meraviglia››9 e non solo, perché la mancanza di tutto ciò non ha ripercussioni solo sul mondo ma anche sull’uomo come diceva Albert Einstein: ‹‹Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti››10. Ora tutto sta nel rivalutare questo senso di stupore/meraviglia, cercando di abbandonare i parametri della cultura in cui viviamo, e per farlo bisogna farsi piccoli, sentirsi piccoli nei confronti di ciò che ci circonda; basterebbe uscire da quel minuscolo e pretenzioso teatro nel quale ognuno recita la propria commedia11.



2.1 Thaumastía Compagna dall’infanzia



Abbiamo parlato di indispensabilità, ma ora vorrei fare un esempio e analizzare la più grande meraviglia della storia: l’uomo. Si può dire che l’uomo abbia un bisogno indispensabile di thaumastía per potersi meravigliare in primis di se stesso e quindi di potersi ogni giorno incuriosire di sé e formarsi per realizzare la massima di Sant’Agostino ‹‹Diventa ciò che sei››12; diventa ciò che sei tenuto ad essere. Ma come fare questo se noi ci riteniamo arrivati, se riteniamo di conoscere tutto di noi? Ecco allora che ritorna il discorso fatto sull’indispensabilità per poter diventare ciò che si è destinati ad essere; cioè uomini. Qui nasce spontaneo un quesito: dove trovare la thaumastía nell’uomo? Essa non va acquistata ma sviluppata, non va cercata, ma coltivata dentro di sé, perché questo senso fa parte di noi, fin dalla nostra infanzia. Esso però non è che un punto di partenza che crescendo va rafforzato, perché il rischio è quello di perderlo, di buttarlo via, magari alle volte anche per paura.

Elèmire Zolla ha espresso, a mio parere, il miglior modo di descrive il senso di stupore infantile scrivendo:


Qui dell'infanzia come premessa gloriosa e tradita dell'esistenza si parla, luogo ideale dove si cela l'Unità ed estasi da cui ogni sentimento promana. E nell'esperienza dell'infanzia che nasce la conoscenza senza dualità, la filosofia spinta al di là delle parole. 13


La parte centrale di questo pensiero sta nell’espressione: ‹‹luogo ideale dove si cela l’Unità ed estasi da cui ogni sentimento promana››. Questo è il primo scopo che, nei bambini e di conseguenza anche nell’uomo, ha la thaumastía, cioè di far nascere in esso un sentimento. Questo è quello che diceva anche Chesterton nella citazione del primo paragrafo. In quell’affermazione lui non voleva screditare i sentimenti, ma evidenziare in maniera più forte come essi non siano altro che derivazioni del senso di stupore. Detto questo, la riflessione diventa una: senza la thaumastía, l’uomo non riuscirà più a provare sentimenti nella sua vita, non riuscirà più, come afferma la seconda parte della citazione di Zolla, a far nascere in lui la conoscenza senza dualismo.

La soluzione, per non arrivare a vivere le nostre vite senza una parte fondante di noi, è quella di fare come fanno i bambini, cioè di vivere come nell’infanzia dove tutto è meraviglia. Non esagero quando dico che l’uomo, in tutta la sua esistenza, anche quando essa percorre verso la fine, deve continuare ad agire ricordandosi di essere circondato da cose meravigliose, ricordando che ciò che lo circonda continua a parlargli come quando era bambino dicendogli sempre una cosa nuova.



3. La thaumastía nel pensiero di Tolkien



In questo paragrafo analizzerò il pensiero di Tolkien riguardo al tema che ho affrontato. Come si deduce dal titolo dell’elaborato, questo è il corpo centrale del lavoro, in cui cercherò di trattare in maniera critica, tenendo in considerazione quanto detto sopra, il parere del “Professore di Oxford”. È importante sottolineare, come punto di partenza comune, che Tolkien ha una visione cattolica, quindi si può dire che egli considerava le cose naturali cariche della profondità di significato che possiedono tutte le cose, essendo radicate nella mente di Dio. Dio non crea le cose semplicemente per riempire spazio. Egli crea per una ragione, e la ragione ultima della creazione è l’amore. Ogni cosa, soprattutto se vivente, è una parola, un simbolo, una rivelazione. Ogni cosa è una nota, o un tema di una musica più grande; è più di se stessa, vale a dire più di quello che la maggioranza delle persone vede quando la guarda.

