I requisiti di un racconto fantastico secondo il saggio Sulle Fiabe di Tolkien
di Alberto Quagliaroli
Prima di cominciare a svolgere il tema, ritengo necessario fare alcune premesse.
L’esigenza da cui è nato questo lavoro è il desiderio di trarre dal saggio Sulle Fiabe indicazioni operative per accertare quando un racconto fantastico, un’opera della cosiddetta letteratura Fantasy, o eventualmente anche un film o una serie televisiva, risponde ai criteri che Tolkien ha stabilito e messo in pratica nei suoi racconti, in special modo ne Lo Hobbit e ne Il Signore degli Anelli.
Il modo di procedere che propongo è quello che mi sento di definire di un’analisi di base. E cioè:
- partirò direttamente dalle parole di Tolkien1; e quindi mi concentrerò sul testo in sé del famoso saggio Sulle Fiabe, per mettere in evidenza quali caratteristiche emergono come le più importanti per classificare un racconto come racconto fantastico2;
- non farò che eventuale parco uso della pur corposissima bibliografia esistente su Tolkien, sia per la mia mancanza di aggiornamento nel campo; sia perché sono convinto che, indipendentemente dai riferimenti bibliografici, chi ama Tolkien per averne ripetutamente letto le opere principali ed averne apprezzato profondamente i contenuti, ha una certa base culturale, cerca di non lasciarsi fuorviare da pregiudizi ideologici di qualche genere, cerca di usare corretto spirito critico e rigore nelle argomentazioni, ha la concreta possibilità di offrire contributi di qualche utilità ai lettori senza sconfinare all’esterno dei limiti interpretativi tracciati dal pensiero, dalle opere e dalla vita dell’autore.
Come è noto, il saggio in questione è contenuto in Albero e Foglia3 che include anche due racconti (Foglia di Niggle e Fabbro di Wootton Major) e due poesie di carattere del tutto differente tra loro (Mitopoeia e Il Ritorno di Beorhtnoth figlio Beorhtehelm).
Nella prefazione4 di Albero e Foglia veniamo informati che il saggio Sulle Fiabe è stato redatto5 tra la pubblicazione de Lo Hobbit e la pubblicazione de Il Signore degli Anelli appena prima dello scoppio della II Guerra Mondiale, per essere poi pubblicato dalla Oxford University Press nel 19476. Ma ciò che importa ai fini del presente lavoro, è che non si può prescindere da questo saggio per valutare l'opera della creazione letteraria (o della sub-creazione7) di Tolkien e per valutare se altre narrazioni di altri autori possono o no rientrare nei canoni, o parametri, stabiliti dal nostro autore per le fairy-tales.
È chiaro che non ho alcuna intenzione di estrapolare dal Saggio8 una serie di regole per poter discernere in senso assoluto ciò che è racconto fantastico e ciò che non lo è. Intendo solo dare uno strumento per poter selezionare tra le creazioni letterarie (cinematografiche o televisive o anche teatrali9, se vogliamo) oggi ormai generalmente classificate come Fantasy, quelle che si possono considerare di carattere tolkieniano.
Tolkien usa già dall'inizio del Saggio un accattivante stile 'narrativo'. Parla delle fiabe come di racconti che riguardano un paese in qualche modo concretamente esistente: Feeria. Tuttavia non rimane intrappolato nel modo di procedere con cui inizia il Saggio, ma salta spesso, e agevolmente, dal registro 'narrativo' al registro 'saggistico'. Vediamone un esempio:
Il reame della fiaba è ampio, profondo ed eminente, pieno di molte cose: vi si possono reperire animali terrestri e alati d'ogni specie; vi sono mari sconfinati e miriadi di stelle, una bellezza che incanta e pericoli sempre in agguato; e la gioia e il dolore vi sono affilati come spade. È un reame in cui un uomo può forse considerarsi fortunato per avervi vagato, ma la sua stessa ricchezza e singolarità inceppano la lingua del viaggiatore che volesse riferirne. E, mentre vi si trova, è rischioso per lui porre troppe domande, per tema che i cancelli si serrino e le chiavi vadano perdute.
Vi sono tuttavia alcune domande alle quali chi vuol parlare di fiabe è chiamato a rispondere o per lo
meno a tentare di farlo, nonostante ciò che la gente di Feeria possa pensare di questa sua indelicatezza. Per esempio: che cosa sono le fiabe? Quale ne è l'origine? A che servono? Ecco le domande alle quali tenterò di fornire risposte o almeno quei frammenti di risposte che son riuscito a raggranellare, in primo luogo dalle fiabe stesse, le poche che conosco di una sterminata moltitudine.10
Lo schema è poi composto dalla seguente serie di paragrafi, non numerati, ma ciascuno con un titolo efficace e ottimamente svolto dall'autore: La fiaba; Le origini; I bambini; Fantasia; Ristoro, Evasione Consolazione; Epilogo.
Passando in rassegna questi paragrafi del Saggio mi auguro di poter raccogliere dati sufficienti e organizzarli in uno schema di facile applicazione per elaborare il succitato strumento che permetta di selezionare tra le creazioni letterarie, cinematografiche, televisive o anche teatrali generalmente classificate come Fantasy, quelle che si possono considerare di carattere tolkieniano.
3. La fiaba11 – prime esclusioni e primi criteri
Tolkien, si potrebbe dire più che ovviamente, parte dalla consultazione dei dizionari inglesi, per mostrare il significato di fairy-tale (racconto di fate) e per capire cosa si possa intendere per “fate”.
Comincia con una forte critica alle piccole fate, ai folletti e ad insetti antropomorfizzati delle fiabe con dei bambini (e scritte per bambini), pur notando che a volte il racconto che si snoda con tali personaggi apparentemente dolci e carini è una “tetra vicenda di intrighi e segrete macchinazioni”12.
Poi fa un passo con cui coinvolge una razza di esseri viventi delle fiabe che egli vede a suo modo e gli è molto cara: “Fata, in inglese fairy, sostantivo che più o meno equivale a “elfo” è una parola relativamente moderna...”13, frase che poi conferma portando esempi dalla storia della letteratura inglese. Ma continua a sostenere, concludendo, che “La definizione di una favola — ciò che è o dovrebbe essere — non dipende dunque da alcuna definizione o resoconto storico di elfi o fate, bensì dalla natura di Feeria, del Reame Periglioso in sé e per sé e dell'atmosfera che vi domina”14.
Quindi riprende lo stile narrativo, chiamando ancora in causa Feeria, la sua autonomia e la sua ineffabilità. E aggiunge: “Per il momento, mi limito a dire che una « fiaba » tocca Feeria o se ne serve, quale che sia lo scopo principale che con ciò si propone: satira, avventura, insegnamento morale, gioco fantastico”15.
A questo punto Tolkien vuole mostrare attraverso una selezione 'espurgativa' certi generi di racconti che non superano la prova dell'appartenenza a Feeria16.
Con tale intento prende in considerazione una famosa raccolta di fiabe inglesi tra l'Ottocento e il Novecento del XX secolo, constatando che: “Gran parte di quel che contiene supera più o meno brillantemente la prova”. In ogni modo, ritiene che sia necessario stabilire qualche criterio o linea divisoria che separi ciò che è fiaba da ciò che non lo è; pur ammettendo che “i confini della fiaba sono inevitabilmente incerti”17.
Qualcosa, tuttavia, lo esclude, dalla suddetta raccolta: “Un viaggio a Lilliput” (meglio conosciuto come “I viaggi di Gulliver”). E chiarisce che un tale racconto mancherebbe della lontananza nel tempo e nello spazio necessarie per essere parte di Feeria; è una storia di viaggi che non contempla il passaggio in Feeria.
Dopo l'esclusione dei lillipuziani (delle storie di viaggi) e la dichiarazione di incertezza, Tolkien introduce un primo rilevante elemento necessario e positivo perché un racconto sia considerato 'fiaba': “la soddisfazione di alcuni primordiali desideri umani”18 tra i quali c'è proprio il “sondare le profondità dello spazio e del tempo”19 e “aver comunione con altri esseri viventi”20.
'Bocciati' per così dire i racconti di viaggi, Tolkien definisce anche “non pertinente qualsiasi racconto che ricorra al meccanismo del sogno”. Il sogno è affine a Feeria, ma non convince Tolkien; soprattutto perché, mentre il sogno avviene, sarà anche possibile che Feeria si faccia presente, ma quando l'essere umano si sveglia non può facilmente presentare come vera una fiaba sognata. La cornice o il meccanismo del sogno vanifica la sensazione di verità della fiaba21. Per questo Tolkien 'coraggiosamente' esclude Alice nel Paese delle Meraviglie.
Ribadendo in pratica quanto aveva già fatto capire all'inizio del paragrafo “Le fiabe”, Tolkien esclude anche esplicitamente le favole di animali. La critica del nostro autore non va ad esseri umani o simili che desiderano e possono in Feeria parlare con gli animali, cosa ammissibile nelle fiabe, ma a racconti in cui gli animali si comportano esattamente come esseri umani (o simili) e, si potrebbe dire, ne diventano solo simulacri: “quelle [narrazioni] in cui la forma animale non è che una maschera su un volto umano”22.
In questo paragrafo abbiamo appreso allora che, secondo Tolkien, i racconti fantastici non possono essere esclusivi racconti di viaggi fantastici, non possono essere introdotti o strutturati facendo ricorso al meccanismo del sogno, non possono essere favole di animali, ma contengono la soddisfazione di alcuni desideri umani quali: sondare le profondità del tempo e dello spazio e aver comunione con altri esseri viventi.
