Un’altra via per la Terra di Mezzo: la trilogia cinematografica di Peter Jackson.1



di Tom Shippey



(traduzione di Simone Bonechi)



Cinquant’anni dopo la prima pubblicazione del Signore degli Anelli, le ironie che mettevo in risalto venticinque anni fa nel primo paragrafo della prima edizione de La Strada per la Terra di Mezzo sono diventate ancora più palesi. Lungi dallo scivolare in quel “misericordioso oblio” profetizzato da Philip Toynbee, lungi dall’essere un’opera che pochi adulti avrebbero degnato di un secondo sguardo, come dichiarato da Alfred Duggan, Il Signore degli Anelli ha trovato una nuova e ancor più larga audience tramite un nuovo mezzo di comunicazione, i tre film diretti da Peter Jackson e usciti nelle sale fra il 2001 e il 2003. Questi sono probabilmente i film di maggior successo che siano mai stati realizzati. Al gennaio 2004, i tre film presi nel loro insieme hanno guadagnato circa un miliardo e duecentocinquantamila sterline (ovvero più di due miliardi di dollari) al botteghino, una cifra certamente moltiplicata dalle vendite di videocassette e DVD, specialmente delle versioni estese, che danno una durata finale complessiva di quasi dodici ore.2 È impossibile stimare quanti spettatori questo rappresenti, poiché un DVD può esser visto da molte persone, e per converso, i dati del botteghino possono essere gonfiati da spettatori che tornano a rivedere lo stesso film, ma si può tranquillamente dire che centinaia di milioni di persone hanno visto o vedranno i film. Ci saranno quasi certamente più spettatori che lettori (sebbene naturalmente siano spesso le stesse persone). E, ovviamente, le cifre continuano a crescere. I totali sopra citati sono basati sull’articolo di Kristin Thompson del 2003, ma nella “introduzione” al suo libro del 2006, lei stessa suggerisce che i diritti dei film e del franchising ad essi correlato possono superare tranquillamente i dieci miliardi di dollari – un totale veramente sbalorditivo, specialmente se confrontato agli stipendi medi di una vita da docente.

E tuttavia, in maniera anche più sbalorditiva, la reazione Toynbee/Duggan ha seguitato ad avere un peso rilevante, persino durante la lavorazione dei film. Devo confessare che per quello che segue (così come per ciò che ho detto altrove riguardo alla reputazione di Tolkien in patria3) non ho altra fonte da citare che il pettegolezzo, sebbene stavolta sia il pettegolezzo di Los Angeles e non di Oxford. Ma si dice che mentre Peter Jackson stava lavorando ai film, i pezzi grossi di Hollywood, allarmati dal costante incremento di grandezza e costi della produzione, mandassero in Nuova Zelanda uno script doctor, il cui lavoro era di rimettere i film in carreggiata. Lo script doctor individuò immediatamente gli errori nella trama di Tolkien. Avere degli eroi che vanno cavalcando (o in questo caso camminando) in soccorso di un popolo minacciato era sicuramente del tutto consueto ed accettabile, come ne I magnifici sette: ma non c’era bisogno di avere due popoli minacciati, Rohan e Gondor. Uno di questi poteva venir tagliato, con la conseguenza che la battaglia del Fosso di Helm poteva essere amalgamata con la battaglia dei Campi del Pelennor. Una storia d’amore per Aragorn era altresì chiaramente necessaria, ma ancora una volta non c’era bisogno di due storie: fra Arwen ed Éowyn una doveva essere eliminata, preferibilmente Arwen, e Aragorn doveva dunque sposare Éowyn, invece di dissuaderla cortesemente dall’amarlo. Si poteva a quel punto operare un ulteriore risparmio eliminando il personaggio di Faramir. Nel frattempo, sebbene ci fosse qualche dubbio sull’opportunità di avere come eroi delle figure piccole ed assai poco eroiche come gli hobbit, si poteva mantenerli come trovata originale: ma ce n’era uno di troppo. Ed era assolutamente essenziale che uno degli hobbit dovesse morire. Con cambiamenti come questi, Il Signore degli Anelli poteva essere convertito in una sceneggiatura perfettamente accettabile e ordinaria, proprio come le altre (e disastrosamente fallimentari) epiche cinematografiche in lavorazione nello stesso momento, quali Troy e Alexander – tutto a spese, ovviamente, del confronto fra culture differenti, dell’originalità, della profondità emotiva, e di due o tre altre inessenziali bazzecole.

I suggerimenti dello script doctor vennero ignorati – nel suo libro del 2006 Kristin Thompson4 si sofferma sovente sui vantaggi di realizzare il film lontano da Hollywood, in Nuova Zelanda, - e i film di Jackson alla fine forse convinsero persino i pezzi grossi che c’era qualcosa che non sapevano sui desideri del pubblico. In ogni caso, i cambiamenti proposti dicono qualcosa sulla natura peculiare e persino eccentrica dell’opera di Tolkien, che molto spesso non fa ciò che ci si aspetterebbe. Nasce spontaneo il pensiero, in verità, che molte delle critiche rivoltele dai numerosi recensori ostili di Tolkien, da Muir nel 19555 a Griffin nel 20066, sarebbero state molto più accurate se fossero state indirizzate alla versione ridotta e impoverita che Hollywood avrebbe preferito. Come spesso succede, i critici stavano criticando ciò che fingevano di aver letto, non confrontandosi con l’opera in sé. Ma il successo dei film fa sorgere un problema più importante. Per molte persone, Il Signore degli Anelli è ora la sua versione cinematografica, non i libri. In che modo le due versioni differiscono e Tolkien avrebbe approvato la differenza?

Occorre tenere a mente, in effetti, che Tolkien visse abbastanza a lungo da leggere e commentare la sceneggiatura di un film - la sceneggiatura è tuttora conservata, con le annotazioni a margine di Tolkien, negli archivi della Marquette University di Milwaukee - e che lunghi brani tratti dalle sue lettere di protesta sono riportati nel suo epistolario, alle pagine 260-261, 266-267, 270-277.7 Quella sceneggiatura del 1957 era senza dubbio straordinariamente malfatta, priva di ambizione e di cura, e i commenti di Tolkien sono giustamente sferzanti. Da questa vicenda, tuttavia, merita trarre tre considerazioni. La prima è che Tolkien non aveva di per sé obiezioni ad una versione cinematografica. La seconda, che comprese immediatamente che per realizzarne una versione filmica il suo libro avrebbe dovuto essere tagliato ed era sicuro che in tali circostanze dei tagli radicali di parti della narrazione sarebbero stati preferibili a una loro resa in forma abbreviata e compressa. Meglio eliminare completamente certe sezioni semi-indipendenti, come le avventure con Tom Bombadil o la riconquista della Contea, o (notava particolarmente, vedi Lettere, pg. 439) il ritorno di Saruman, piuttosto che provare a comprimere tutto frettolosamente. Ciò che sarebbe accaduto se si fosse adottava tale alternativa sarebbe stato, con tutta probabilità, che l’Azione Primaria, termine usato da Tolkien per le peripezie di Frodo e Sam nel loro viaggio a Mordor, sarebbe stata sminuita in favore dell’Azione Sussidiaria, le guerre e le battaglie e gli eroi.

