Allegoria contro Rimbalzo: (Metà di) uno scambio su “Il fabbro di Wootton Major”1



di Tom Shippey



( traduzione di Simone Bonechi di Allegory vs. Bounce: (Half of) an Exchange on “Smith of Wootton Major” , da “Roots and Branches. Selected Papers on Tolkien by Tom Shippey”, Zollikofen, Walking Tree Publishers, 2007; pp. 351-364 )





I miei commenti prendono l'avvio dall'affermazione fatta da Roger Lancelyn Green in una recensione di Fabbro poco dopo la sua pubblicazione. - un'affermazione avallata da Tolkien e citata con approvazione dalla Dottoressa Flieger, e da altri.2 La parafrasi che Dottoressa Flieger fa di Green è la seguente:



Green osservava che gli effetti della storia trascendono ogni esplicito rimando e metteva in guardia dal cercare con troppa insistenza un messaggio specifico. Egli scriveva a questo proposito che “Riercare il significato equivale a tagliare la palla in cerca del suo rimbalzo.” Questa affermazione potrebbe rivelarsi la miglior sintesi del fascino che il racconto esercita. Il rimabalzo è lampante che c'è, ma cercarlo equivale a farne fallire l'effetto; renderlo in allegoria equivale a smorzare del tutto il rimbalzo.3



Accetto la parafrasi della Flieger, ma rifiuto la metafora di Green. Ancora più importante, se con “rimbalzo” si intende qui “ciò che rende la storia piacevole, qualunque cosa sia”, allora posso testimoniare che per quanto mi riguarda l'ultima frase della Flieger, “renderlo in allegoria equivale a smorzare del tutto il rimbalzo”, non corrisponde affatto alla mia esperienza. Molto del piacere che traggo dalla storia viene dal rintracciarne l'allegoria. E questo non cessa, ma aumenta con le ri-letture e le ri-cerche. La metafora di Green, per usare un'altra metafora, mi sembre sia come dire: “metti quella palla sul camino e per amor di Dio non farla rimbalzare, perché si rompe!” Ma non si rompe, o per lo meno non quando io la faccio rimbalzare.

Non ho alcun desiderio, pertanto, di provare a confutare la lettura della Dottoressa Flieger, ma devo registrare che la mia esperienza non corrisponde alla sua. Stiamo chiaramente leggendo lo stesso testo (e non credo che nessuno di noi due abbia molta tolleranza per le mistiche nozioni che sostengono che non esiste una cosa come “lo stesso testo”), ma non lo leggiamo allo stesso modo. Ciò deriva da differenti presupposti iniziali? Diverse aree del sapere? O forse lo leggiamo in modo diverso a un livello puramente meccanico, nella maniera in cui i nostri occhi si muovono e noi acquisiamo le parole?

Comincio con una semplice possibilità: forse abbiamo visioni differenti dell'allegoria. Che cos'è una “allegoria”? Questa domanda, come quasi tutto ciò che ha a che fare con le definizioni, venne posta ai Quattro Saggi di Oxenford4 e come per “schioppo” la loro risposta non è di particolare aiuto; il nocciolo di essa dice: “una narrazione figurativa (…) nella quale proprietà e circostanze attribuite al soggetto apparente, in realtà si riferiscono al soggetto che si intende debbano suggerire,” una definizione che lascia perplessi in merito al significato di locuzioni come “in realtà” e “si intende”.5 Trovo più utile rifarmi alla teoria e alla pratica di Tolkien stesso, e queste sono, ad una prima apparenza, incompatibili. Tolkien scrisse, per esempio: “io detesto l'allegoria in tutte le sue manifestazioni e l'ho sempre fatto sin da quando sono diventato abbastanza grande e accorto da individuarne la presenza.”6 Esito a dire che questo non è vero (come affermato prima, non puoi dire alle persone ciò che gli piace o non gli piace), ma il fatto è che Tolkien era una sorta di allegorista seriale. Molta della forza dell'esordio della sua famosa lezione “Beowulf: i Mostri e i Critici” viene da tre brevi allegorie poste in sequenza: il Beowulf visto come un neonato al cui battesimo una fata (Poësis) non è stata invitata; la critica del Beowulf vista come una Babele di lingue e, la più importante ed estesa, l'allegoria del Beowulf come una torre. Tolkien esplicitamente indica questo lungo paragrafo come “ancora un'altra allegoria”, e dice, verso la fine di questa, “spero che riuscirò a mostrare come quella allegoria sia giusta.”7