Tolkien in questo paragrafo esordisce criticando gli studiosi di miti e leggende antichi che basandosi su affinità di tematiche e di intreccio considerano uguali i racconti di luoghi o epoche diversissime. La sua critica è basata su questa convinzione: “è proprio la tonalità, l'atmosfera, sono gli inclassificabili particolari singoli di un racconto, e soprattutto il significato generale, che informa e vivifica l'ossatura compatta della vicenda, a contare davvero”24. Il modo in cui è raccontata una leggenda, in cui si dipana l'intreccio, e l'ambiente in cui si svolge, non sono accidenti (in senso filosofico), per Tolkien; sono invece essenziali per garantire l'unicità di quel racconto, di quel mito, di quella leggenda.
Il nostro autore dichiara inoltre la sua preferenza per i risultati dell'evoluzione dell'”Albero dei Racconti”25, molto più che per le sue radici. Non è che non ritenga importante risalire alle radici dell'Albero dei Racconti, lavoro che ritiene affine a quello degli archeologi o dei filologi26; ma nello studio delle origini delle fiabe ritiene che vi siano difficoltà più insormontabili di quelle dei filologi e, si può aggiungere anche (senza che Tolkien lo abbia detto), molto più insormontabili di quelle che affrontano gli archeologi:
La storia delle fiabe è probabilmente più complessa della storia biologica della specie umana, e altrettanto complessa della storia dell'umano linguaggio. Tutte e tre le possibilità, invenzione indipendente, derivazione e diffusione, hanno evidentemente avuto parte nel tessere l'intricata tela della Storia. E ormai, districarla supera la capacità di chiunque non sia un elfo.27
Tolkien, qui, liquida come impossibile il compito di ricostruire i percorsi, le tappe che hanno portato alle versioni più recenti dei miti e delle leggende antiche, ma non esclude che sia possibile richiamare qualche elemento costitutivo dell’origine di tali racconti. Introduce, per esempio, ne parlerà più ampiamente in seguito, il concetto di “minestra” intesa come: “la storia quale ci è ammannita dal suo autore o narratore, e per « ossa » le sue fonti o materiali, sempre che (ed è rara fortuna) questi possano essere identificati con certezza”28. Inoltre, riconosce l’estrema vetustà dei contenuti delle fiabe, contenuti che possono risalire talora a documenti antichissimi. E, citando le tre possibilità, invenzione indipendente, derivazione e diffusione, per il momento attribuisce all’invenzione il ruolo principale come ingrediente per la formazione delle fiabe.
Finalmente introduce nel discorso sulle origini ciò che gli sta più a cuore in relazione con le fiabe: il linguaggio, ed insieme ad esso la sua specifica disciplina storica: la filologia. “Comunque la Lingua non può essere esclusa. La mente incarnata, la favella e il racconto sono, nel nostro mondo, coeve”29. L’elogio dell’aggettivo30 lo porta a identificare, con l’uso ‘fantasioso’ che il narratore fa di esso, la capacità sub-creativa dell’uomo.
La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l'immobile roccia in acqua veloce. Se poté l'una, poté compiere anche l'altra cosa; inevitabilmente le fece entrambe. Se possiamo distinguere il verde dall'erba, l'azzurro dal cielo, il rosso dal sangue, abbiamo già il potere di un mago, per lo meno a un certo livello; e si desta allora il desiderio di esercitare tale potere sul mondo esterno alla nostra mente. Possiamo stendere un ferale verde sul volto di un uomo e generare un orrore; possiamo far germogliare boschi di argentee foglie e far indossare agli arieti velli d'oro, possiamo mettere fuoco caldo nel gelido ventre del drago. Ma tali «fantasie», come si usa chiamarle, sono la matrice di nuove forme; ha inizio Feeria; l'uomo diviene un subcreatore.31
Il linguaggio, e l’aggettivo come parte necessaria di esso, sono strumenti indispensabili per dar vita a Feeria.
Feeria è il prodotto di una creazione che ha come unico limite il dover far affidamento sulla creazione primaria che l’uomo non è in grado di produrre essendone parte integrante. Ma il narratore, una volta che ha il linguaggio, gli aggettivi, ed entra in azione, con essi è in grado di costruire un mondo ‘concreto’, ‘subcreato’, della ‘fantasia’: "Un potere essenziale di Feeria è dunque quello di rendere immediatamente effettive, con un atto di volontà, le visioni della «fantasia»”32.
Tolkien quindi torna ad interrogarsi sull’origine dei racconti mettendo a confronto i racconti popolari (folk-tale) e il mito, la mitologia considerata bassa e quella considerata alta33. E trova che fare distinzioni o gerarchie tra i due modi di raccontare afferenti a Feeria, non sia appropriato. Fiaba, leggenda, mito sono parte, per così dire, di una stessa famiglia, in cui i ruoli non sono stabili. Tolkien si serve dell'esempio del dio norreno Thorr per chiarire questo punto. Thorr per quanto sia una divinità norrena, ha una personalità e una iconografia (letteraria) ben definita, il nome che significa tuono, il martello (affine ai fulmini), il carattere irascibile, la barba rossa, la forza cieca e distruttrice ecc.34, ma in effetti saranno esistiti certamente anche aspetti molto più prosaici e 'casarecci' di personaggi con quel carattere o con quel volto:
sarebbe privo di senso chiedersi: che cosa venne prima, le allegorie della natura relative a tuoni personalizzati che riecheggiano tra i monti, fendendo rocce e alberi, oppure aneddoti relativi a un agricoltore irascibile, non molto intelligente, dalla barba rossa, di forza fuori dal comune, un individuo in tutto, tranne che per la statura, molto simile agli agricoltori del Nord, i boendr da cui Thórr era soprattutto amato? È legittimo ritenere che Thórr si sia « abbassato » all'immagine di un uomo del genere, ovvero che il dio ne costituisca la dilatazione35.
Tolkien dice, appunto, che non è necessario dover scegliere tra le due fonti, quella 'divina' o quella prosaicamente agricola, tra l'alta mitologia e la fiaba. E conclude: “È più ragionevole supporre che l'agricoltore sia saltato fuori nel momento stesso in cui Tuono ebbe una voce e un volto; che ci fosse un lontano brontolio di tuono tra le colline ogniqualvolta un narratore udiva un agricoltore preda dell'ira”36.
Tratta anche brevemente dei rapporti tra mito, religione e fiaba, ritenendo che il passaggio da mito a religione o, meglio, il loro intrecciarsi, è avvenuto ed è un dato di fatto. Anche le fiabe non sono neppure loro del tutto estranee alla religione, per le loro:
tre facce: la Mistica volta al Soprannaturale; la Magica volta alla Natura; e lo Specchio dello scherno e della pietà, volta all'uomo. La faccia essenziale di Feeria è quella di mezzo, la Magica; ma la misura in cui le altre si rendono manifeste, se mai lo fanno, è variabile, e a decidere in merito può essere il singolo narratore.37
Quest'ultima considerazione apre, a mio parere, uno scenario ancora più ampio di quello finora descritto e analizzato da Tolkien.
Tolkien non ha mai fatto cenno al pensiero dialogico, a quanto mi risulta; ma nell'epoca della sua formazione, il secondo decennio del XX secolo38, nasceva nella filosofia (in area tedesca), ma anche nel pensiero umano occidentale potremmo dire, il pensiero dialogico, fondato contemporaneamente da Martin Buber, Franz Rosenzweig e Ferdinand Ebner39. Questo pensiero, ha tra le sue componenti più caratteristiche, e potremmo dire più innovative: la convinzione che il linguaggio crea e conserva la relazione tra gli esseri umani che sono caratterizzati da un'ineliminabile ontologia relazionale; e la visione della realtà, dal punto di vista dell'uomo, come di un rapporto fondato sulla triade Dio-uomo-mondo40. In particolare Martin Buber, in Io e Tu dirà: “Sono tre le sfere in cui si instaura ilo mondo della relazione. La prima è la vita con la natura. […] La seconda è la vita con gli uomini. […] La terza è la vita con le essenze spirituali”41 La fiaba, quindi, si inserisce nella triade dialogica 'Dio'(essenze spirituali, soprannaturale)-uomo-mondo, e il linguaggio è per essa il fondamento come lo è per il pensiero dialogico. Ma a questo punto è necessario lasciare da parte questi ed altri eventuali collegamenti, dato che non riguardano il tema del presente lavoro.
Da quanto esposto, possiamo dire che per Tolkien la prima fonte indispensabile della fiaba è il linguaggio, e l'altra fonte, ovvia, se vogliamo, è la realtà primaria, che rielaborata secondo lo stile, il senso, il pensiero, la cultura del narratore produce il racconto fantastico o gli ingredienti per i racconti fantastici ambientati in Feeria.
Ma come agiscono queste due fonti (linguaggio e realtà primaria vista attraverso gli occhi dei narratori) nel dare origine al racconto fantastico? Tolkien riprende e sviluppa l'analogia della minestra e aggiunge l'immagine del calderone in cui questa minestra sobbolle42.
Gli avvenimenti dei racconti fantastici possono contenere oltre che invenzioni (idee o racconti o episodi singoli ecc.) della fantasia dei narratori di chissà quali altre epoche e luoghi, anche innumerevoli eventi reali rinarrati, e rinarrazioni di tali rinarrazioni. Ecco una (forse anche troppo lunga) antologia di brani del Saggio che descrivono l'analogia in questione.