La terza considerazione è più opinabile. Tolkien (scrivendo, bisogna ricordarlo, con un certo grado di “risentimento” verso una sceneggiatura riconosciuta come inadeguata), protestava che:

I canoni dell’arte narrativa in un qualsiasi mezzo di comunicazione non possono essere completamente diversi; e l’insuccesso di un brutto film spesso sta proprio nell’esagerazione e nell’intrusione di materiale ingiustificato dovuti al non aver percepito dove stia il nucleo della storia originale.8

Lasciando da parte per il momento la questione del “nucleo della storia originale”, si potrebbe opinare sul quel “completamente differenti” usato da Tolkien. I “canoni dell’arte narrativa” possono in effetti non essere completamente differenti, ma in differenti mezzi di comunicazione essi possono ben essere sostanzialmente differenti. Ma è solo una questione di cambio del mezzo comunicativo, o riguarda e influisce sulla natura dell’intera opera? In ciò che segue cercherò di rispondere alla domanda appena posta.

Una evidentissima differenza tra scrivere un libro e fare un film risiede nel denaro. Uno come Tolkien, che scriveva nel tempo lasciatogli libero dal suo lavoro quotidiano, non doveva render conto ad altri che a sé stesso. Tutto ciò che stava investendo era il suo tempo libero, e come disse Dáin in modo assai appropriato al messaggero di Mordor “il tempo del mio pensiero è mio, e sono libero di impiegarne quanto voglio.”9 Uno come Jackson, che gestisce un budget di molti milioni di dollari, deve pensare a produrre un positivo ritorno dell’investimento e deve perciò tener conto del gusto popolare. Ogni tanto, dunque, lo si può pizzicare a “strizzare l’occhio al pubblico”. Legolas che fa skateboard su di uno scudo giù per una rampa di scale alla Battaglia del Fosso di Helm (JTT, scena 51, “La breccia nel Muro Fossato”).10 Gimli che scherza due volte sul “lancio del nano”, una volta nella scena con il Balrog, nella quale Gimli rifiuta di essere lanciato oltre il baratro – “Nessuno lancia un nano!” (JFR, scena 36, “Il ponte di Khazad-dum”) – e una volta nuovamente al Fosso di Helm, dove questa volta accetta l’umiliazione per senso del dovere – “Lanciami (…) Non dirlo all’Elfo!” (JTT 53, “Ritirata nel Trombatorrione”). Tolkien non avrebbe capito nessuna di queste aggiunte: stanno lì per un pubblico di adolescenti. Qualcosa di simile si potrebbe dire a proposito del ruolo potenziato dato ad Arwen nel primo film, dove rimpiazza Glorfindel nelle scene che seguono il ferimento di Frodo a Colle Vento. Ciò ne fa un miglior esempio dei personaggi femminili forti e attivi che oggi si prediligono, ma la riscrittura risuona un tantino a vuoto. In Tolkien è Frodo che si volta per sfidare gli Spettri dell’Anello al guado del Rombirivo, ma la sua sfida è stanca, solitaria e vana. Jackson fa sì che sia Arwen a voltarsi e a sfidare gli Spettri dell’Anello, “Se lo volete, venite a prenderlo!” (JFR 21, “Fuga al guado”). Certo che lo vogliono, e hanno tutte le intenzioni di venirlo a prendere; la sfida lanciata da Arwen è in verità del tutto irrilevante: non si guadagna gran che ad introdurre lo stereotipo della “principessa guerriera” – a parte il fatto che, come si è detto, questo è il tipo di cose che una platea moderna si aspetta, o si può pensare che si aspetti.

Ci sono un certo numero di inserimenti ed alterazioni come queste nei film di Jackson ed hanno causato un bel po' di malumori fra gli amanti dei libri: i primi due saggi nella recente collezione Tolkien and Film,11 sono critici fino all’indignazione e danno il tono a molto di ciò che segue nei successivi contributi.12 Dirò solo che l’effetto di queste scenette dettate da convenienze commerciali non deve essere esagerato: passano in fretta. Aggiungerei, anche, per quanto sembri ovvio, che la stampa e il cinema sono due mezzi di comunicazione differenti. Riprodurre nero su bianco su di una pagina il dialogo di un film può facilmente farlo sembrare piatto, banale, profondamente inferiore alla originaria versione scritta. D’altro canto, alcuni dei lunghi discorsi nel Signore degli Anelli di Tolkien, recitati oralmente, sconfiggerebbero la capacità di qualunque attore di tener desta l’attenzione del pubblico. Oralità e scrittura richiedono forme sostanzialmente differenti anche di linguaggio.13

Assai più seria è la questione dei “canoni dell’arte narrativa” e qui non posso fare a meno di pensare che ci siano state svariate occasioni in cui gli sceneggiatori di Jackson abbiano detto, in verità, “ma questo non possiamo farlo” – occasioni in cui Tolkien stesso sembra dimenticare, o ignorare, alcuni degli assiomi fondamentali della narrativa. Uno di questo è “mostra, non raccontare.” La narrativa di Tolkien è talvolta insolitamente ciarliera, pronta a saltare importanti scene drammatiche e del tutto disposta a lasciare il lettore, o lo spettatore, “in sospeso” – per esempio riguardo all’Anello. L’indubbio “nucleo della storia originale” per usare i termini di Tolkien, è l’Anello e ciò che ci viene detto a suo riguardo: il suo effetto è invariabilmente corruttivo, non può essere affidato a nessuno, non può essere nascosto, deve essere distrutto e deve essere distrutto nel luogo stesso della sua forgiatura. Senza questi dati la storia non può procedere. Ma sebbene molto di tutto ciò venga raccontato da Gandalf a Frodo nel capitolo “L’ombra del passato”, una completa informazione e identificazione non ha luogo che dodici capitoli più tardi nel capitolo “Il Consiglio di Elrond”, mentre intercorrono sei mesi pieni fra i due eventi (dal 13 aprile al 25 ottobre) – e diciassette anni tra “L’ombra del passato” e la festa di addio di Bilbo. Questo passo lento non si accorda con il mezzo narrativo cinematografico, e la soluzione di Jackson è chiara, diretta e sorprendente: gran parte della storia dell’Anello così come narrata tortuosamente da Gandalf e dagli altri oratori nel “Consiglio di Elrond”, è estrapolata e raccontata all’inizio, da una calma voce narrante, in accompagnamento alle scene di estrema drammaticità e violenza che scorrono nel frattempo sullo schermo (JFR 1, “Prologo: Un Anello per domarli…”). Molte meno “teste parlanti” e lo spettatore messo in medias res fin dall’inizio. Questo cambiamento non è esente da un prezzo da pagare, come dirò in seguito, ma rende l’azione più veloce e visivamente più immediata.