Prima di passare ai successevi sotto-paragrafi, volevo concludere dicendo che Tolkien è, a mio parere, uno degli autori che maggiormente hanno incarnato la più nobile delle sentenze di Chesterton: ‹‹La dignità dell’artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo››.14




3.1. Puliamo le nostre finestre



Centrale per poter capire quale sia il pensiero di Tolkien sulla thaumastía è il saggio “sulle Fiabe” nel quale il Professore, argomentando il tema centrale dell’opera, ovvero la fantasia, descrive tre caratteristiche che derivano da essa: il ristoro, l’evasione e la consolazione. Quella su cui mi soffermerò sarà proprio la prima: il ristoro, o anche recupero. A riguardo Tolkien dice:


Il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Non dico ‹‹vedere le cose come sono››, non voglio trovarmi alle prese con i filosofi, anche se potrei azzardarmi a dire ‹‹vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle››. […] Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare – dalla possessività.15



In questo passo Tolkien non parla esplicitamente di thaumastía, ma in esso troviamo l’opposto del suo senso, cioè l’impossessarsi, il possedere una determinata cosa. Da quel che leggiamo secondo l’autore, per sconfiggere questa familiarità, abbiamo bisogno del ristoro, ossia di vedere le cose come siamo destinati a vederle, il pulire le nostre finestre, il riscoprire in ogni cosa il suo fascino, la sua thaumastía. Questa “cura” che Tolkien usa, questo ristoro a cui siamo chiamati, non è certo facile da raggiungere perché ci mancano i requisiti principali: lo stupore, la riverenza, la gratitudine.

Continuando ad analizzare il testo, viene riportato un esempio, molto concreto:


Tra tutti i volti, quelli dei nostri familiares sono quelli con cui è più difficile dedicarsi a giochi di fantasia e i più difficili da osservare con fresca attenzione. […] Questo tritume è, a ben guardare, lo scotto dell’‹‹appropriazione››: le cose che sono trite o familiari in senso peggiorativo, sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente. Affermiamo di conoscerle. Sono diventate quali quelle che una volta ci hanno attratto con il loro luccichio, il loro colore, la loro forma, e abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquistate e, acquistandole, abbiamo cessato di guardarle.16



In questo esempio, vediamo come Tolkien descrive quello che ci accade se iniziamo a dimenticarci che tutto ci è donato e nulla è nostro perché dato. Con ciò voglio dire che il nostro “forziere” deve rimanere aperto, non possiamo sempre e solo riempirlo senza più soffermarci a guardarlo, ad ammirarlo, tenendo conto anche che quel tesoro non si mostra solo a noi. Il nostro modo di vederlo quindi non è quello ultimo, il senso di stupore o meraviglia sta anche nel vedere come in esso ognuno vede cose diverse.

Se tutto ciò non accadesse, finiremmo per non poter più ricevere questa “cura”, e finiremmo con il vivere in un mondo dove nulla più ci è nuovo, nulla più ci stupirà, dove solamente il mio pensiero regna sovrano sugli altri, togliendo loro la possibilità di vedere le cose diversamente da me. Per evitare ciò abbiamo bisogno di stupore, riverenza e gratitudine che sono necessari costantemente per guardare e per gustare le cose della vita.


3.2. La meraviglia di Tom e Baccador



Tom Bombadil e Baccador17 sono due personaggi chiave nel percorso del “ristoro” analizzato precedentemente. Ne “il Signore degli Anelli”, c’è un momento in cui gli Hobbit18 si trovano a casa di Tom dopo essere stati salvati e, mentre attendono che rientri, sono al cospetto della moglie di quest’ultimo, la ninfa Baccador. In quel momento essi sperimentano ciò di cui abbiamo parlato:


Gli hobbit la guardavano estasiati e lei li guardò uno per uno e sorrise. ‹‹Dolce dama Baccador!››, osò infine dire Frodo, sentendosi profondamente turbato e commosso da una gioia inspiegabile. Aveva provato a volte una sensazione simile, incantato dalla dolce voce degli Elfi; tuttavia questo sortilegio era diverso: un piacere meno nobile e meno intenso, ma più profondo e umano penetrava fino in fondo al cuore, meraviglioso eppure non misterioso. ‹‹Dolce dama Baccador!››, disse nuovamente. ‹‹Ora capisco da dove veniva la gioia nascosta nelle canzoni che udivamo!››.19



In questa scena la protagonista è Baccador, anche se le caratteristiche descritte sono di Frodo20. Notiamo come in quest’ultimo si trovino le caratteristiche principali che la thaumastía stimola, cioè quella gioia intensa ma pur sempre inspiegabile. Questa thaumastía, apparentemente non nobile, poiché data nel quotidiano, risulta essere ad ogni modo profonda nel cuore perché è lì che essa risveglia i nostri sentimenti più intimi21.

Ora invece passiamo a Tom, che è l’unico personaggio creato da Tolkien ad avere delle caratteristiche personali, come la risata, il suo modo di porsi di fronte al creato e alle creature, il suo modo di legarsi ad esse, cosa che riesce a compiere solo grazie alla meraviglia che lo libera da un isolamento superbo (ricordiamo che Tom è l’unico personaggio all’interno della storia su cui l’Anello del Potere22 non ha effetto). Riguardo a questa libertà penso che la descrizione migliore sia quella che ne fa Guglielmo Spirito nel suo libro:


Una libertà che, a mio parere, gli proviene dalla sua capacità di gioire perpetuamente; e si può gioire perpetuamente solamente quando si vedono tutte le cose con occhio benefico, con occhio positivo, in quanto allora sorge spontaneo un senso di gratitudine perché si coglie come una bontà originaria dietro ogni cosa ed ogni avvenimento: la gioia e la gratitudine fanno cantare, e quanto più una persona è gioiosa meno tende ad irritarsi, perché non vede le cose come aggressive o come nemiche [o come proprie], talchè su di lui non hanno potere.23



Penso che questo passo renda chiarissima l’idea di quale tipo di libertà sto parlando. In qualche modo, essa è molto simile al senso di cui ho parlato dall’inizio. È una libertà che ci permette di gioire e di godere di tutto ciò che ci circonda.

In ultimo volevo sottolineare come, mettendo in contrapposizione tutti gli altri personaggi creati nel libro alle figure di Tom e Baccador, si vede che all’origine della rottura fra gli esseri, si ha sempre una contrazione su se stessi, una volontà segreta di appropriazione che spinge l’uomo a riportare tutto a sé, alla sua persona, alla sua idea, al suo progetto e ai suoi interessi, alle volte anche sotto un pretesto elevato. Se questa volontà segreta d’appropriazione fosse contrariata, scatterebbe il turbamento, l’irritazione, la collera e la rottura.


3.3. L’esperienza della thaumastía nel cammino degli hobbit


In quest’ultimo punto, vorrei analizzare l’effetto benefico della thaumastía (ristoro) sui veri protagonisti della vicenda. Per farlo naturalmente, prenderò in considerazione il punto di partenza e di arrivo di alcuni dei nostri anawìm24.

Prima di tutto analizzo questa razza così particolare ed allo stesso tempo attraente. Essi vivono in una sorta di paradiso terreste, circondati dal verde. Notiamo come vengono descritti nel prologo del libro:


Il popolo hobbit è discreto e modesto, ma di antica origine, meno numeroso oggi che nel passato; amante della pace, della calma e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata. Ora come allora, essi non capiscono e non amano macchinari più complessi del soffietto del fabbro, del mulino ad acqua o del telaio a mano, quantunque abilissimi nel maneggiare attrezzi di ogni tipo. Anche in passato erano estremamente timidi; ora, poi, evitano addirittura con costernazione «la Gente Alta», come ci chiamano, ed è diventato difficilissimo trovarli. […]