Torniamo ora, per un istante, a quella « minestra » di cui parlavo dianzi. A proposito della storia della narrazione, e soprattutto della fiaba, si può dire che la pentola di minestra, il calderone del racconto, ha continuato a sobbollire senza interruzione, e che di continuo gli sono stati aggiunti nuovi ingredienti, gradevoli o meno.43
[…] direi che sia la madre di Carlo Magno sia l'arcivescovo sono stati gettati nella Pentola, insomma che sono finiti nella Minestra, semplicemente a guisa di nuovi ingredienti aggiunti al tutto. Un grande onore davvero, perché in quella zuppa c'erano molte cose più antiche, più possenti, più belle, comiche o terribili di quanto non fossero di per sé quei due (se considerati semplicemente quali figure storiche).44
Sembra abbastanza ovvio che Artù, un tempo personaggio storico (ma forse non di grande incidenza come tale), sia stato anch'egli gettato nella Pentola, dove è rimasto a bollire a lungo, in una con molte altre figure e congegni narrativi più antichi, mitologici e feerici, e persino con qualche altro fortuito osso della storia, come a esempio la lotta condotta da re Alfredo contro i Danesi, fino ad emergerne quale un Re di Feeria. Una situazione simile si ritrova nella grande corte nordica « arturiana » dei Re scudati di Danimarca, gli Scyldingas di antica tradizione inglese.45
Desidero richiamare l'attenzione su qualcos'altro contenuto in queste tradizioni: un esempio, singolarmente suggestivo, del nesso tra l'« elemento fiabesco » e dèi, re e personaggi anonimi, il quale a mio giudizio comprova l'opinione secondo cui l'elemento in questione non emerge né sprofonda, ma è lì, nel Calderone del Racconto, in attesa delle grandi figure del Mito e della Storia e degli ancora anonimi Lui o Lei: in attesa del momento in cui anch'essi saranno gettati nello stufato bulicante, uno a uno o tutti insieme, senza riguardo per il rango o l'ordine di precedenza.46
Quindi i racconti fantastici attingono (e ne sono costituiti), sempre attraverso l’indispensabile linguaggio, a questo calderone contenente: fantasie, credenze, ingredienti come l'amore-a-prima vista, eventi o personaggi storici, anonimi testimoni ed attori di anonime vicende sperdute tra le pieghe della storia, idee religiose afferenti divinità ecc.
Se esistono una minestra e un calderone di questo genere deve esistere anche un ‘cuciniere’: “Ma, parlando di un Calderone, non possiamo dimenticare del tutto i Cucinieri. Molte sono le cose dentro il Calderone, ma i Cucinieri non vi immergono il mestolo alla cieca. La scelta da essi operata è importante”47. I cucinieri devono essere sapienti dosatori degli ingredienti che estraggono dal calderone, e Tolkien chiarirà molti degli strumenti che questi cucinieri devono usare. Gli effetti del loro lavoro si riassumono ancora una volta bene con le parole del Saggio:
Le fiabe non sono affatto matrici di roccia dalla quale i fossili non possano essere estratti se non da un esperto geologo. Capita che gli elementi antichi vengano escissi, dimenticati, accantonati o sostituiti da altri ingredienti, e con la massima facilità, come comprova qualsiasi confronto tra una narrazione e varianti strettamente apparentate. Le componenti che vi si trovano sovente devono essere state conservate (o inserite) perché i narratori orali, più o meno consciamente, ne avvertivano il « significato » letterario.
Un ulteriore elemento delle fiabe che Tolkien vede con favore è la “vetustà”, la consistenza dell’abisso temporale è che allontanandosi dal presente, i fatti raccontati “spalancano un uscio sull’Altro Tempo “48, su un tempo non antico, ma, in un certo senso, esterno al tempo storico.
Le origini delle fiabe, ancorché non rintracciabili in tutte le loro varianti, gerarchie e successioni si possono a questo punto riassumere con questi necessari ingredienti: il linguaggio, la realtà primaria vista attraverso gli occhi dei narratori (intesi in senso lato49) lungo tutta la storia (preferibilmente quella più remota), la raccolta di tutti gli elementi di interesse in un calderone, la ri-estrazione degli elementi e degli ingredienti dal calderone secondo i criteri e le capacità del narratore (del cuciniere) per produrre il risultato finale.
La domanda che Tolkien pone all’inizio di questo paragrafo è la seguente: “quali, posto che esistano, sono i valori e le funzioni delle fiabe, oggi?”50.
Già si capiva dalle pagine precedenti che Tolkien non riteneva i bambini i principali fruitori delle fiabe. In questo paragrafo conferma la sua convinzione, senza mezzi termini: “In effetti, la connessione istituita tra bambini e fiabe non è che un accidente della nostra storia.”51.
Le argomentazioni di Tolkien per questa netta separazione tra fiabe e bambini, sono eterogenee e, come nel seguito del Saggio apparirà più chiaro, non convincenti del tutto52: i bambini non sono esseri a se stanti, sono esseri umani ancora immaturi, quindi distinguerli dagli adulti come destinatari delle fiabe sarebbe una sorta di forzatura; il fatto che ai bambini possano piacere le fiabe dipende da un desiderio indotto da coloro che le adattano per loro53; i bambini “non amano le fiabe più degli adulti né le capiscono meglio di questi”54; qualsiasi conoscenza può essere adattata per i bambini (anche la scienza o le arti) e le fiabe possono anche esse esserlo, ma questo non fa parte della loro funzione originaria (non mediata), se è vero che qualsiasi conoscenza o informazione lasciata a se stessa (oggi si direbbe senza mediazione educativa) tra i bambini tende a deteriorarsi.
Un discorso a parte, per quanto si tratti sempre dei motivi portati da Tolkien per mostrare la non correlazione tra fiabe e bambini, va fatto per la 'credulità' e per l'appetito e per le meraviglie55.
La credulità, intesa come mancanza di esperienza del mondo per poter distinguere i fatti dalle finzioni56, è un tratto del modo in cui i bambini possono affrontare un racconto fantastico ed esserne attratti ed affascinati57. Ma esistono fiabe che inducono “sospensioni dell'incredulità”, sia nei bambini che negli adulti, e ciò accade quando:
l'inventore di fiabe si rivela un felice « subcreatore », il quale costruisce un Mondo Secondario in cui la mente del fruitore può entrare. All'interno di tale mondo, ciò che egli riferisce è « vero», nel senso che concorda con le leggi che vi vigono. Di conseguenza ci si crede, mentre vi si è, per così dire, dentro.58
Ecco che a questo proposito emerge un elemento chiave della mitopoiesi59 tolkieniana: la Credenza Secondaria, uno dei criteri essenziali per stabilire se un racconto fantastico è riuscito o no. Un racconto fantastico deve essere capace di indurre nei lettori (o negli ascoltatori) la sospensione dell'incredulità senza che essi facciano sforzi di volontà per raggiungerla: deve venir instaurata una Credenza Secondaria in modo spontaneo. Se il narratore e la sua fiaba non riescono in questo intento, falliscono, e il mondo della fiaba60 in questione rimane un “piccolo, abortito Mondo Secondario”61, assorbito dal Mondo Primario e privato del suo incanto, della sua arte.
Quindi la credulità, intesa come Credenza Secondaria, è sì, un fattore chiave anche per la fruizione delle fiabe da parte dei bambini, ma lo è allo stesso modo per la fruizione delle fiabe da parte degli adulti. La cosa essenziale è che la Credenza Secondaria deve essere indotta con naturalezza nei lettori, se questa induzione è forzata e/o richiede sforzi di volontà o gioca sui limiti oggettivi del fruitore (del lettore, dell'ascoltatore)62, il narratore, inteso come autore della fiaba, fallisce.
Tolkien accenna solo alla meraviglia, al meraviglioso, di cui parlerà in seguito. Mentre dalla credulità, basandosi anche sulla sua esperienza di bambino passa a ciò che secondo lui concretamente attraeva ed attrae il bambino, il desiderio. La Credenza Secondaria non basta da sola per fare della fiaba un Mondo Secondario di ‘successo’, la fiaba deve trattare di un mondo (secondario) desiderabile: “Semplicemente, le fiabe erano connesse soprattutto, non con la possibilità, bensì con la desiderabilità. Se risvegliavano il desiderio, soddisfacendolo e a volte stimolandolo in misura insopportabile, avevano raggiunto il loro scopo.”63 Riesaminando la sua esperienza di bambino seleziona un desiderio potente che occupava gli interessi della sua giovinezza come lettore di racconti:
La fantasia, la creazione o il balenare di Altri Mondi sostituiva il nucleo del desiderio di Feeria. Desideravo draghi con tutto il mio cuore; naturalmente, peritoso com'ero, non mi auguravo di trovarmeli nei dintorni, a invadere il mio mondo relativamente sicuro in cui era possibile, per esempio, leggere racconti in santa pace, immuni dalla paura. Ma il mondo che comprendeva un Fàfnir, sia pure soltanto immaginario, era più ricco e più bello, per quanto pericoloso fosse.64
Il succo della sua discussione su bambini e fiabe che Tolkien porta avanti ancora da p. 59 a p. 64, è che le fiabe possono essere adatte ai bambini e possono essere anche loro utili (a certe condizioni), ma gli adulti stessi possono ugualmente trovarle di grande interesse e utilità, sempre se redatte con determinati criteri, strumenti e funzioni65. Con la domanda che segue, Tolkien entra nel vivo dei criteri che devono caratterizzare i racconti fantastici. Dal momento che gli adulti dovrebbero leggere le fiabe come uno dei tanti generi letterari, vale a dire né giocando all'infanzia né fingendo di scegliere per i bambini, e neppure in veste di ragazzi che si rifiutano di crescere, quali sono i valori e le funzioni del genere?66
Ho già accennato a qualcuna delle mie risposte. Innanzitutto: se sono scritte con arte, il valore primo delle fiabe sarà semplicemente quello che, in quanto letteratura, condividono con altre forme
letterarie. Ma le fiabe offrono anche, in misura e con modalità peculiari, altre cose: Fantasia, Ristoro, Evasione, Consolazione, tutte cose di cui i bambini hanno, di norma, meno bisogno degli adulti, e gran parte delle quali oggigiorno sono di solito considerate dannose per chiunque. Mi soffermerò brevemente a considerarle, cominciando dalla Fantasia.67
Il paragrafo tratta del significato di Immaginazione e di Fantasia, che in inglese sono rispettivamente: Imagination e Fantasy, ma che purtroppo hanno, per forza di cose, significati contigui, ma non sovrapponibili perfettamente con l’italiano. Per fortuna, il concetto essenziale di immaginazione, anche in italiano è (o era fino a Tolkien, si potrebbe oggi magari dire) normalmente associato alla facoltà di creare fantasie strutturate68, contrapposto a ‘fantasia’ che invece è una facoltà inventiva non strutturante o strutturata69. E Tolkien tratta proprio di Fantasia e Immaginazione come di due termini che andrebbero scambiati anche nella lingua inglese attuale.