Ancora più complicata per gli sceneggiatori, immagino, è stata la resa di Tolkien della distruzione di Isengard a parte degli Ent. Nel testo abbiamo un lento montare della narrazione verso il momento della decisione degli Ent, rotto da “un urlo possente” (SDA, pg. 534), e un rapido movimento fino alla fine del capitolo “Barbalbero”, che si chiude con gli Ent e gli Hobbit che osservano dall’alto Nan Curunir, la Valle di Saruman. L’attenzione si sposta allora altrove per quasi quattro interi capitoli, circa settanta pagine, e la volta successiva che appare Orthanc, essa è in rovina. Che cosa è successo fra questi due momenti? Non vengono fornite spiegazioni per altre dieci pagine e poi tutto è raccontato in un flashback da Merry e Pipino. Gli sceneggiatori di Jackson chiaramente non potevano fare altrettanto. Avevano la scelta tra una scena in cui della gente discute pensosamente di qualcosa che è già successo e un’importante scena di azione inserita nell’ordine cronologico (JTT 59, “L’inondazione di Isengard”). Nel contesto di un mezzo di comunicazione visuale una simile scelta può andare in un sola direzione. Lo stesso vale per il viaggio di Aragorn dai Sentieri dei Morti a Pelargir, la disfatta dei Corsari e il suo arrivo appena in tempo sui Campi del Pelennor. Nel libro la Grigia Compagnia scompare dalla vista a pagina 856 e riappare sessanta pagine dopo (pg. 917), senza che sia spiegato come, fino a che Legolas e Gimli non ne raccontano la storia, nuovamente sotto forma di flashback, trenta ulteriori pagine dopo (pg. 946). Ancora una volta la scelta è tra “teste parlanti” e imponenti scene di azione con tutte le opportunità per l’utilizzo degli effetti speciali e la scelta di un cineasta è anche stavolta praticamente obbligata, come si può vedere dalle scene de Il Ritorno del Re: la n. 31 “Aragorn prende il Sentiero dei Morti”, n. 33, “Dwimorberg (Il Monte Invasato)”, n. 35 “Il Sentiero dei Morti” e n. 37 “I corsari di Umbar”, collocate in modo lineare e sufficientemente vicine da mantenere la continuità. È difficile avere da ridire riguardo a questi cambiamenti. In casi come questi i “canoni dell’arte narrativa” sono diversi fra il mezzo di comunicazione visuale e quello verbale e Jackson sicuramente doveva fare quello che ha poi fatto.

Tutto questo, però, ha effettivamente condotto a ciò che Tolkien temeva, ovvero alla subordinazione dell’Azione Primaria a quella Sussidiaria, spostando l’attenzione dello spettatore dall’Anello agli effetti speciali? Sarei dell’opinione che in verità Jackson ristabilisce l’equilibrio eventualmente perduto, varie volte, con accorte trasposizioni, che mettono in primo piano o ripropongono scene tranquille, ma importanti, che altrimenti avrebbero potuto essere eliminate. Un esempio assai calzante è “Il Consiglio di Elrond”. Nel film, molto del suo materiale è già stato usato, mentre è palese che nessun cineasta si potrebbe permettere di impiegare una parte importante della durata della pellicola in quella che è a tutti gli effetti la riunione di un comitato, e per di più una che si conclude per esaurimento e nel silenzio: “L’intero Consiglio sedeva con gli occhi bassi, come immerso in profonda riflessione.” (SDA, pg. 309). Nel film di Jackson, invece, la riunione, molto più breve, finisce con tutti i convenuti che gridano e litigano fra loro. E tuttavia le parole fondamentali a conclusione della scena sono quasi esattamente le stesse in entrambe le versioni, con Frodo che dice: “Prenderò io l’Anello, ma non conosco la strada” (SDA, ivi). In Tolkien queste parole cadono nel silenzio, in Jackson devono penetrare un tumulto di voci. Ciò che accade nel film è che Frodo dice “Lo porterò io” ed è ignorato. Mentre si fa avanti per dirlo una seconda volta, Gandalf si gira per ascoltare. E quando gli altri notano che Gandalf sta ascoltando e si azzittiscono, lo dice una terza volta,14 stavolta completando la frase quasi come in Tolkien: “Porterò io l’Anello a Mordor. Solo, non conosco la strada.” La scena del film sottolinea un punto fondamentale della storia, e dell’Azione Primaria, ovvero che sono i personaggi piccoli e fisicamente insignificanti, gli hobbit, che dominano la trama, sebbene questo sia del tutto inatteso per chiunque eccetto che per Gandalf, l’unico fra i saggi che abbia mai fatto attenzione a loro. Il riadattamento e l’alleggerimento della trama operato da Jackson trovano la loro giustificazione proprio in questo momento.

Un’altra trasposizione verso la quale vorrei richiamare l’attenzione viene da “L’ombra del passato”. In questo capitolo, in Tolkien, c’è uno scambio di battute particolarmente suggestivo tra Frodo e Gandalf. Rendendosi conto a poco a poco di quello che Gandalf gli sta dicendo, Frodo dice, con riluttanza: “Avrei desiderato tanto che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!” Al ché Gandalf risponde: “Anch’io (…) come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a loro scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato.” (SDA, pg. 76) Per gli inglesi della generazione di Tolkien, le parole “ai miei giorni” [in my time nel testo originale. N.d.t.] risuonavano con particolare significato. Nel 1938, tornando dalla conferenza di Monaco nella quale aveva lasciato via libera ad Hitler, Neville Charberlain fece il famigerato e del tutto erroneo annuncio di aver riportato con sé “pace per il nostro tempo” [peace in our time N.d.t.] e queste parole (tratte a loro volta dalla liturgia anglicana) si sono caricate di un significato infamante, divenendo sinonimo di cedimento, elusione del proprio dovere e fallimento. Quando Gandalf dice “tutti coloro che vivono questi avvenimenti” dunque, si può intendere che voglia significare, in modo inconsciamente profetico, tutti i contemporanei e i compatrioti di Tolkien; e quando dice “loro”, il pronome include Frodo e gli Hobbit della Contea, insieme agli abitanti della Terra di Mezzo e, in effetti, chiunque in ogni tempo si trovi a dover affrontare una dolorosa decisione. Gandalf subito dopo ammorbidisce leggermente l’implicita critica modificando il pronome, includendo sé stesso e restringendo il contesto: “tutto ciò che dobbiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato.” (mia enfasi). L’eco di Chamberlain, tuttavia, può ben sfuggire a spettatori del Ventunesimo secolo, lontani quasi una vita dal 1938 e da Monaco. Ma Jackson dà a queste parole una rinnovata enfasi spostandole in un differente momento e luogo. Nel primo dei suoi film, queste parole sono rivolte sempre da Gandalf a Frodo, ma sono pronunciate in un’altra significativa scena di quiete, nel buio, quando i due personaggi parlano fra loro nelle miniere di Moria (JFR, 51 “Un viaggio nell’oscurità”). La loro forza è ulteriormente aumentata dalla ripetizione. Quasi alla fine del film, mentre Frodo si prepara a lasciare la Compagnia e ad andare a Mordor da solo (JFR, 46 “La Via va sempre avanti”), sembra sentir ripetere le parole di Gandalf, mentre il volto dello stregone (che lui e gli spettatori ritengono al momento essere morto) occupa lo schermo. Solo i pronomi sono stati ancora una volta cambiati. Questa volta ciò che Frodo sente è “Tutto ciò che tu devi decidere è cosa fare con il tempo che ti è stato dato.” L’affermazione, di conseguenza, è divenuta del tutto personale, riferita direttamente a questo momento decisivo di Frodo.