Per quanto riguarda gli Hobbit della Contea, di cui tratta questo nostro racconto, essi erano, nei tempi di pace e di benessere, un popolo allegro e spensierato; portavano vestiti di colori vivaci, preferendo il giallo ed il verde, ma calzavano raramente scarpe, essendo i loro piedi ricoperti di un pelo riccio e folto, proprio come i loro capelli, che erano solitamente castani, e le piante dure e callose come suole. Perciò l’unica forma di artigianato che praticassero poco era la fabbricazione di calzature, benché avessero lunghe dita abilissime, capaci di creare tanti altri oggetti utili ed artistici. Più che belli, i loro visi erano generalmente gioviali, illuminati da occhi vivacissimi e guance colorite, con una bocca fatta per ridere, bere e mangiare. Ed era proprio ciò che facevano: mangiavano, bevevano e ridevano con tutto il cuore, amavano fare a tutte le ore scherzi infantili, e pranzavano sei volte al giorno, quando ne avevano la possibilità. Erano ospitali: feste e regali, che offrivano con grande generosità ed accettavano con entusiasmo, costituivano il loro massimo divertimento.25



È evidente come agli hobbit non mancasse nulla e vivessero felici, ignorati dalla “gente alta”: non poteva loro andare meglio, eppure tra di essi, vi erano alcuni a cui tutto ciò non bastava. Alcuni di loro decisero di intraprendere “un’avventura”, alcuni volontariamente e altri forzati dalle circostanze, ma questo porterà loro enormi benefici.


3.3.1. Bilbo Baggins



Bilbo è il primo hobbit che nel leggendarium26 parte per un’avventura. Di lui sappiamo che:



Lo hobbit di cui parliamo era uno hobbit alquanto agiato, e il suo nome era Baggins. I Baggins vivevano nel circondario della Collina da tempi immemorabili, e la gente li considerava assai rispettabili, non solo perché molti di loro erano ricchi, ma anche perché non avevano mai avuto avventure né fatto niente di imprevedibile: si poteva presupporre l’opinione di un Baggins su un argomento qualsiasi senza darsi la pena di chiedergliela.27



La descrizione di Bilbo potrebbe essere associata a quella di un qualsiasi uomo che ha smesso di vivere la thaumastía, soprattutto leggendo l’ultima frase della citazione.

Tutto nella vita di Bilbo cambia dopo l’incontro con Gandalf e la compagnia di nani guidata da Thorin Scudodiquercia. A smuovere dentro di sé il suo senso di meraviglia fu il canto dei nani su Erebor, la Montagna Solitaria. Bilbo, non appena udì le parole del canto, si sentì mosso dal desiderio di poter ammirare la Montagna. Dopo innumerevoli avventure, dopo essere riuscito a vedere la Montagna, gli Elfi, gli uomini e addirittura un drago, fece il suo rientro a casa cambiato, e la dimostrazione la troviamo nella poesia che recita nel vedere la sua Contea:



Vanno le strade, lunghe e infinite

nei boschi folti e privi di uscite,

passan spelonche che il sole non hanno,

e i ciechi fiumi che al mare non vanno;

solcano ghiacci e nevi d’inverno,

d’estate corrono nel verde eterno,

sopra le pietre e la tenera flora,

e sotto i monti screziati d’aurora.

Vanno le strade, lunghe e infinite

sotto le nubi e le stelle smarrite,

ma sempre i piedi che han tanto vagato

tornano infine al tetto bramato.

Gli occhi che han visto fuoco e sconquasso

e grande spavento in grotte di sasso

guardano infine i cari giardini

e i campi e i colli di quand’eran piccini.28



È evidente come l’avventura passata abbia risvegliato in lui la thaumastía perduta, che gli permette di tornare a vedere la propria terra come quando era bambino.