La mente umana è capace di plasmare immagini di oggetti non concretamente presenti. La facoltà di elaborare le immagini è (o era) chiamata ovviamente Immaginazione. Ma ai nostri giorni nel linguaggio tecnico anche se non in quello di ogni giorno, l'immaginazione è spesso intesa come alcunché di più elevato della semplice invenzione di immagini, attribuita alle attività della fantasia; si assiste insomma al tentativo di restringere, o meglio di applicare a sproposito, il termine immaginazione alla « capacità di conferire l'intima consistenza della realtà a creazioni ideali ».70
[In lingua originale]
The human mind is capable of forming mental images of things not actually present. The faculty of conceiving the images is (or was) naturally called Imagination. But in recent times, in technical not normal language, Imagination ha often been held to be something higher than the mere image-making, ascribed to the operations of Fancy (a reduced and depreciatory form of the older word Fantasy); an attempt is thus made to restrict, I should say misapply, Imagination to the ‘power of giving to ideal creations the inner consistency of reality’71.
Questa fortuna di una certa corrispondenza tra i significati in inglese e in italiano ci permette di aderire con una certa facilità all’analisi filologica che svolge Tolkien.
Il concetto chiave in questo brano è la « capacità di conferire l'intima consistenza della realtà a creazioni ideali », e Tolkien sottrae all’Immaginazione questo ruolo, e lo applica, prima ad “un altro nome: Arte, cioè il legame operativo tra Immaginazione e risultato finale, vale a dire Subcreazione.”72; poi, per unire “l’Arte subcreativa in sé” al carattere “di stranezza e meraviglia dell’Espressione” che deriva “dall’Immagine: una qualità essenziale della fiaba”, decide di usare Fantasia.73
In sostanza Tolkien dice che Fantasia è la parola giusta per indicare la capacità di combinare le immagini ‘irreali’ (non appartenenti al Mondo Primario) ricche di stranezza e meraviglia create dal pensiero umano (Immaginazione) con la capacità di costruire racconti (Arte subcreativa che produce, raccontando, Mondi Secondari), per assicurare ad essi l’intima consistenza della realtà e precisa: “La Fantasia in questo senso è, a mio giudizio, non già una forma inferiore, bensì più elevata di Arte, anzi la forma più pura (o quasi pura) di essa, e pertanto, quando la si raggiunga, la più pregnante.”74
Ecco che, in queste poche pagine del saggio Sulle Fiabe viene sancita la nascita, se vogliamo, del concetto di Fantasy, come attributo di un genere di letteratura (e non solo) destinato a grande sviluppo nei settanta anni che seguono la stesura del Saggio.
Ancora, la Fantasia, ormai decretata da Tolkien quella funzione che crea Mondi Secondari credibili (con l’intima consistenza della realtà), non va confusa con il Sogno in cui non c’è Arte, ancor meno va confusa con illusione e allucinazione, prive addirittura del controllo; né va rovinata con ‘bellurie’ o ‘stravaganze’ o invenzioni superficiali o con un suo uso semi-serio.
Il discrimine fondamentale, senza il quale il racconto fantastico fallisce, è, in ogni caso, sempre e comunque, che riesca o meno a conseguire l’intima consistenza della realtà.
Costruire un Mondo Secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una particolare abilità, una sorta di facoltà magica. Pochi si cimentano in compiti così ardui; ma quando li si affronta e li si attua in misura maggiore o minore, si ottiene un risultato artistico senza pari: arte narrativa, insomma, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante.75
Mettendo a confronto le varie forme di Arte con la Fantasia, Tolkien separa la narrativa dalla pittura, dal dramma e dal teatro, soprattutto da quest’ultimo che Tolkien ritiene non capace di ottenere beneficio dalla Fantasia per vari motivi. L’unica variabile che potrebbe avvicinare teatro e Fantasia sono i trucchi scenici, ma sono comunque insufficienti per produrre risultati ‘credibili’ attraverso la Fantasia, e possono finire per creare una sorta di Mondo Terziario, un mondo di troppo77.
La creazione letteraria è il prodotto proprio e appropriato del lavoro della Fantasia.
Tornando allo stile iniziale in cui Feeria (abitata e costruita o vissuta dagli elfi) è vista come una realtà concreta, Tolkien, cerca di spiegare che il Mondo Secondario che con essa coincide è un luogo, è una realtà, nella quale i fruitori devono essere trasportati con una facoltà del tutto speciale (quella che riesce a conferire Credenza Secondaria) che lui chiama Incantesimo (spell) invece che Magia: “L'Incantesimo genera un Mondo Secondario nel quale possono entrare sia l'artefice sia lo spettatore, a soddisfazione dei loro sensi mentre vi si trovano; ma nella sua purezza esso è artistico quanto a desiderio e scopo.”78 Anche la Magia per Tolkien ha la capacità di operare questo ingresso in un Mondo Secondario, ma ha come scopo il potere: “La Magia produce, o finge di produrre, un'alterazione nel Mondo Primario. Non importa da chi si affermi praticata, fata o essere mortale: resta comunque distinta dalle altre due manifestazioni. Non è un'arte ma una tecnica; aspira al potere in questo mondo, al dominio di cose e volontà.”79
La Fantasia aspira allora all’Incantesimo (“alla capacità elfica”) e se riesce nel suo intento si avvicina più di ogni altra arte umana ad esso.
Ed, a sua volta, oltre a quanto già precisato, ha i seguenti attributi che non si possono apprezzare meglio che citandoli direttamente dal Saggio:
Questo desiderio creativo […] è pertanto imperituro. Incorrotto, non cerca illusioni né stregonerie o dominio; cerca un arricchimento partecipato, compagni di creazione e di godimento, non già schiavi.80
Creiamo nella legge che tali ci ha voluto.81 […] La Fantasia rimane un diritto umano: creiamo alla nostra misura e nel nostro modo derivativo perché siamo stati creati; e non soltanto creati, ma fatti a immagine e somiglianza di un Creatore.82
La Fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione; né smussa l'appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà.83
La Fantasia creativa si fonda infatti sull'ardua ammissione che le cose nel mondo esistono quali appaiono sotto il sole; su un riconoscimento dei fatti, non sulla schiavitù a essi.84
La Fantasia allora è:
capacità di raggiungere l’intima consistenza della realtà di un Mondo Secondario, con un potere equiparabile agli Incantesimi stessi di Feeria
desiderio incarnato di partecipazione alla sub-creazione sia del suo autore che dei suoi fruitori
dote insita nell’uomo in quanto fatto a somiglianza di chi lo ha creato e ha creato il Mondo Primario in cui l’uomo vive
dote che si serve con profitto della ragione e dà credito alla verità scientifica, senza recare alcuna offesa ad esse
basata sul riconoscimento della stessa realtà Primaria da cui deve saper attingere per esistere e per guadagnare la sua libertà
La Fantasia ha una sola grande contro-indicazione, a parte i casi in cui fallisce: può “essere portata all'eccesso; può essere deforme; se ne può fare cattivo uso. Può persino illudere le menti dalla quale è sortita.”85 Questa contro-indicazione però, la accomuna ad altre concezioni dell’uomo, di per sé distinte da essa: divinità deformate dalla malizia umana, teorie economiche e sociali che hanno richiesto sacrifici umani...86
A questo punto del Saggio rimangono ancora quattro caratteristiche, o attributi, o funzioni chiave delle fiabe: Ristoro, Evasione, Consolazione, Eucatastrofe. Le prime tre fanno da titolo al paragrafo che segue quello sulla Fantasia; l’ultima apre lo scenario conclusivo del Saggio con la dimensione innegabilmente cristiana dell’idea che Tolkien ha del (suo) racconto fantastico.
Il paragrafo inizia con una ‘strana’ premessa che parla, a proposito delle fiabe, di vetustà, di rischi di ripetitività, di rischi connessi con l’eccesso di analisi da parte di eventuali studiosi.
In particolare la ripetitività e l’abitudine ad ascoltare e a guardare le cose ordinarie della vita possono diventare fonti di tedio, di noia87. C’è modo di evitare questa noia, questa abitudine, questa “tediosa opacità del banale o del familiare”88, “Questo tritume […] scotto dell’appropriazione”89? Sì, c’è modo di farlo, per quanto vi siano dei rischi.