Questo tipo di passaggio tra verità universale e applicazione individuale è interamente tolkieniano, esemplificato varie volte nelle poesie hobbit che Jackson ha tagliato. Ma ciò che è tagliato da una parte, ha la tendenza a riapparire da un'altra. Bombadil è del tutto scomparso dai film di Jackson, ma alcune delle sue parole sono riassegnate a Barbalbero, e c’è un momento nel terzo film in cui si dimostra una lettura molto attenta del testo originale. All’inizio del capitolo “Nebbia sui Tumulilande”, Frodo ha un sogno – solo che ci viene detto esplicitamente con potrebbe non essere un sogno. In questo sogno, o visione, o momento di intuizione, Frodo vede “una campagna verdeggiante che gli si apriva davanti al rapido sorgere del sole” (SDA, pg. 166; traduzione rivista). Più nulla viene detto o fatto riguardo a questo sogno, o visione, ma esso ritorna circa novecento pagine dopo. Nell’ultima pagina Frodo, partendo dai Porti Grigi, ancora una volta “vide candide rive e più oltre una lontana campagna verdeggiante al rapido sorgere del sole.” (SDA, pg. 1108, traduzione rivista). Cos’è quello che vede? È Aman, le Terre Immortali? O è qualcosa ancora aldilà di queste, qualcosa che non è riservato a lui solo? In una delle sequenze più violente dei tre film, (JRK, 46 “Un verde paesaggio”), mentre i troll si aprono la via dentro Minas Tirith a colpi di maglio, Jackson, sorprendentemente, riprende la questione. Mostra Pipino seduto, spaventato, un poco arretrato rispetto alla linea del combattimento, e in quel momento Gandalf si avvicina e gli parla della morte. La morte non è la fine, dice, sorridendo. Quando verrà ci troveremo a camminare in un “lontano paese verdeggiante”. Pipino è rassicurato, ma la scena ha un significato che va oltre la momentanea rassicurazione. Si percepisce che in questo momento i saggi, Tolkien, o Gandalf, o Jackson, stanno parlando a tutti e parlano della morte, un argomento ben oltra la portata della maggior parte della retorica hollywoodiana. È un buon esempio di come Jackson sia pronto a trattenere l’azione e a dire qualcosa sommessamente e mostra anche, per lo meno, un’attenta e giudiziosa lettura dell’originale.

Meno facili da spiegare sono scene che aggiungono complessità ad una trama che (come lo script doctor senza dubbio ha sottolineato) è già sufficientemente movimentata di per sé. La prima di una certa importanza fra queste ha luogo circa a metà del film “Le Due Torri”. Aragorn e Théoden si stanno ritirando verso il Fosso di Helm, quando la loro colonna è attaccata da orchi a cavallo di mannari. Questa è già di suo un’aggiunta al testo originale, ma bisogna riconoscere che il fatto che Tolkien menzioni i cavalca-mannari e poi non li descriva mai in presa diretta è una provocazione intollerabile per qualsiasi cineasta. Ma mentre l’attacco è respinto, Aragorn cade da un dirupo in un fiume, dove giace come morto. Viene poi richiamato dalla morte, parrebbe, da una visione di Arwen e dalle attenzioni del proprio cavallo, Brego (vedi JTT 34 “I mannari selvaggi di Isengard” e 37 “La grazia dei Valar”); dopodiché ritorna al Fosso di Helm e l’azione prosegue come in precedenza. Perché inserire quella che sembra una digressione narrativa, uno zig-zag? Un motivo dev’essere, nuovamente, per trovare un ruolo ad Arwen. Nello stesso momento in cui lui è richiamato alla vita dall’amore di lei, ella torna indietro per condividere il suo fato e quello della Terra di Mezzo – e ciò significa morire – per amore suo (JTT 38 “Il destino di Arwen”). La sua decisione oltretutto è riecheggiata nella decisione di suo padre Elrond di abbandonare la propria inerzia e inviare un’armata elfica sorprendentemente ben addestrata in soccorso al Fosso di Helm, altra aggiunta all’originale.

Direi che un secondo motivo per questa serie di cambiamenti è da ricercarsi nelle differenti aspettative politico-militari di una platea del Ventunesimo secolo. I contemporanei inglesi di Tolkien potevano accettare senza problemi l’idea che le forze del Male fossero più forti di quelle del Bene: era parte della loro esperienza nel mondo reale. Dopo sessant’anni di superiorità militare quasi senza antagonisti degni di questo nome, gli spettatori americani del Ventunesimo secolo hanno bisogno di un’altra, meno prosaica spiegazione per il fallimento, e questa viene fornita dalla disunione e dalla disperazione. Jackson presenta Théoden non mentre effettua un ripiegamento tattico, ma nell’atto di rifiutarsi di combattere a causa di una sorta di disillusione. “Le vecchia alleanze sono morte” dice, “siamo soli” (JTT 43, “Il ritorno di Aragorn”). Nessun aiuto giungerà da Gondor (il Théoden di Tolkien non si aspettava nessun tipo di aiuto), né dagli Elfi (in Tolkien, i Cavalieri nemmeno sanno esattamente cosa siano gli Elfi). C’è in effetti una qual certa suggestione churchilliana in tutto questo, con Théoden che dice nella stessa scena, “Se dev’essere la nostra fine, allora farò fare loro una grande fine, che venga ricordata per sempre”, più o meno come nel famoso discorso dell’ “ora più bella” di Churchill nel 1940. Ma la sensazione di essere stati abbandonati è costruita, ovviamente, solo per essere smentita, con l’arrivo inaspettato dell’armata elfica ad onorare la Vecchia Alleanza e difendere le mura del Trombatorrione. La versione di Jackson insiste sul fatto che la fonte della debolezza è la disunione e ad Aragorn e Arwen viene assegnato un ruolo aumentato in quanto fulcro di unione, rinforzando così le parole pronunciate da Elrond molto prima: “Vi unirete, o fallirete” (JFR 27 “Il Consiglio di Elrond”). Questa, forse, è la principale ragione per tutta la digressione che descrive il ritorno di Aragorn da quella che sembrava una morte sul campo. Sta lì a mostrare che “c’è sempre speranza” (Aragorn al giovane Haleth figlio di Háma, JTT 48 “L’arrivo degli Elfi”), che Théoden sbaglia a pensare di essere stato abbandonato.15 Il film è stato influenzato, si potrebbe dire, da quasi sessant’anni di N.A.T.O..

Un cambiamento di trama ancora più marcato ha come protagonista Faramir. Come chiunque abbia letto Tolkien ricorderà, Faramir ha tutte le opportunità di strappare a Frodo l’Anello, riguardo al quale conosce molte cose anche prima dell’improvvida ammissione di Sam, ma rigetta la tentazione. Nel film di Jackson invece soccombe alla tentazione, dichiara “L’Anello andrà a Gondor” e, fatti prigionieri Sam, Frodo e Gollum, comincia il viaggio per condurli a Gondor. Nella versione di Jackson, Faramir intende consegnare l’Anello al proprio padre come “un potente dono” (JTT 57, “L’attacco dei Nazgûl”) – è la frase è in effetti di Tolkien, ma in Tolkien è pronunciata non da Faramir quando decide di impadronirsi dell’Anello, ma da Denethor quando lo rimprovera di averlo lasciato andare (SDA, pg. 879). Anche questa digressione non fa molta differenza alla fin fine, perché Faramir è persuaso, apparentemente da Sam, a lasciar andare l’Anello e gli hobbit a Mordor (e in effetti qualsiasi altra cosa avrebbe alterato la trama in maniera definitiva). Allora perché introdurre questa seconda complicazione apparentemente inutile, che, come la precedente riguardante Aragorn, riporta i personaggi alla fine laddove avrebbero comunque dovuto trovarsi? Una ragione potrebbe ben essere quella di creare un collegamento con la rielaborazione della figura di Denethor operata nel terzo film, che lo trasforma in un personaggio del tutto sgradevole. È vero che anche in Tolkien Denethor è freddo, altezzoso, ambizioso e malaccorto. È sua la decisione di difendere il Rammas Echor, la muraglia che Gandalf pensa sia solo lavoro sprecato, e questa decisione per poco non costa a Faramir la vita. È sua anche la decisione di inviare Boromir a Rivendell piuttosto che il fratello, sebbene il sogno profetico fosse chiaramente indirizzato a quest’ultimo. È stata questa decisione che ha fatto sì che fosse Faramir ad incontrare gli hobbit nell’Ithilien, come Faramir rabbiosamente, anche se allusivamente, ricorda a suo padre (SDA, pg. 879), ma Denethor rifiuta di assumersene la responsabilità. Ciò non di meno, e nonostante i suoi altri disastrosi errori, è possibile provare una certa simpatia per il Denethor di Tolkien: i suoi errori egli li commette per Gondor. Non altrettanto si può dire del Denethor di Jackson. Uno dei più appariscenti usi della suggestione cinematografica è la scena del terzo film nella quale Denethor, inviato suo figlio a combattere, siede nella propria sala e ingurgita il pranzo, facendo a pezzi la carne con le mani e masticando fino a farsi colare il sugo sul mento. È fatto apparire avido, crapulone, l’epitome del “generale da castello”, che manda i propri uomini alla morte mentre vive nel lusso e negli agii. E in una ripetizione del tema della “disunione”, rifiuta di far accendere i fuochi segnalatori per chiamare Rohan in soccorso, finché non lo fa Pipino sotto la guida di Gandalf – il Denethor di Tolkien li aveva accesi e aveva inviato i suoi messaggeri ancora prima dell’arrivo di Gandalf e Pipino a Minas Tirith (vedi SDA, pg. 812).