3.3.2. Frodo Baggins



Frodo è l’unico nipote di Bilbo e anche la sua vita verrà sconvolta: la differenza con Bilbo starà nel fatto che Frodo non portava in sé il grande desiderio di lasciare la Contea perché secondo lui essa aveva ancora cose da dirgli. La scelta di partire sarà obbligata da una quest rovesciata29. Egli non era spinto, a differenza dello zio, da un desiderio di vedere qualcos’altro al di fuori dalla Contea, e questo lo si capisce dalla frase che Bilbo dice parlando di Frodo a Gandalf poco prima della sua partenza:



Sarebbe venuto con me se glielo avessi chiesto. Anzi, poco prima della festa, me l’ha proposto lui stesso, ma in fondo non è ancora convinto di voler partire. Ho bisogno di rivedere le zone selvagge e le montagne prima di morire; lui è ancora innamorato della Contea, dei boschi, dei campi e dei ruscelli. E’ qui che si sente a suo agio.30



Nonostante questo Frodo è costretto a partire e, dopo quello che ha passato (ricordiamo che forse è il personaggio che più ha sofferto all’interno della storia), nel momento in cui fa ritorno alla sua Contea, che più di tutto desiderava rivedere, non trova più quel “ristoro” che vi provava all’inizio. Per questo motivo è costretto a dover partire con gli Elfi verso Valinor31 dove, alla sola veduta delle sue spiagge, inizia a vivere l’effetto della guarigione:



La nave veleggiò nell’Alto Mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba.32



Ecco come alla conclusione del suo viaggio, Frodo riacquista la thaumastía perduta a causa del tanto male ricevuto e delle ferite inflitte.



3.3.3. Samvise Gamgee



Personaggio centrale de Il Signore degli Anelli a detta dello stesso autore è Sam.33 La sua situazione è diversa rispetto a quella dei due hobbit sopra presentati. In lui troviamo sia il desiderio di rimanere nella Contea, che quello di uscire per realizzare il suo desiderio di vedere gli Elfi. È interessante notare come la prima battuta diretta del libro sia proprio una frase detta dal padre di Sam riferita a lui:



Mio figlio Sam ne saprà più di me, va e viene da Casa Baggins. È pazzo per le storie dei vecchi tempi e sta ore ed ore ad ascoltare il signor Bilbo che le racconta. Il padrone gli ha anche Insegnato a leggere e scrivere, senza cattive intenzioni, beninteso, e spero che non ne verrà niente di male. ‹‹Elfi e Draghi!›› Gli dico. Cavoli e patate soli fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire, gli dico. E lo dico anche a voi.34



In seguito Sam si intromette negli affari dei suoi superiori, in questo caso di Frodo, e anzi, si mette ad origliare dalla finestra i discorsi con Gandalf: per questo passerà notevoli guai. L’aspetto avvincente della vicenda è che Sam, forse più degli altri Hobbit, si rivelerà all’altezza dei guai che dovrà affrontare. Dico più degli altri perché il suo punto di partenza è senz’altro il più basso di tutti. All’inizio del viaggio ci viene infatti riferito che ‹‹Sam conosceva bene il paese nel giro di 30 miglia da Hobbiville, ma quello era il limite delle sue conoscenze geografiche››.35

Verso la conclusione, dopo essere stato accanto al suo padron Frodo per tutto il viaggio senza mai abbandonarlo, lo ritroviamo cambiato. Nel penultimo capitolo Percorrendo la Contea, sembra che tutto il viaggio sia a ritroso, e che la frontiera di casa, una volta posta davanti come limite invalicabile, ora sia posta dietro come confine superato. Sembra che tutto il viaggio di Sam sia un ‹‹andare verso gli Elfi e i Draghi››, di cui parla il padre impaurito; per Sam andare a conoscere Elfi e Draghi serve solo ad uno scopo: vedere attraverso un’altra luce (e magari apprezzare) i cavoli e le patate.

Ciò che Sam capisce, è che i cavoli e le patate, ‹‹fatti per gente come noi››, non si possono amare davvero senza aver prima incontrato Elfi e Draghi; allo stesso modo gli Elfi e i Draghi non li incontra chi non ama pure i cavoli e le patate. Solo quando siamo usciti da noi e dalla comoda Contea del nostro io, e abbiamo visto gli Elfi, allora i cavoli le patate avranno senso anche per noi, saranno una sorpresa, una magia più grande di qualsiasi incantesimo. Solo se percorriamo la frontiera dentro di noi, quella che ci porta non “altrove” ma “lontano, dentro di noi”, fino alle nostre radici, allora il viaggio sarà un ritorno a casa.