La vera strada dell'evasione da siffatto tedio non può però essere cercata nel deliberatamente goffo, maldestro o deforme, né nel rendere tutte le cose oscure o irrimediabilmente violente; e neppure nel mischiare i colori fino a raggiungere la monotonia a furia di sottigliezze, e in una fantasmagorica complicazione di forme tanto da pervenire alla scempiaggine e, più oltre ancora, al delirio. Per non raggiungere stati del genere, abbiamo bisogno di ristoro. Dovremmo guardare ancora il verde, ed essere nuovamente stupiti (ma non accecati) dall'azzurro, dal giallo, dal rosso; dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors'anche all'improvviso scorgere, al pari degli antichi pastori, pecore, cani, cavalli - e beninteso lupi. Questo ristoro, le fiabe ci aiutano ad averlo. E in questo senso, soltanto il gusto per esse può renderci o mantenerci fanciulli90.91
Come spesso è accaduto in questo lavoro, far parlare Tolkien stesso nel Saggio, è meglio di qualsiasi spiegazione. Nel brano citato si possono comunque notare alcuni sostanziali contenuti.
La ‘vittoria’ sulla noia, sulla monotonia, sull’abitudine non si ottiene: con il goffo il maldestro o il deforme, né esasperando la violenza o l’oscurità dell’ambientazione, né con disorientanti complicatissimi intrecci. Si ottiene con il ristoro, che osserva o ascolta la banalità quotidiana di eventi, cose e persone, con un rinnovato stupore conferito con l’aiuto delle fiabe
Il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Non dico « vedere le cose come sono », non voglio trovarmi alle prese con i filosofi, anche se potrei azzardarmi a dire « vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle», vale a dire quali entità separate da noi stessi. Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare - dalla possessività.92
Ancora una volta è sorprendente l’analogia con il pensiero dialogico di queste parole di Tolkien sulle fiabe. L'ordinario e l’ordinarietà che ci circondano, hanno l’effetto di annoiarci di tediarci perché li sentiamo nostro possesso e non li consideriamo più “entità separate da noi stessi”:
Questo tritume è, a ben guardare, lo scotto dell'« appropriazione»: le cose che sono trite o familiari in senso peggiorativo, sono le cose di cui ci siamo appropriati, legalmente o mentalmente. Affermiamo di conoscerle. Sono diventate quali quelle che una volta ci hanno attratto con il loro luccichio, il loro colore o la loro forma, e abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle.93
Martin Buber, in particolare, sempre in Io e Tu, osserva che il rapporto dialogico, aperto, arricchente, capace di conferire all’io la sua autonomia e di assicurare al tu la sua alterità94, rischia inevitabilmente di trasformarsi da rapporto io-tu a rapporto io-esso95. Il tu è sempre a rischio di essere visto come un oggetto di cui ci si serve o che si può gettare via; diventando così una cosa svilita di cui l’io può disporre a suo piacimento secondo intenti in fondo egoistici ed egocentrici in cui l’io solo conta.
In ogni modo, Tolkien ritiene che le fiabe abbiano tutte le carte in regola, pur non essendo le sole capaci di questo, per provvedere questo Ristoro delle esperienze del Mondo Primario attraverso la lente del Mondo Secondario.
La fantasia creativa, dal momento che tenta soprattutto di fare qualcos'altro (qualcosa di nuovo), è capace di aprire il vostro forziere e di farne volar via tutte le cose racchiusevi, come uccelli da una gabbia. Le gemme si trasformano tutte in fiori e fiamme, e vi accorgerete allora che tutto ciò che avevate (o sapevate) era pericoloso e dotato di poteri, nient'affatto saldamente impastoiato, sì anzi libero e selvaggio; e tanto poco vostro quanto quelle cose non erano voi stessi.96
L’’esso’ delle cose ordinarie della vita, attraverso la fantasia creativa torna ad essere un ‘tu’ distinto dall’’io’ egocentrico (che si impadronisce di tutto ciò che nel Mondo Primario lo circonda) e annoiato. Le cose fondamentali della natura, come i fulmini, i temporali, gli alberi, i più vari materiali, ed anche le persone se vogliamo, attraverso la fiaba tornano a mostrare la loro autonomia e la loro bellezza, leggiadria, o anche la loro oscurità e bruttezza o spaventosità.
E in effetti, le fiabe trattano in larga misura, o (le migliori) soprattutto, di cose semplici o fondamentali, non toccate dalla Fantasia, ma queste semplicità sono rese tanto più luminose dalla loro incastonatura. Ché il narratore che si permette di « agire liberamente » con la natura ne può essere l'amante, mai lo schiavo. È stato nelle fiabe che, per la prima volta, ho scoperto la potenza delle parole e la meraviglia di cose come la pietra, il legno, il ferro, la casa e il fuoco, il pane e il vino.97
Concludendo, la funzione del ristoro della fiaba è mostrare con uno sguardo rinnovato ciò che circonda il fruitore nel Mondo Primario quando la realtà primaria rischia di diventare ovvia, noiosa, priva di stimoli, oppure quando i grandi o anche piccoli fenomeni naturali perdono quell’aura di grandiosità e di mistero che avevano nel passato dell’uomo.
Tolkien li ritiene strettamente connessi, ma nel trattare l’evasione dà il meglio di sé, con la ormai molto famosa distinzione tra l’evasione del prigioniero e la fuga del disertore. “In quella che chi ne abusa ama chiamare Vita Reale, l'Evasione è chiaramente, di regola, molto positiva e può persino essere eroica.”98
È evidente che ci si trova di fronte, non solo a un abuso di parole, ma anche a una confusione di idee. Perché un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di uscirne e di tornare a casa? Oppure, se non lo può fare, se pensa e parla di argomenti diversi che non siano carcerieri e mura di prigione? Il mondo esterno non è diventato meno reale per il fatto che il prigioniero non lo può vedere. Usando Evasione in questo senso, i critici hanno scelto la parola sbagliata e, ciò che più importa, confondono, non sempre in buona fede, l'Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore.99
Il racconto fantastico in grado di aprire la mente e il cuore al Mondo Secondario che vi è rappresentato, permette di prendere sollievo dal Mondo Primario quando provoca Disgusto, Rabbia, Repulsione e Rivolta e quando spinge alla Reazione alla bruttezza e alla ripetitività (non provocata dall’abitudine, ma direttamente progettata) del Mondo Primario, dominato dall’industria e dalle fabbriche, dagli edifici imbruttiti votati alla sola efficienza e funzionalità, ma anche “dalla infelicità di cui siamo noi stessi gli autori [...] dalla bruttezza e dall’iniquità delle nostre opere”100.
C’è anche una sorta di disgiunzione tra il bello e il buono (“la bontà stessa è priva della bellezza che le è propria”101) che coinvolge gli abitanti del Mondo Primario a cui la fiaba può porre rimedio.
Poi c’è la capacità di ridare corpo alle realtà fondamentali della vita, del suo senso e dei profondi desideri che fa sorgere nell’uomo:
Ci sono però anche altre e più profonde « evasioni » che sempre hanno fatto la propria comparsa nella fiaba e nella leggenda. Ci sono altre cose, più cupe e terribili da cui fuggire, che non il frastuono, il puzzo, la spietatezza e l'assurdità del motore a combustione interna. Ci sono fame, sete, povertà, dolore, sofferenza fisica, ingiustizia, morte. E anche quando gli esseri umani non si trovano alle prese con eventi altrettanto angosciosi, ci sono antiche limitazioni dalle quali le fiabe offrono una sorta di evasione, e vecchie ambizioni e desideri (che toccano le radici stesse della fantasia) ai quali le fiabe offrono una sorta di soddisfazione e consolazione.102
L’evasione del prigioniero, ha dei contenuti positivi, ridà senso e corpo alle realtà fondamentali della vita e realizza molti desideri che nel Mondo Primario sarebbero impossibili da realizzare; quindi assolve la funzione di cui Tolkien aveva già parlato a proposito di fiabe e bambini. Il desiderio accomuna bambini e adulti nel piacere che provano quando leggono fiabe capaci di conferire l’intima consistenza della realtà al mondo ‘feerico’ che rappresentano.
A parte tutti i vari generi di evasione e di desideri che si trovano nelle fiabe, c’è un evasione e desiderio “più antico e profondo [...] la Grande Evasione: l'Evasione dalla Morte.”103 Questa evasione viene sorprendentemente (...se non si trattasse di Tolkien) mostrata nella sua speculare evasione dall’immortalità degli elfi quali abitanti di Feeria e narratori:
Le storie di Uomini narrate dagli Elfi sono indubbiamente ricolme di Fuga dall'Immortalità. Quanto alle nostre, se non ci si può aspettare che si elevino sempre al di sopra del nostro usuale livello, esse tuttavia spesso lo fanno. Poche lezioni vi sono impartite con maggior chiarezza di quelle sul peso di quel genere di immortalità, o meglio serie infinita di esistenze, di cui il "fuggitivo" vorrebbe fare la propria meta 104
Parlando della fuga dalla mortalità (e dall’immortalità) Tolkien entra nell’ultimo attributo o carattere della fiaba. Accanto all’evasione/consolazione della morte, Tolkien aggiunge l’altra, più importante ancora, consolazione:
Ben più importante è la Consolazione del Lieto Fine, al punto che quasi quasi mi azzarderei ad affermare che tutte le fiabe completamente tali dovrebbero averlo. […] E, poiché a quanto pare non disponiamo di una parola che possa esprimere tale opposto, lo chiamerò eucatastrofe. Il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione.105
Il lieto fine, che Tolkien chiama eucatastrofe, “«buona catastrofe», l’improvviso «capovolgimento» gioioso (perché in realtà nessuna fiaba ha una fine vera e propria)”106 è essenziale per la fiaba, diventa un altro fattore determinante (da mettere, per esempio, accanto alla capacità di conferire l’intima consistenza della realtà) perché un racconto fantastico possa essere riconosciuto come tale.