Ciò che questa modifica dell’interazione tra Faramir e Denethor fa è riprodurre un tema particolarmente popolare nel cinema (americano) recente, ovvero quella del figlio che prova disperatamente a guadagnarsi l’amore del padre, e del padre che rifiuta (finché non è troppo tardi) l’amore del figlio. Va inoltre incontro ai gusti americani facendo rappresentare a Denethor l’arroganza e l’ordine gerarchico del vecchio mondo, e facendo sì che a distogliere Faramir dall’obbedienza a suo padre sia l’intervento di un personaggio socialmente umile come Sam. Quello che succede è che Sam, trascinato via Frodo dal Nazgûl alato, pronuncia un lungo discorso sulle “grandi storie” e sugli eroi dei tempi andati, trasposto dalla sua originale collocazione sulle scale di Cirith Ungol. “Andavano avanti perché loro erano aggrappati a qualcosa”, dice a Frodo, perché “c’è del buono in questo mondo e ed è giusto combattere per questo” (JTT 60, “Le storie che hanno importanza”). Alle sue parole viene data particolare autorevolezza dal fatto di essere messe come voce fuori campo, mentre sullo schermo scorrono immagini di vittoria al Fosso di Helm e ad Isengard, eventi dei quali Sam al momento non sa nulla. Nonostante il suo rustico accento, è diventato un profeta, un portavoce della filosofia che sta al centro del film e a Faramir, che per caso l’ha ascoltato mentre parlava a Frodo, viene fatto implicitamente riconoscere questo suo ruolo, tanto che torna sulle proprie decisioni e cambia idea riguardo all’Anello.

Questa sequenza mostra in effetti due tendenze generalizzate nei film di Jackson, che potrei etichettare abbastanza grossolanamente come “democratizzazione” e “emozionalizzazione”. La prima si riconosce nell’inclinazione ad ampliare i ruoli dei personaggi relativamente minori: così come il cuore saldo di Sam fa mutare atteggiamento a Faramir, così l’astuta diversione di Pipino nei campi devastati vicino ad Orhanc converte Barbalbero, solo nella versione di Jackson, dalla neutralità alla decisione (JTT 54, “Il piano di Messer Peregrino” e 56 “L’ultima marcia degli Ent”). Allo stesso tempo, il miglior esempio della seconda tendenza è dato da come Jackson trasforma il viaggio di Gollum, Frodo e Sam in una situazione “triangolare”, nella quale Gollum (o meglio Sméagol) entra in competizione con Sam per l’affetto di Frodo – una sequenza che include l’inganno di Gollum con il lembas e conduce alla scena in cui Frodo arriva a cacciar via Sam sulle Scale di Cirith Ungol. Jackson utilizza Gollum/Sméagol in maniera magistrale dall’inizio alla fine, con una scena particolarmente buona ed originale nella quale Sméagol discute con il proprio alter ego Gollum e riesce ad esorcizzarlo (JTT 29, “Gollum e Sméagol), solo per vederlo ritornare dopo l’apparente tradimento ad Henneth Annûn (JTT 42, “Lo stagno proibito”). Jackson ha anche la tendenza compensativa, si può notare, ad appianare sbrigativamente complicazioni meramente tattiche, come i motivi contrastanti dei tre gruppi di orchi che catturano Merry e Pipino, gli Isengardiani di Uglúk, gli orchi di Mordor di Grishnákh e i “vermiciattoli di montagna” di Moria. Egli rende le motivazioni più comprensibili (per un pubblico del Ventunesimo secolo) in termini di amore dato e negato, pusillanimità e lealtà mal riposta.

Si potrebbe affermare che non esistono neutrali nella visione di Jackson, o che a coloro che desiderano rimanere neutrali, come Théoden, o gli Ent, o gli Elfi che voltano le spalle alla Terra di Mezzo, viene fatto riconoscere il proprio errore. Jackson è più sbrigativo di Tolkien nel rappresentare il male senza sfumature, e come una forza puramente esterna (un difetto del quale Tolkien è stato spesso, a torto, accusato). La voce fuori campo nelle sequenze iniziali del film ci dice che dopo la battaglia di Dagorlad, Isildur ebbe “quest’unica occasione di distruggere il male per sempre” (JFR 1 “Prologo: “Un Anello per domarli…”). Per sempre? Quando Tolkien usa la frase, viene bollata immediatamente come erronea. Elrond dice di ricordare il giorno “quando Thangorodrim fu distrutto e gli Elfi credettero che il male fosse ucciso per sempre, mentre non fu così.” (SDA, pg. 280, mia enfasi), ma non c’è una simile riserva in Jackson. Jackson fa dire da Elrond a Gandalf che grazie all’errore di Isildur “al male fu permesso di perdurare” (JFR 24, “Il potere dell’Anello”), ma i sapienti di Tolkien, sono sicuro, sarebbero stati consapevoli che il male è sempre latente e esisterà sia che gli Uomini o gli Elfi lo permettano o meno. C’è qui il nocciolo di una seria messa in discussione della visione del mondo di Tolkien, con la sua insistenza sulla natura corruttibile anche delle persone migliori e la sua convinzione che, benché le vittorie siano sempre utili e degne, esse sono anche sempre temporanee. E questo problema, infine, potrebbe non scaturire da una incapacità a percepire “il nucleo della storia originale”, ma da una grave ed innata differenza tra i due diversi mezzi di comunicazione, e i loro rispettivi “canoni dell’arte narrativa.”