CONCLUSIONE


A conclusione di questo lavoro, dovremmo aver chiaro che la thaumastía è l’unione dello stupore che è quel sentimento suscitato dall’urto con una realtà imprevista che eccede le attese e le schianta e della meraviglia che altro non è che l’espressione diretta dello stupore.

Abbiamo anche visto come questo senso di thaumastía sia indispensabile per l’uomo e ci sia data fin da bambini, ma essa non è sempre con noi, è una capacità che va sempre coltivata per non rischiare di perderla e farla diventare schiava della familiarità e della possessione.

Infine andando al centro di questo elaborato vediamo come si possa trovare la thaumastía in Tolkien, e l’abbiamo trovata in due modi, nel primo facendo una lettura diversa di quello che l’autore chiama ristoro mentre nel secondo partendo da alcuni suoi personaggi e vedendo come essi siano stati cambiati dalla thaumastía.

Tirando le somme della mia ricerca, posso quindi affermare che nonostante Tolkien non abbia mai parlato esplicitamente della thaumastía in lui vi sono molte sfaccettature che permettono di parlare di essa.

Non mi sento di dire che l’argomento sia chiuso qui, ma credo di aver dato un importante contributo per lo studio di questo autore, almeno su questo nuovo fronte ancora inesplorato.

Per concludere volevo citare una frase che per me ha un valore centrale nell’opera del Professore:


‹‹E’ difficile esser certi di qualcosa fra tante meraviglie. E’ divenuto così strano il mondo! Elfi e Nani camminano insieme sulle nostre praterie, in pieno giorno; c’è gente che parla con la Dama della Foresta, eppur rimane in vita; e ritorna a combattere finanche la Spada che fu Rotta nei tempi remoti, prima che i padri dei nostri padri giungessero nel Mark! Come può un uomo in tempi come questi decidere quel che deve fare?». «Come ha sempre fatto», disse Aragorn. «Il bene e il male sono rimasti immutati da sempre, e il loro significato è il medesimo per gli Elfi, per i Nani e per gli Uomini. Tocca ad ognuno di noi discernerli, tanto nel Bosco d’Oro quanto nella propria dimora››.36



L’indispensabilità di questo senso si trova nel poter discernere il bene e il male. Entrambi portano alla meraviglia, allo stupore, ma una delle due strade porta successivamente alla distruzione di se stessi, mentre l’altra porta alla salvezza.

Pur essendo meravigliosa, una cosa non è detto che indichi la strada giusta. Qui entra in gioco la libertà dell’uomo nello scegliere il bello, il buono e il vero e di intraprendere la strada giusta verso quell’unica meraviglia che salva.

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Shippey Tom, The Road to Middle-earth, Harper Collins Publishers, London 20033; tr. it. La via per la Terra di Mezzo, Marietti, Genova Milano 2005.

Spirito Guglielmo, Tra San Francesco e Tolkien, Il Cerchio, San Marino 2006.

Tolkien Christopher, The Letters of J. R. R. Tolkien, Harper Collins Publishers, London 1981; tr. it. la realtà in trasparenza, Rusconi, Milano 1990.

Tolkien John Ronald Reuel, Tree and Leaf, George Allen & Unwin, Londra 1964; tr. it. Albero e Foglia, Rusconi, Milano 1986.

—, The Silmarillion, George Allen & Unwin, Londra 1977; tr. it. Il Silmarillion, Bompiani, Milano 2004.

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—, The Annotated Hobbit, George Allen & Unwin, Londra 2002; tr. it. Lo Hobbit Annotato, Bompiani, Milano 20122.