La fiaba deve terminare bene, in modi improvvisi e gioiosi: “essa è una grazia improvvisa e miracolosa; non c’è da far conto che possa ripresentarsi”107. Deve conferire oltre al ristoro, all’evasione, alla consolazione, anche la gioia, ed una gioia improvvisa. Ma, non può essere una fine definitiva, perché “nessuna fiaba ha una fine vera e propria”, e non può smentire l’esistenza del fallimento:
Questo non smentisce l'esistenza della discatastrofe, del dolore e del fallimento: la loro possibilità è anzi necessaria alla gioia della salvazione; smentisce però, nonostante le molte apparenze del contrario, l'universale sconfitta finale, e pertanto è evangelium, in quanto permette una fugace visione della Gioia, Gioia al di là delle mura del mondo, acuta come un dolore.108
Tolkien arriva a dire che se si verifica il capovolgimento gioioso che ha effetto concreto sul fruitore della narrazione, fino a portalo ad un sobbalzo del cuore, a un’interruzione del respiro, ed al pianto109, un racconto non può dirsi del tutto non riuscito. Quindi si potrebbe dire il carattere del lieto fine risulta addirittura di maggior rilievo rispetto ad ogni altra funzione della fiaba; eccettuata, forse, l’intima consistenza della realtà, che, nel caso in cui non venga ottenuta, è ben difficile che coinvolga il lettore fino al sobbalzo del cuore, all’interruzione del respiro o al pianto.
Prima di arrivare all’epilogo, cercherò di fare una sintesi dei paragrafi appena discussi (Evasione e Consolazione), e poi di raccogliere tutti gli elementi finora presi in considerazione per delineare gli attributi delle fiabe secondo Tolkien.
Insieme con il Ristoro, capace di far vedere con occhi rinnovati la realtà apprezzando la meraviglia che è nascosta nella banalità o nelle banalizzazioni del Mondo Primario, c’è bisogno di Evasione, di riuscire con la fiaba ad eseguire il giudizio di condanna su tutto ciò che nel Mondo Primario vessa, opprime, angustia, soffoca la vita dell’uomo ed a dar corpo ai desideri più profondi degli esseri umani che nella realtà primaria sono per forza di cose destinati ad essere smentiti. La narrazione
Ma Ristoro ed Evasione senza un Mondo Secondario credibile che possiede l’intima consistenza della realtà, non hanno efficacia. Per avere questa indispensabile intima consistenza della realtà sono necessari poi: un linguaggio capace di conferirla, un calderone ben fornito di sapidi materiali antichi per fare una minestra adatta ed un cuciniere capace di scegliere e dosare gli ingredienti per servire un piatto appetitoso e coerente in sé stesso.
La fiaba infine deve avere un lieto fine, inteso come capovolgimento gioioso, imprevisto e improvviso, una fiaba senza un’eucatastrofe manca del fattore essenziale. A tal punto, dicevamo, che se gli altri attributi (esclusa l’intima consistenza della realtà, abbiamo osservato) non sono del tutto convincenti o efficaci, ma vi è un lieto fine che ‘funziona’, il racconto fantastico non può dirsi non riuscito del tutto.
Ecco un primo elenco di quanto visto finora, più o meno in 'ordine di apparizione' nel saggio, separando i fattori che escludono la narrazione dalla sua connotazione fantastica.
Fattori escludenti |
Fattori includenti |
Storie di animali antropomorfizzati |
1) Attinente a Feeria, al mondo secondario |
Storie di viaggi |
2) Soddisfazione di alcuni desideri e aspirazioni umane |
Meccanismo del sogno |
Vetustà, abisso temporale, uscio su un altro tempo |
Senza una debita distanza spazio/temporale dal narratore e dal fruitore |
Utilizzo ponderato della realtà primaria immersa nel calderone del mito |
Racconto esclusivamente per bambini |
Credito alla ragione e alla verità |
Incapacità di indurre credenza secondaria |
Riconoscere la realtà Primaria come fonte, ma non scambiarla con e per la realtà Secondaria |
Qualità artistica scarsa |
3)Induzione di credenza secondaria, attraverso il conferimento dell'intima consistenza della realtà |
Bando a ciò che deriva da illusioni o allucinazioni, privo di controllo |
Linguaggio, utilizzato come strumento indispensabile |
Bellurie e stravaganze oppure goffo, maldestro o deforme |
Ristoro dalla e della realtà primaria |
Invenzioni superficiali |
Trattare di cose semplici e fondamentali |
Uso semi-serio della fantasia |
Evasione dalla realtà primaria, dai suoi limiti e dalle sue brutture |
Eccessi nel goffo, nel deforme, nella violenza e nell’oscurità, in sottigliezze, in fantasmagoriche complicazioni |
Consolazione improvvisa, gioiosa, inaspettata del lieto fine |
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Tuttavia è necessario fare anche una gerarchia di attributi ed esigenze di una narrazione avente il carattere di fiaba secondo il metro di Tolkien.
1) Attinente a Feeria, ad un Mondo Secondario capace di stare in piedi da solo (3)) secondo il metro degli abitanti del Mondo Primario. Per questa esigenza sono necessari i seguenti ingredienti:
a) Materiale radicato in qualche forma nel Mondo Primario
b) Linguaggio adeguato e capace di raccontare Feeria in modo attraente
c) Credito alla ragione e alla verità nel dipanarsi delle vicende narrate, che si possa tradurre in capacità di conferimento dell’intima consistenza della realtà.
d) Mantenere una debita distanza spazio/temporale dalla Realtà Primaria del fruitore.
e) Non appoggiare eccessivamente l’ambiente del mondo secondario su bellurie, stravaganze, goffaggini, deformità, oscurità e violenza, sottigliezze, fantasmagoriche complicazioni.
f) Escludere l’uso semi-serio della fantasia e invenzioni superficiali.
g) Non appoggiare la creazione secondaria su ciò che deriva da illusioni o allucinazione, privo di controllo
2) Capace di soddisfare alcuni desideri e aspirazioni umane
a) Concedere il beneficio della consolazione improvvisa, gioiosa, inaspettata con il lieto fine
b) Suscitare ristoro dalla e della realtà umana
c) Permettere una forma di evasione dai limiti e dalle brutture della realtà primaria
d) Non essere soddisfazione specifica di desideri dei bambini
e) La storia di un viaggio non può essere considerata elemento portante del racconto
f) Non consistere in umanizzazione di animali
g) Escludere i meccanismi del sogno
Partendo dalla ‘gioia’ e dal ‘lieto fine’ che quella produce nella “vera fiaba (o racconto fantastico)”110, Tolkien propone la sua visione cristiana dell’uomo creatore e del Mondo Primario (e di quello Secondario) in cui vive e in cui è protagonista a vario titolo.
Ogni scrittore che crei un mondo secondario, una fantasia, ogni subcreatore, probabilmente desidera in parte almeno essere un creatore effettivo, o almeno spera di attingere alla realtà: spera che l'essenza propria di questo mondo secondario (se non ogni suo particolare) derivi dalla realtà oppure a essa confluisca. Se riesce ad attingere a una qualità che possa essere a ragion veduta fatta coincidere con la definizione del dizionario, « intima consistenza della realtà », è difficile capire come potrebbe accadere se, in qualche modo, l'opera non partecipasse della realtà.111
I Mondi Secondari ben costruiti, quelli che posseggono l’intima consistenza della realtà, sono già un approdo ideale per il narratore (per l’artista), dato che sono la realizzazione del suo desiderio; perché l’artista, il subcreatore “probabilmente desidera in parte almeno essere creatore effettivo, o almeno spera di attingere alla realtà; spera che l’essenza propria di questo mondo secondario (se non ogni suo particolare) derivi dalla realtà e ad essa confluisca”112. Se quel Mondo Secondario risulta vero, l’artista avrà raggiunto il suo obiettivo.
Ma è possibile fare un ulteriore passo, per Tolkien: se il racconto si conclude con l’eucatastrofe, è possibile che essa possa essere: “un lontano barlume o un’eco dell’evangelium nel mondo reale”113.
Quindi, l’autore del racconto ambientato nel Mondo Secondario, per essere convinto della sua opera e convincente, deve creare conferendo l’intima consistenza della realtà, deve desiderare e far desiderare che quel mondo e quel racconto partecipino del Mondo Primario e, per di più, attraverso l’eucatastrofe può darsi che riveli un “barlume o un’eco dell’evangelium del mondo reale”114.
L’ultimo passaggio del saggio Sulle Fiabe, si può considerare allora una convinta esternazione della fede di Tolkien e del legame che secondo lui esiste tra la rivelazione cristiana del Mondo Primario e le leggende dei Mondi Secondari. Egli lega, mediante l’arte narrativa del racconto fantastico, la vicenda considerata reale (da lui e dai cristiani) dei Vangeli, appartenente al Mondo Primario e narrata in modo mirabile, con ogni vicenda narrata (bene e con i criteri da lui suggeriti) nei Mondi Secondari. E questo legame diventa più stretto specialmente nel “lieto fine”: “il Vangelo non ha abrogato le leggende; le ha santificate, e ciò vale soprattutto per il «lieto fine»”115. Il lieto fine non contraddice tuttavia l’agire, l’”operare con la mente come con il corpo, soffrire, sperare, morire”, ma assegna a queste condizioni un termine, “uno scopo, che può essere redento”116; la redenzione è capace di elevare anche i racconti come fa con l’uomo caduto e contribuire infine “al dispiegarsi e al molteplice arricchimento della creazione”117.
A conclusione di quest’excursus sui criteri per definire una narrazione, racconto fantastico (fiaba, usando l’insufficiente terminologia utilizzata in italiano), secondo Tolkien, cercherò ora di rispondere all’esigenza indicata nell’introduzione del presente lavoro, che riporto a seguire.