Arrivo ora ad un argomento che ho già cercato in precedenza di chiarire.16 Tolkien, però, è un autore al fondo del quale non si può mai del tutto andare, e vedere i film di Jackson ha nuovamente fatto sorgere una riflessione che avevo già avuto modo di fare. Ovvero che, così come la complessa struttura delle sezioni centrali del Signore degli Anelli sta lì per dimostrarci le naturali sensazioni di smarrimento (bewilderment) dei personaggi, nei due sensi: quello antico, letterale e perfettamente verosimile di essere “smarriti” (lost in the Wild) e il moderno, metaforico ed evitabile senso di essere “mentalmente confusi”, allo stesso modo vi è in esse anche la dimostrazione di un altro pericolo, che può essere anch’esso riassunto da una parola ambigua. La parola è “speculazione”, ed è una cosa da evitare a tutti i costi. “Speculazione” per di più ha due significati, proprio come ci si può aspettare da Tolkien. Il suo senso moderno e metaforico è qualcosa come “permettere alle proprie azioni di essere guidate da ipotesi circa ciò che accadrà, o ciò che sta accadendo, o ciò che altre persone è probabile che facciano”. Il suo senso antico e letterale, tuttavia, è guardare in uno speculum - uno specchio, un vetro, una palla di cristallo. Frodo e Sam “speculano” quando guardano nello Specchio di Galadriel, ed è una tentazione per loro. Lo Specchio tenta Sam ad abbandonare il suo dovere verso Frodo e tornare a casa a soccorrere il Gaffiere: ciò sarebbe disastroso per tutta la Terra di Mezzo. Fortunatamente Galadriel è lì per consigliarlo e per osservare “Lo Specchio è una pericolosa guida delle nostre azioni.” (SDA, pg. 408). È questo modo di interpretare le immagini dello specchio che gli mostrano le streghe a distruggere Macbeth.17 Ma le fonti principali di pericolosa “speculazione” nel Signore degli Anelli sono i palantíri, le Pietre Veggenti.

Quest’ultime vengono utilizzate quattro volte nell’opera di Tolkien, secondo uno schema assai coerente. La prima occasione è quando Pipino raccoglie il palantír gettato da Grima dalle finestre di Orthanc, e più tardi lo scruta di soppiatto mentre Gandalf è addormentato. Nella Pietra, egli vede Sauron, e Sauron vede lui. Ma sebbene Sauron veda Pipino, egli trae da questo una conclusione sbagliata, ovvero che Pipino è il Portatore dell’Anello e che è stato catturato da Saruman, che ora possiede l’Anello (SDA, pp. 652-653). Il giorno dopo, Aragorn, cui è stata data la Pietra da Gandalf, si mostra a Sauron deliberatamente attraverso di essa, e ancora una volta Sauron trae la conclusione sbagliata, ovvero che Aragorn ha sopraffatto Saruman e che è lui adesso il possessore dell’Anello. È la paura di questo nuova potenza in ascesa che fa lanciare a Sauron un attacco prematuro, e anche Gandalf si rende conto che questa è stata fin dall’inizio l’intenzione di Aragorn. (SDA, pp. 881-882). Gandalf inoltre deduce che è stato il palantír a causare la caduta di Saruman. Quando guardava in esso, vedeva solo ciò che Sauron gli permetteva di vedere, e, di nuovo, traendone la conclusione sbagliata, perdendo coraggio e giungendo alla conclusione che ogni resistenza sarebbe stata futile (SDA, pg. 656). Sia Sauron che Saruman hanno permesso a ciò che vedevano nelle Pietre di guidarli nelle decisioni; e ciò che hanno visto corrisponde al vero, ma hanno visto solo parti della verità.

Il più disastroso uso del palantír è comunque quello fatto da Denethor. La sequenza degli eventi è qui resa in maniera particolarmente chiara da Tolkien, sebbene sia mascherata dal suo stile narrativo “saltellante”, che ho cercato di descrivere varie volte.18 Aragorn si mostra a Sauron nella Pietra di Orthanc il 6 marzo. Il 7 e l’8 Frodo e Sam sono con Faramir nell’Ithilien. Il 9 Gandalf e Pipino raggiungono Minas Tirith. Il 10 Faramir ritorna a Minas Tirith e riferisce a suo padre di aver incontrato e rilasciato due hobbit, che sia lui che suo padre sanno avere con sé l’Anello. Il giorno dopo Denethor manda Faramir a difendere Osgiliath, chiaramente un errore tattico. Il 13 Faramir è riportato indietro gravemente ferito e Denethor si ritira nella sua camera segreta, dalla quale la gente vede “una pallida luce brillare e vacillare (…) finché con uno sfavillio si spense.” Quando ridiscende, “il viso del Sire di Gondor era grigio, più livido di quello di suo figlio.” (SDA, pg. 888). Chiaramente Denethor ha usato il suo palantír, ma cosa vi ha visto? Molto dopo, prossimo al suicidio, dirà a Gandalf che vi ha visto la Flotta Nera in avvicinamento (come effettivamente stava succedendo), sebbene egli non sapesse (ma il lettore in quel momento sì) che la Flotta ora trasportava Aragorn e i soccorsi, non un nuovo esercito di nemici (SDA, pp. 923-924). Ma questo non sembra, comunque, una notizia tale da far scattare in lui una totale disperazione. Di sicuro ci si vuole far capire che ciò che ha visto nel palantír è Frodo, che lui sa essere il Portatore dell’Anello, nelle mani di Sauron. Sia la cattura di Frodo che il ferimento di Faramir hanno luogo il 13 marzo; e bisogna ricordare che Sauron gioca un inganno simile mostrando a Gandalf e ai condottieri dell’Occidente la cotta di mithril di Frodo e la spada di Sam nell’incontro fuori dal Cancello Nero. Ogni dubbio è fugato, comunque, da ciò che Denethor dice a Pipino mentre si prepara a suicidarsi: “Non cercare di confortarmi con l’aiuto degli stregoni! (…) La speranza di quello stolto è fallita. Il Nemico lo ha trovato ed ora il suo potere cresce.” (SDA, pg. 891), e quel “lo” che “il Nemico” ha trovato dev’essere l’Anello. Ancora una volta, dunque, Denethor ha visto qualcosa di vero in un palantír, e ha tratto da ciò una conclusione sbagliata.

Quello che tutte queste scene insieme fanno è indicare i pericoli della “speculazione”. Speculare nel vecchio senso del termine (guardare dentro una sfera di cristallo) è invariabilmente disastroso nel mondo di fantasia di Tolkien. Mettere in guardia contro i pericoli della speculazione in senso moderno, il modo in cui guardar troppo nel futuro può erodere la volontà di azione nel presente, fa tuttavia sicuramente parte dell’analisi del mondo reale propria di Tolkien.19 La risposta alla speculazione si trova nelle ripetute scene nelle quali ci viene fatto capire che il fato di un personaggio o gruppo di personaggi dipende dall’aiuto proveniente da direzioni del tutto inaspettate e ignorate. Frodo e Sam riescono ad attraversare Gorgoroth perché Sauron è distratto, deliberatamente, da Aragorn. Re Théoden è salvato al Fosso di Helm dagli Ucorni portati da Gandalf, ma anche dall’avere Merry e Pipino allertato Barbalbero. Saruman è distrutto in un certo qual modo dalle proprie azioni. Nonostante tutti i dubbi di Aragorn sulle proprie decisioni, Gandalf gli ricorda che “i nostri nemici hanno semplicemente collaborato fra loro per far giungere Merry e Pipino, con straordinaria rapidità e al momento giusto, sin nella foresta di Fangorn, ove altrimenti non sarebbero mai venuti!” (SDA, pg. 548). I palantíri sviano gli incauti che li usano riempiendoli di paure ingiustificate, ma l’intera struttura del Signore degli Anelli indica che la decisione e la perseveranza –non speculare su ciò che sta accadendo altrove, ma fare il proprio lavoro e continuare a farlo, “guardare al proprio fronte” come un Fuciliere del Lancashire - che questa attitudine mentale può essere ricompensata oltre ogni speranza. Questo, secondo me, è il nucleo centrale della filosofia di Tolkien.20 Egli crede nell’opera della Provvidenza – la Provvidenza che “mandò” indietro Gandalf, e che “destinò” Frodo ad avere l’Anello (SDA, pg. 553 e 81). Ma anche che la Provvidenza non annulla il libero arbitrio, poiché agisce solo attraverso le azioni e le decisioni dei personaggi. In Tolkien non esiste il caso, né la coincidenza. Ciò che i suoi “smarriti” personaggi percepiscono come caso o coincidenza è il risultato solo della loro incapacità di vedere come le azioni si collegano.