1 John Ronald Reuel Tolkien nasce nel 1892 a Bloemfontein, in Sud Africa, da genitori inglesi. Poco prima della morte del padre ritorna con la madre ed il fratello in Inghilterra all'età di soli tre anni, Nel 1904 muore anche sua madre. Assieme al fratello viene affidato ad un sacerdote cattolico degli Oratoriani, Padre Francis Xavier Morgan. Dopo aver frequentato la King Edward VI School inizia i suoi studi all'Exeter College di Oxford dove ottiene nel 1915 il titolo di Bachelor of Arts. Durante la Prima Guerra Mondiale si arruola nei Lancashire Fusiliers e combatte sul fronte occidentale. Finita la guerra prosegue gli studi all'Exeter College, conseguendo nel 1919 il titolo di Master of Arts. Nel 1925 viene nominato professore di Filologia Anglosassone al Pembroke College di Oxford e nel 1945 gli viene affidata la cattedra di Lingua Inglese e Letteratura Medioevale del Merton College, dove insegna fino al suo ritiro dall'attività didattica avvenuto nel 1959, venuto a mancare il 2 Settembre 1973 nella città di Bournemouth. Tutt’oggi Tolkien viene considerato il maggior esperto di letteratura anglosassone e medioevale del Novecento, nel 2008, The Times ha posizionato Tolkien al sesto posto in una classifica de "I 50 più grandi scrittori inglesi dal 1945".

2 Enciclopedia Treccani, <http://www.treccani.it/vocabolario/stupore/> (18.10.2016).

3 Enciclopedia Treccani, < http://www.treccani.it/vocabolario/meraviglia/> (18.10.2016).

4 Cfr. Platone, Teeteto 155d.

5 J.L. Borges, Il labirinto e il deserto, <http://www.letteratura.rai.it/articoli/jorge-luis-borges-il-deserto-e-il-labirinto/995/default.aspx>.

6 Aristotele, Metafisica, 982b-983a 10.

7 C.S. Lewis, L’abolizione dell’uomo, Jaca Book, Milano 1979, 74 (orig. Eng. 1943).

8 J.L. Borges, Fervore di Buenos Aires, Adelphi, Milano 20102, 71 (orig. Spa 1969).

9 M. Parisini, L'anima degli animali, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone 2002, 45.

10 A. Einstein, Come io vedo il mondo, Giachini, Bologna 1955, 39-40 (orig. Ted. 1934).

11 Cfr. G.K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia 2008, 29 (orig. Eng. 1908).

12 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 17.

13 E. Zolla, Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 19942, 11.

14 Cfr. G.K. Chesterton, Generally Speaking.

15 J.R.R Tolkien, Albero e Foglia, Rusconi, Milano 1986, 72-73 (orig. Eng 1964).

16 Ibid., 73.

17 Cfr. J.R.R Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2015, 154-165 (orig. Eng. 1994).

18 Cfr. § 3.3.

19 Ibid., 154-155.

20 Cfr. § 3.3.2.

21 Cfr. § 2.1.

22 In questi anni ho anche dato un’ulteriore potere all’Unico, cioè quello di farsi desiderare, di convincere la persona a possederlo per farlo proprio ed usarlo per i propri scopi, buoni o cattivi che essi siano è indifferente, perché esso ti spingerà a credere che il fine GIUSTIFICA i mezzi.

23 G. Spirito, Tra San Francesco e Tolkien, Il Cerchio, San Marino 2006, 54.

24 ‹‹È ormai chiaro chi sono questi hobbit: i semplici, gli umili, gli ultimi, i poveri delle Beatitudini, gli anawìm di cui parla il vangelo di Luca››, in A. Monda, L'anello e la croce. Significato teologico de Il Signore degli anelli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, 90.

25 J.R.R Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2015, 25-26 (orig. Eng. 1994).

26 Termine usato da Tolkien per racchiudere tutto ciò che riguardava la Terra di Mezzo.

27 J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit Annotato, Bompiani, Milano 20122, 43-44 (orig. Eng. 2002).

28 Ibid., 377-378.

29 A. Monda, L'anello e la croce. Significato teologico de Il Signore degli anelli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, 77.

30 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2015, 56 (orig. Eng. 1994).

31 ‹‹Terra Beata››, in J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, Bompiani, Milano 2004, 38-40 (orig. Eng. 1977).

32 Ibid., 1108.

33 J.R.R. Tolkien, la realtà in trasparenza, Rusconi, Milano 1990, lett. N. 93, 122.

34 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2015, 46 (orig. Eng. 1994).

35 Ibid., 98.

36 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2015, 485 (orig. Eng. 1994).