“Intendo [solo] dare uno strumento per poter selezionare tra le creazioni letterarie (cinematografiche o televisive o anche teatrali118, se vogliamo) oggi ormai generalmente classificate come Fantasy, quelle che si possono considerare di carattere tolkieniano”.
Prendendo come riferimento lo specchietto già approntato e commentato nelle pagine precedenti, credo che possa essere efficace per lo scopo prefissato stabilire una serie di domande da porre alle creazioni Fantasy che troviamo ormai in gran quantità e in svariate forme nel panorama culturale degli ultimi quaranta-cinquant’anni.
Abbiamo visto che vi è una gerarchia nelle esigenze cui deve rispondere un racconto fantastico per essere definito in qualche forma o modo ‘tolkieniano’.
Le principali esigenze e caratteristiche emerse, messe in forma di domanda sono:
1) È attinente a Feeria, ad un Mondo Secondario non di carattere prettamente tecnologico, che coinvolga creature della fantasia umana affioranti dal Pentolone del Mito?
2) Provvede a soddisfare alcuni profondi desideri e aspirazioni umane, in relazione anche con la natura o con l’ambiente naturale (vero o subcreato)?
3) Possiede l’intima consistenza della realtà in grado di far scaturire credenza secondaria?
Dopo la risposta alle domande sopra esposte, si potrà scendere più nel dettaglio ricorrendo ai punti indicati in precedenza con le lettere alfabetiche a), b), c), ecc.
A partire da 1) e 3)
a) Si tratta di materiale radicato in qualche forma nel Mondo Primario?
b) Possiede un linguaggio adeguato e capace di raccontare Feeria in modo attraente?
c) Dà credito alla ragione e alla verità, nel dipanarsi delle vicende narrate, che si possano tradurre in capacità di conferimento dell’intima consistenza della realtà?
d) Mantiene una debita distanza spazio/temporale dalla Realtà Primaria del fruitore?
e) Non appoggia eccessivamente l’ambiente del mondo secondario su bellurie, stravaganze, goffaggini, deformità, oscurità e violenza, sottigliezze, fantasmagoriche complicazioni?
f) Esclude l’uso semi-serio della fantasia e invenzioni superficiali?
g) Non appoggia la creazione secondaria su ciò che deriva da illusioni o allucinazioni, prive di controllo?
A partire invece da 2) “Desideri umani”
a) Concede il beneficio della consolazione improvvisa, gioiosa, inaspettata con il lieto fine?
b) Suscita ristoro dalla e della realtà umana?
c) Permette una forma di evasione dai limiti e dalle brutture della realtà primaria?
d) Non procura soddisfazione solo specifica dei desideri dei bambini?
e) La storia di un viaggio non è considerata elemento portante del racconto?
f) Non consiste in umanizzazioni di animali?
g) Esclude i meccanismi del sogno?
In aggiunta, al termine delle domande proposte, credo che si possa completare il quadro delle caratteristiche della fiaba (del Racconto Fantastico), pur con la riserva che Tolkien stesso esprime119, con una domanda sulla capacità della fiaba considerata di far intravedere quella che è considerata da Tolkien “una sfaccettatura di una verità incalcolabilmente ricca, e finita solo perché è finita la capacità dell'Uomo per il quale ciò fu fatto”: la verità trasmessa dalla rivelazione cristiana dei Vangeli.
A questo punto sarebbe forse doveroso provare qualche applicazione della precedente serie di domande. Dato che certamente l’applicazione di uno strumento così concepito, secondo criteri estrapolati dal saggio Sulle Fiabe di Tolkien, dovrebbe essere parte integrante di una valutazione sulla sua efficacia e qualità.
Ma credo che sia più urgente, prima di mettere alla prova concretamente il metodo, determinare se sia adeguatamente giustificato il passaggio dal testo del saggio Sulle Fiabe al metodo di analisi proposto.
Dunque intendo fermarmi a questo punto, e chiedere a chi ne avesse qualche interesse, di valutare:
- se è ammissibile proporre un siffatto metodo,
- se è di qualche utilità svilupparlo
- e soprattutto, se la sua costruzione e articolazione e abbia sufficiente fondamento nel testo tolkieniano.
Per quanto mi riguarda, se non lo reputassi (a questo punto) ammissibile, se non considerassi utile svilupparlo, e se non pensassi che la sua strutturazione abbia fondamento nel testo Sulle Fiabe, non avrei avuto il desiderio di svilupparlo e di proporlo.
Quindi ora lascio la parola a chi è interessato a qualche aspetto del presente lavoro, disponibile a discuterne e ad affinarne l’eventualmente utile articolazione e stesura. eventualmente
Facciamo alcuni esempi dal panorama artistico recente definito generalmente con il termine Fantasy.
La “saga” di Harry Potter della Rowling.
1) È attinente a Feeria? Si parla di un mondo magico parallelo a quello reale attuale, con moltissime creature, pur reinventate, della tradizione dei miti e delle leggende del passato umano. Sì.
Non è un mondo prettamente tecnologico? La tecnologia è quella attuale, ma essa è posta a margine delle attività e delle relazioni dei principali protagonisti dei racconti. Sì.
Coinvolge creature raccolte dal pentolone del mito? Come detto sopra. Sì.
2) Provvede a soddisfare alcuni profondi desideri e aspirazioni umane? I protagonisti possono comunicare con animali, possono volare, possono viaggiare liberamente per il mondo, ecc.. Sì.
3) Possiede la capacità di far scaturire credenza secondaria? Questo fattore, si deve ammettere, ha un carattere fortemente soggettivo. Se si prende, tuttavia, come verifica, il successo della narrazione, supponendo che tale successo sia dovuto anche in modo rilevante alla capacità di conferire credenza secondaria; sì.
1Userò la traduzione italiana di più agevole utilizzo per un lavoro scritto in italiano, ma, se necessario, farò eventuali precisazioni riferite all’originale inglese.
2L’uso di ‘fiabe’ nel titolo italiano come è noto, rischia di fuorviare il lettore. In italiano, il temine 'fiaba', vedremo dal significato che gli viene attribuito, tende a coincidere in poco con l’inglese fairy-story; per questo, nel corso del lavoro considererò fiaba come sinonimo di narrazione fantastica o racconto fantastico.
3J.R.R. Tolkien, Albero e Foglia, Rusconi Libri S.p.A., Milano 1989 (d'ora innanzi, per brevità, nelle citazioni userò soltanto il titolo del libro: Albero e Foglia, seguito dal numero di pagina).
4Scritta da Christopher Tolkien, uno dei figli del nostro autore che ha dedicato gran parte della propria vita a raccogliere, catalogare, preparare per la stampa e supervisionare la pubblicazione di tutti gli scritti di suo padre a partire dalla sua morte.
5“«Il saggio fu inizialmente scritto per la Andrew Lang Lecture e fu letto in forma abbreviata alla University of St. Andrew nel 1938”, Albero e Foglia, p. 6.
6Cfr. Albero e Foglia, p. 6.
7Chi conosce Tolkien, sa bene che uno dei concetti più importanti della sua teoria del racconto fantastico (di ogni creazione artistica umana) è quello della sub-creazione, o creazione secondaria, o mondo secondario: Dio è l'unico creatore dell'universo e dell'uomo, ma l'uomo, a imitazione del suo creatore (in quanto fatto a Sua immagine e somiglianza), non può sopprimere il proprio desiderio di creare a sua volta, anche se usando 'materiale' che può trovare solo nella creazione (creazione primaria o mondo primario) (cfr. Albero e Foglia, pp. 50-51).
8Per brevità e per facilitare la lettura, d’ora in avanti utilizzerò il termine ‘saggio’ quando non seguito da ‘Sulle Fiabe,’ nella forma ‘Saggio’, quindi con la s maiuscola e in corsivo come fosse il titolo.
9Con un’avvertenza, che il teatro, per Tolkien, come vedremo, non ha che ben poco da spartire con le narrazioni fantastiche.
10Albero e Foglia, pp. 13-14. D'ora innanzi, non citerò neppure il titolo del testo, dato che sarà chiaro che ogni volta che citerò un numero di pagina farò riferimento al saggio Sulle Fiabe come compare in Albero e Foglia, nell'edizione a cui faccio riferimento.
11p. 14.
12p. 18.
13Id.
14p. 21.
15p. 22. È curioso, se guardiamo alla storia dei giochi (di società, da tavolo, e poi per computer) dopo la morte di Tolkien, che Tolkien qui parli di 'scopo' del 'gioco fantastico'; viene oggi spontaneo pensare, a questo proposito, all'esplosione dei cosiddetti Giochi di Ruolo ad argomento fantastico a cui si è assistito da allora e che è ancora in corso nel corrente anno 2019.
16Cfr. p. 23.
17p. 25.
18Id.
19Id.
20Id. nell'originale l'espressione è questa: “to hold communications with other living things”.
21Tolkien fece anche due tentativi di transizioni dal mondo reale a Feeria, cercando di 'aggirare' il 'meccanismo del sogno', ma entrambi fallirono (per lo meno non furono terminati, rimasero come sospesi, e non può escludere proprio per una sorta di ‘difetto di fabbricazione’): The Lost Road (nel quinto volume di History of middle-earth: J.R.R. Tolkien - curato da suo figlio Christopher Tolkien -, The Lost road and other writings, George and Allen Unwin, UK 1987) e The Notion Club Papers (nel nono volume di History of Middle-Earth: J.R.R. Tolkien - curato da suo figlio Christopher Tolkien -, Sauron Defeated, George and Allen Unwin, UK 1992).