La struttura del Signore degli Anelli, dunque, fa sostanzialmente quello che John Milton diceva di voler fare in Paradiso Perduto (libro I, vv. 25-26): entrambi gli autori, l’arci-protestante e il cattolico convinto, avevano intenzione di “affermare l’eterna Provvidenza e giustificare le vie di Dio agli uomini.” Ma per seguire quella struttura bisogna avere un solidissimo controllo sia della cronologia degli eventi, che del modo in cui gli eventi di un filone narrativo (come la cattura di Frodo) influenzano quelli di un altro (come il suicidio di Denethor). Mi pare che il medium del film non si presti a questo tipo di collegamento intellettuale.

Come abbiano rilevato in precedenza, Jackson attenua sin dal principio il tema dello “smarrimento” (bewilderment) spiegando la storia dell’Anello dall’inizio alla fine ed eliminando i flashback: il prezzo di questo mettere lo spettatore in medias res è la riduzione del senso di incertezza provato dai personaggi (nonché dal lettore/spettatore). Jackson oltretutto non usa molto i palantíri. Nel primo film vediamo sì Saruman usarne uno (JFR, 18 “La distruzione di Isengard”), ma lo fa solo per fare rapporto e ricevere ordini: non c’è nessun indizio che stia venendo fuorviato. Pipino più tardi lo raccoglie fra i relitti di Isengard (la spiegazione di come si trovi lì è piuttosto differente, risultato della anticipata eliminazione di Saruman nella versione di Jackson) e come in Tolkien ci guarda dentro di soppiatto. Ma la cosa importante nel terzo film di Jackson non è Sauron che vede Pipino, traendone la conclusione sbagliata, ma Pipino che vede Sauron, riuscendo ad indovinare correttamente una parte del suo piano – l’assalto a Minas Tirith (JRK 8, “Il Palantír”). Aragorn usa la Pietra più avanti nel film (JRK 60, “Aragorn assoggetta il Palantír”), ma non come indicato da Tolkien. Il tema della errata “speculazione” è stato interamente rimosso.

Contemporaneamente l’interconnesso tema della coincidenza mal interpretata è invece presente, ma in maniera sostanzialmente residuale. Nella presentazione abbreviata del viaggio di Frodo e Sam verso Monte Fato, i due guardano dall’alto la pianura di Gorgoroth, e vedono spegnersi i fuochi dei bivacchi degli Orchi, mentre le armate di Sauron si muovono verso il Cancello Nero. Sam riflette e dice che questo è un colpo di fortuna (“Un po’ di fortuna, finalmente”, JRK 62, “In compagnia degli Orchi”), ma si sta sbagliando, almeno nel senso che lui intende, perché Aragorn e Gandalf hanno condotto le loro rimanenti forze al Cancello Nero precisamente per attirare l’attenzione di Sauron.21 Ma altre “coincidenze” sono state rimosse. In Tolkien, era una coincidenza fortunata che la spada con cui Merry trafigge il capo dei Nazgûl fosse stata fatta molto tempo prima per essere usata contro “il terrificante regno di Angmar e il suo re negromante” (SDA, pg. 914), che è ora il Nazgûl; ma il film, avendo eliminato la sequenza dello Spettro dei Tumuli, passa il tutto sotto silenzio. Similmente, non c’è dubbio in Tolkien che il tentativo di Denethor di uccidere Faramir sia ciò che segna il fato di Théoden, perché mentre Pipino chiama via Gandalf, Gandalf dice “se lo faccio [salvare Faramir] altri morranno.” (SDA, pg. 920). Ma questa dimostrazione che c’è sempre un prezzo da pagare per la debolezza non è più visibile. In generale, l’accurata duplice analisi che Tolkien conduce sui pericoli della speculazione e sulla natura del caso, che presa nel suo insieme esprime una visione decisamente tradizionale, ma allo stesso tempo segnatamente originale dell’operare della Provvidenza, non viene riflessa nella serie di film di Jackson. In questo senso, gran parte del “nucleo dell’originale” è andato perduto nella versione filmata.

Comunque, e qui contesto l’affermazione di Tolkien citata all’inizio di questo saggio, questo può essere perché i “canoni dell’arte narrativa”, benché certamente non “completamente differenti” in un differente mezzo di comunicazione, sono riconoscibilmente differenti. Per dirne una, il mezzo filmico ha maggiori problemi nel maneggiare sequenze temporali contorte di quante ne abbia la narrativa in prosa. I cineasti possono facilmente saltare da una scena ad un’altra, e Jackson lo fa spesso con effetti contrastanti suggestivi.22 Il significato implicito, tuttavia, è sempre che le differenti scene (più numerose, più brevi, più frammentate)23 stanno accadendo più o meno allo stesso tempo. Semplicemente con la divisione in libri e capitoli, con i familiari strumenti dei titoli dei capitoli e dei capoversi di inizio pagina, un romanziere può in effetti dire al suo lettore, “Adesso ti sto riportando indietro dove ho lasciato questo gruppo di personaggi.” Un risultato di ciò è che il lettore è assai più consapevole di quello che conosce, riguardo ad un altro filone della trama, di quanto non sappiano i personaggi del filone che viene narrato, con ovvi effetti di ironia o rassicurazione. Questa è una sostanziale differenza tra le due versioni che adesso abbiamo del Signore degli Anelli.

Tutto questo è veramente importante? Jackson può non essere stato capace di affrontare ogni ramificazione del pensiero di Tolkien sulla Provvidenza, ma del resto pochi lettori, se non nessuno, ci riescono. È molto difficile dire se anche solo parte delle intenzioni di Tolkien passi al lettore più disattento o meno perspicace: lui lo avrebbe sperato, ma non c’è garanzia che avesse ragione. E allo stesso tempo Jackson è sicuramente riuscito a convogliare molte delle più ovvie parti del nucleo della narrazione di Tolkien, molte di queste sorprendentemente aliene alla normalità hollywoodiana – la differenza tra azione primaria e sussidiaria, i differenti stili di eroismo, la necessità della pietà alla pari del coraggio, la vulnerabilità dei buoni, il reale costo del male. È stato coraggioso da parte sua mantenere il finale triste, sottotono e ambiguo dell’originale, con tutto ciò che lascia di non detto. Forse la sola persona che potrebbe rispondere alla domanda che ponevo all’inizio – i cambiamenti influenzano la natura dell’intera opera? – sarebbe una persona con un’esperienza opposta alla mia: qualcuno che ha visto i film, preferibilmente varie volte, e solo dopo ha letto l’originale di Tolkien. Sarebbe interessante avere da una tale persona una lista delle “cose di cui non mi ero reso conto prima”, e anche delle “cose che Tolkien ha omesso”. Forse la cosa più rincuorante che si può dire è che ora ci saranno certamente milioni di persone esattamente in questa posizione, nuovi lettori che affrontano una nuova esperienza, e che trovano ancora una volta la via di Tolkien per la Terra di Mezzo.







[ Traduzione autorizzata di Tom SHIPPEY, ‘Another Road to Middle-earth: Jackson’s Movie Trilogy’, in Roots and Branches. Selected Papers on Tolkien by Tom Shippey, Zollikofen, Walking Tree Publishers, 2007; pp. 365-386 ]



1 Questo saggio ha avuto origine come “Another Road to Middle-earth: Jackson’s Movie Trilogy” nel volume curato da D. Isaac e Rose Zimbardo dal titolo Understanding the Lord of the Rings, Boston, Houghton Mifflin, 2004, pp. 233-254. Aggiornato ed ampliato divenne la “Appendice C” nella terza edizione britannica di The Road to Middle-earth (Londra, HarperCollins, 2005), pp. 409-429. Anche in questo caso ho nuovamente aggiornato cifre e riferimenti. Sono grato ai dottori Isaacs e Zimbardo e alla Houghton Mifflin e alla HarperCollins per avermi permesso di ripetermi qui.

2 Alcune cifre per le vendite di videocassette e DVD sono riportate da Kristin Thompson, “Fantasy, Franchises, and Frodo Baggins. The Lord of the Rings and Modern Hollywood”, in The Velvet Light Trap 32 (Fall issue) 2003, pp. 45-63.

3 Vedi Tom Shippey, The Road to Middle-earth, terza edizione; Boston, Houghton Mifflin, 2003, pg. 44 e nota (trad it. J.R.R. Tolkien: la via per la Terra di Mezzo; Genova, Marietti 1820, 2005, pg. 79 e nota.

4 Vedi Kristin Thompson, Frodo, Fantasy and Franchise: The Lord of the Rings and Modern Hollywood, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2006.

5 Vedi Edwin Muir “A Boy’s World”, recensione di The Return of the King, in “Observer” (27 novembre 1955), pg. 11.

6 Vedi Jasper Griffin, “The True Epic Vision”, recensione di Gilgamesh: A New English Translation, traduttore Stephen Mitchell; “New York Review of Books”, n.53.4 (9 marzo 2006), pp. 25-26.

7 J.R.R. Tolkien, The Letters of J.R.R Tolkien; London, HarperCollins, 1995; pp. 260-261 266-267, 270,277. (Trad. it. J.R.R. Tolkien, Lettere 1914/1973, Firenze-Milano, Giunti Bompiani, 2018; pp. 414, 423-424, 429-440)

8 Lettere, pg. 430

9 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli; Milano, Bompiani, 2003; pg. 278. D’ora in poi citato come SDA.

10 I riferimenti a tutti e tre i film di Jackson sono alle scene così come numerate nelle versioni estese in DVD prodotte dalla New Line Cinema nel 2002 (The Fellowship of the Ring, qui JFR), 2003 (The Two Towers, qui JTT), e 2004 (The Return of the King, qui JRK).

11 Janet Brennan Croft (a cura di) Tolkien on Film: Essays on Jackson’s Lord of the Rings; Altadena, CA, Mythopoeic Press, 2004.

12 Vedi David Bratman, “Summa Jacksonica: A Reply to Defenses of Peter Jackson’s Lord of the Rings Films, after St Thomas Aquinas” e Janet Brennan Croft, “Mithril Coats and Tin Ears: ‘Anticipation’ and ‘Flattening’ in Peter Jackson’s Lord of the Rings Trilogy”, ivi, rispettivamente alle pp. 27-62 e 63-80. Bratman addirittura si riferisce alla prima versione del presente saggio con termini assai forti, chiamandolo un “accomodamento sarumaniano”! (pg. 35) Questo mio saggio e quello di Bratman, comunque, rappresentano un buon esempio del metodo scolastico sic et non, se posso usare Abelardo per contrastare l’Aquinate.

13 Questo aspetto viene regolarmente dimenticato, specie nell’università, e in particolar modo nelle università americane, dove la pratica di leggere il proprio intervento ad una conferenza è divenuta standard. Ma gli spettatori semplicemente non possono assimilare frasi lunghe e sintatticamente complesse, sebbene siano perfettamente in grado di farlo leggendole. Sottolineo questo punto in riferimento ad alcune delle critiche espresse, per esempio, in Dan Timmons, “Frodo on Film: Peter Jackson’s Problematic Portrayal”; ivi, pp. 123-148.

14 Forse Frodo pronuncia le parole quattro volte. Solo tre sono sottotitolate, ma Frodo sembra pronunciare la frase “Porterò io l’Anello” senza che si senta il suono della sua voce, come se parlasse a sé stesso, prima di cercare di dirlo ad alta voce.

15 Arwen dice a suo padre Elrond, “C’è ancora speranza” in JTT 38, “Il destino di Arwen” e questa conversazione è ciò che porta l’armata elfica ad andare in soccorso del Fosso di Helm. C’è una sorta di simmetria, dunque, in tre o quattro scene: Arwen che persuade il proprio padre in JTT 38, Aragorn che incoraggia Théoden in JTT 43 e Haleth in JTT 48, Sam che rimotiva Frodo e allo stesso tempo convince Faramir in JTT 60.

16 Vedi Tom Shippey, J.R.R. Tolkien Author of the Century; London, HarperCollins, 2001, pp. 172-173 e IDEM, The Road to Middle-earth, op. cit., pp. 160-167 (trad. it. Tolkien. Autore del secolo, Milano, Simonelli, 2004; pg. 196 e La via per la Terra di Mezzo; op. cit., pp. 234-243).

17 Per l’importanza di quest’opera in Tolkien vedi T. Shippey, The Road to Middle-earth, cit.; pp. 182-184 (La via per la Terra di Mezzo; cit.; pp. 262-265. C’è un’antica tradizione teatrale per la quale il “vetro” che Macbeth vede nell’Atto IV, scena I, versi 118 e ss era, nell’originale prima produzione, uno specchio posizionato in modo da riflettere il re Giacomo I che sedeva fra il pubblico, in modo che quest’ultimo potesse vedere sé stesso come uno dei discendenti di Banquo.

18 Senza riuscirci troppo bene, perché è decisamente difficile da rendere a parole. Vedi in particolar modo il diagramma in T. Shippey Tolkien. Autore del Secolo; cit.; pg.142.

19 Per citare un famoso soliloquio di Amleto, “essere o non essere”, dall’Atto III scena 1: “Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.” Per l’importanza del Macbeth per Tolkien, vedi la nota sopra; Michael D.C. Drout segnala spunti chiaramente derivati dal Re Lear nel suo articolo del 2004 “Tolkien’s Prose Style and its Literary and Rhetorical Effects” in Tolkien Studies 1 (2004), pp. 137-162.

20 Vedi su questo tema anche il saggio “’A Fund of Wise Sayings’: Proverbiality in Tolkien” in questo stesso volume.

21 Il senso che Tolkien vuole trasmettere, per esplicitarlo ancora una volta, è che proprio questo è ciò che sempre è la “fortuna”: il risultato di qualcosa che è avvenuto altrove, senza che noi lo sapessimo, ma che nondimeno fa parte del disegno provvidenziale.

22 La versione di Jackson dello strumento narrativo dell’ “intreccio” merita di essere trattata approfonditamente a parte. Vedi, ancora, i saggi di Kristin Thompson citati alle note n. 2 e 4, per ampi e preziosi commenti sul debito di Jackson con la tradizione cinematografica.

23 Contro i 62 capitoli del Signore degli Anelli (dieci dei quali sono largamente o completamente tagliati nella versione filmata), la versione estesa della Compagnia dell’Anello ha 46 scene, senza contare i titoli di coda, quella delle Due Torri ne ha 66 e quella del Ritorno del Re 76, un totale di 188: tre o quattro scene, dunque, per ognuno dei capitoli di Tolkien effettivamente utilizzati.