22p. 28. A questo proposito non si può che prendere atto che, per esempio, i cartoons degli anni ruggenti di Walt Disney, sono esclusi in blocco. Come sono esclusi gran parte dei cartoons anche successivi in cui gli animali sono e si comportano come umani. Un paio di esempi a caso: le Tartarughe Ninja, o Kung Fu Panda. Come anche, se vogliamo, i più recenti lavori cinematografici in computer grafica pur sempre più sofisticata, un esempio per tutti: Re Leone del 2019.
23p. 30.
24Id.
25p. 32.
26Cfr. p. 34.
27p. 34.
28p. 33.
29p. 35.
30Cfr. nel testo l’esclamazione: “E quanto possente, quanto stimolante per la facoltà stessa che l'ha prodotto, è stata l'invenzione dell'aggettivo!”, id.
31p. 36.
32Id.
33Cfr. pp. 37-40.
34Cfr. p. 38.
35p. 39.
36Id.
37p. 40.
38Una rapida occhiata alla cronologia della vita di Tolkien, ad esempio come è riportata in H Carpenter, J.R.R. Tolkien - La biografia, Fanucci Editore, Roma 2002, pp. 336-337, conferma pienamente questa coincidenza.
39Opere chiave del loro pensiero, sono rispettivamente: Io e Tu (Buber), La Stella della Redenzione (Rosenzweig), Frammenti Pneumatologici e altre raccolte di scritti non sistematici (Ebner)
40Cfr., per una approfondita e ottima analisi del pensiero dialogico: Bernhard Casper, Il pensiero dialogico - Martin Buber, Franz Rosenzweig e Ferdinand Ebner, Morcelliana, Brescia 2009.
41Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1993 (quarta edizione 2004), p. 62.
42Cfr. pp. 41-49.
43p. 41.
44p. 43.
45pp. 43-44.
46p. 44.
47p. 46.
48p. 47.
49Quindi comprendendo anche ad esempio, le religioni, le ideologie, le credenze che l’uomo presenta al suo prossimo.
50p. 49.
51p. 50.
52Tolkien si diffonderà nel parlare della sua personale esperienza di bambino nelle pagine successive come di una fonte attraverso la quale valutare il valore delle fiabe, cedendo a mio parere a un certo soggettivismo.
53Cfr. p. 51.
54p. 50.
55Cfr. p. 52, questi due fattori vengono da Tolkien presi da una 'tesi' di Andrew Lang, autore di libri di fiabe.
56Più avanti (p. 55) Tolkien dirà. “Si potrà replicare che è più facile compiere l'incantesimo con bambini, e forse è così, benché io non ne sia affatto certo. Che così sembri è sovente, secondo me, un'illusione degli adulti frutto della subordinazione dei bambini, della loro mancanza di esperienza critica e della povertà del loro vocabolario, oltre che della loro voracità (proporzionata alla loro rapida crescita). Ai bambini piace, o cercano di farsi piacere, quel che vien loro dato: se invece non gli va a genio, non sono in grado di esprimere in maniera appropriata la loro disapprovazione, di darne conto (e così riescono a nasconderla); e ai bambini piace un mucchio di cose disparate, che accettano indiscriminatamente, senza che si preoccupino di analizzare i vari piani della loro”.
credulità.
57L’esistenza di Babbo Natale o della Befana, sono esempi di questa inesperienza dei bambini nel soppesare ciò che è reale (nella realtà primaria) e ciò che non lo è (o lo è nella realtà secondaria, quella subcreata dal narratore di fiabe).
58p. 53.
59Sto usando questo termine per la prima volta, preciso quindi che per 'mitopoiesi' si intende la costruzione del mito, del racconto fantastico e i criteri e gli strumenti di cui si serve un autore per crearlo. Mitopoieia (p. 141-146) è anche il titolo di uno dei due poemi che troviamo in Albero e Foglia, che tratta proprio delle sub-creazioni e dei sub-creatori.
60Ricordo che sto usando indifferentemente i termini fiaba e racconto fantastico per significare la stessa cosa, la fairy-tale.
61p. 54.
62Vedasi ancora la nota a piè pagina n. 50.
63p. 58.
64p. 59.
65Cfr. p. 59-64.
66p. 64.
67Id.
68Cfr. ‘Immaginazione’ nel vocabolario Treccani online: “1. Particolare forma di pensiero, che non segue regole fisse né legami logici, ma si presenta come riproduzione ed elaborazione libera del contenuto di un’esperienza sensoriale, legata a un determinato stato affettivo e, spesso, orientata attorno a un tema fisso; può dar luogo a una attività di tipo sognante (come nei cosiddetti «sogni a occhi aperti»), oppure a creazioni armoniose con contenuto artistico (i. artistica), o anche, con un meccanismo che si riallaccia all’intuizione, a conclusioni ricche di contenuto pratico; con definizione più generica, la facoltà di formare le immagini, di elaborarle, svilupparle e anche deformarle, presentandosi in ogni caso come potenza creatrice”. http://www.treccani.it/vocabolario/immaginazione/ (9/01/2017)
69Cfr. ‘Fantasia’ nel vocabolario Treccani online: “ 1. a. Facoltà della mente umana di creare immagini, di rappresentarsi cose e fatti corrispondenti o no a una realtà: […] b. L’attività del fantasticare: com’io fui levato d’una vana f. (Dante); perdersi in fantasie; era assorto nelle sue f., in liete f.; inseguire una propria f.; lavorare di fantasia, immaginare o supporre, o anche sospettare, situazioni prive di realtà, lasciando libero corso alla fantasia; frutto di f., cosa inventata con l’immaginazione, che non ha fondamento nella realtà: i suoi sospetti sono tutti frutto di f. o della sua fantasia. Talvolta è implicitamente contrapposta alla realtà o verità: un racconto di f., che non ha fondamento reale; così, nella pratica delle arti figurative, fare (disegnare, dipingere, modellare) di f., eseguire figure senza ricorrere a modelli o al vero. In psicanalisi, attività immaginativa, conscia o inconscia, su cui l’analista compie le sue interpretazioni: [...]”. http://www.treccani.it/vocabolario/fantasia/ (9/01/2017).
70p. 65.
71Tolkien, J. R. R., ‘On Fairy-Stories.’ In The Monsters and the Critics and Other Essays, edited by Christopher Tolkien, pp. 109-161. London: George Allen and Unwin, 1983, p. 138.
72p. 66.
73Citazione e cfr.: p. 66.
74pp. 66-67.
75p. 68.
76Cfr. p. 68-72.
77Cfr. p. 71.
78p.73.
79Id.
80p.74.
81p. 75.
82p. 76.
83p. 75.
84Id.
85p. 76. A questo proposito mi permetto di rinviare al seguente articolo da me redatto: Alberto Quagliaroli, Mondo Primario e Mondo Secondario: sovrapposizioni e separazioni, online su academia.edu, in: https://www.academia.edu/30111858/MONDO_PRIMARIO_E_MONDO_SECONDARIO_SOVRAPPOSIZIONI_E_SEPARAZIONI (11/01/2017).
86Cfr. Id.
87Cfr. p. 78.
88p. 79.
89Id.
90N.d.r. Da notare qui una specie di rivalutazione della fanciullezza, prima separata così recisamente dalle fiabe.
91p. 78.
92pp. 78-79.
93p. 79.
94C’è da precisare che Buber, a questo proposito, parla dei rapporti tra gli esseri umani, non tra uomo e mondo.
95Cfr.
96p. 80.
97p. 81.
98p. 82.
99Id.
100p. 87.
101p. 87.
102p. 88.
103p. 90.
104p. 91, la traduzione italiana: “i racconti umani sugli elfi sono indubbiamente ricolmi della Fuga dall'Immortalità; dall'Immortalità; ma non ci si può aspettare che i nostri racconti sempre si elevino al di sopra del nostro usuale livello, anche se spesso lo fanno. Poche lezioni sono da esse impartite con altrettanta chiarezza quanto quella del peso di un tal genere di immortalità, o piuttosto di una serie senza fine di esistenze, alla quale il « fuggiasco » vorrebbe sottrarsi.”, p. 91, è errata; e quindi nel testo ho riportato una traduzione corretta. Originale inglese: “The Human-stories of the elves are doubtless full of the Escape from Deathlessness. But our stories cannot be expected always to rise above our common level. They often do. Few lessons are taught more clearly in them than the burden of that kind of immortality, or rather endless serial living, to which the “fugitive” would fly.”
105p. 91.
106p. 92.
107p. 92.
108Id.
109Cfr. Id.
110p. 94.
111pp. 94-95.
112 p. 94.
113p. 95.
114Ibidem.
115p. 97.
116Ibidem.
117Ibidem.
118Con un’avvertenza, che il teatro, per Tolkien, come vedremo, non ha che ben poco da spartire con le narrazioni fantastiche.
119“Ma l'« eucatastrofe » ci rivela, subitaneamente, che la risposta può essere più estesa: un lontano barlume o un'eco dell'evangelium nel mondo reale. L'uso di questa parola fa intravedere la mia conclusione. Si tratta di un argomento grave e rischioso, e da parte mia è presuntuoso toccare un tema del genere; ma, se per caso quanto dico ha, sotto qualsivoglia rispetto, una certa validità, naturalmente è solo una sfaccettatura di una verità incalcolabilmente ricca, e finita solo perché è finita la capacità dell'Uomo per il quale ciò fu fatto.
Mi azzarderei ad affermare che, accostandomi alla Vicenda Cristiana sotto quest'angolazione, a lungo ho avuto la sensazione (una sensazione gioiosa) che Dio abbia redento le corrotte creature produttrici, gli uomini, in maniera adatta a questo come pure ad altri aspetti della loro singolare natura. I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l'intera essenza delle fiabe.”, pp. 95-96.