L'idea di “giustezza” mi sembra importante, e forse spiega la contradditizone rilevata sopra. Nel modo di vedere di Tolkien, l'allegoria è essenzialmente una serie di equivalenze. Ogni elemento della narrativa superficiale deve corrispondere ad un elemento del significato non esplicito e tutti questi elementi devono tenersi assieme fra loro nella maniera più coerente possibile. Fu questo modo di vedere le cose che lo portò a rifiutare l'idea che Il Signore degli Anelli fosse un'allegoria della Seconda Guerra Mondiale (con l'Anello come corrispettivo del potere atomico). Se effettivamente fosse stato così, sottolineò sdegnosamente in un paragrafo della già citata “Prefazione”, l'Anello non sarebbe stato distrutto, sarebbe stato usato; Saruman sarebbe stato messo in grado di creare il proprio Anello; e così via. I dilettanti che mettevano in allegoria la sua opera, pensava Tolkien, non conoscevano il loro mestiere. La loro allegoria non era “giusta”. Tolkien, invece, nella lezione sul Beowulf il suo mestiere lo conosceva bene. Ogni elemento nella allegoria della “torre” ha perfettamente senso se tradotto nel contesto della critica al Beowulf, e altrettanto (credo) succede per ogni elemento della allegoria di “Babele”.8 Anche il significato delle allegorie è perfettamente chiaro. Esse funzionano come una reductio ad absurdum: l'immagine dei critici indaffarati che distruggono la torre, e poi si lamentano per lo stato caotico in cui si ritrova, dicendo che comunque il costruirla è stata un'idea stupida, è evidentemente assurdo, ma ha una forte somiglianza a ciò che i critici tedeschi del poema effettivamente fecero. Non pensavano che ciò che stavano facendo fosse assurdo, ma l'allegoria di Tolkien cerca di convincerci che lo fu. L'allegoria usata in queto modo, come si vede, è una maniera di semplificare e argomentare.

Ciò l'ha resa impopolare fra i moderni termini critici. Oggigiorno ciò a cui si dà valore sono complessità, diversità, dialogismo, significati plurimi, libertà di interpretare il testo inesauribile (ecc.), e l'allegoria, con le sue corrispondenze univoche e la sua stringente disciplina, è vista come limitata e pedante. Nella “Prefazione” già menzionata, Tolkien la pone in opposizione alla “applicabilità”, rileva che molti confondono i due concetti, ed esplicita la loro distinzione in questi termini: “una [l'applicabilità] risiede nella libertà del lettore, e l'altra [l'allegoria] nel predominio deliberato dell'autore.”9 Sarebbe possibile per me evitare di contraddire Tolkien dicendo che in Fabbro io cerco sono “applicabilità”, non “allegoria”. Ma vorrei porre in evidenza, primo, che c'è un'ampia gradazione tra la perfetta libertà e il perfetto predominio; e secondo, che parecchie delle principali opere della letteratura inglese (comprese alcune che Tolkien rispettava e altre che probabilmente non rispettava) sono comunemente ritenute essere delle allegorie, che chiedono di essere interpretate e che non funzionerebbero senza esserlo, ma sono anche opere nelle quali il “predominio dell'autore” sicuramente non ha portato ad una soluzione definitiva e piatta. Intendo opere come Piers Plowman di Langland, Faerie Queene di Spenser, Pilgrim's Progress di Bunyan, ma anche, forse quella che colpisce di più nei tempi moderni, Animal Farm di Orwell. Saebbe una procedura estremamente improduttiva e limitata leggere una qualsiasi delle tre appena menzionate “solo per la storia”, sebbene immagino ci siano persone che lo facciano. I bambini, per esempio, potrebbero leggere la storia di Orwell solo come una sorta di scherzo, sebbene persino loro, ritengo, proverebbero un certo qual senso di paura, una certa consapevolezza che questa storia non parla solo di animali. Ma nei casi ora elencati la storia, l'attraente narrativa superficiale, è lì in parte, sebbene non unicamente, per provocare la ricerca di un ulteriore significato, chiaramente voluto e talvolta indicato dall'autore; e nessuno suggerisce che questa ricerca debba essere abbandonata, per paura di perdere un ipotetico “rimbalzo”.10 È in questa categoria di opere allegoriche che io inserirei Fabbro.

Ci sono allora due punti che vorrei aggiungere. Uno è che metterei anche “Foglia” di Niggle nella stessa categoria, o in una molto simile. Penso che sia del tutto palesemente un'allegoria, e un'allegoria autobiografica, e uno dei segni di ciò è l'estrema “giustezza” dell'opera. A molti dei dettagli che contiene, così come nell'allegoria tolkieniana della torre, si possono assegnare corrispondenze univoche nella realtà (a mio modo di vedere, la casa di Niggle, il suo giardino, i suoi quadri, le patate, il capannone, il viaggio, il suo temperamento e molto altro ancora). Questi dettagli (correttamente interpretati) rendono la storia sia più divertente che più minacciosa – secondo me, essi aggiungono al rimbalzo.11 Ma il secondo punto è che, ovviamente, con la Faerie Queene e persino con il ben più breve e più chiaro “Foglia” di Niggle, nessuno potrà mai cogliere ogni dettaglio. Probabilmente gli stessi autori non l'avrebbero potuto fare. Le allegorie di tipo ampio hanno l'abitudine di sfuggire di mano ai loro autori, perché la narativa superficiale impone la sua propria logica. Esse sono anche chiaramente usate da molti autori (Langland e Bunyan soprattutto) come un modo per provare a comprendere i propri sentimenti e la propria situazione, come una modalità tanto di indagine quanto di spiegazione. Solo nelle allegorie più brevi e più semplici l'autore “domina” il lettore (come dice Tolkien) o addirittura (e questa è una mia aggiunta) il suo proprio testo. Il vantaggio di tutto questo è che è del tutto possibile leggere un'allegoria lunga, come Fabbro, o “Foglia” di Niggle o Piers Plowman, e trovarvi qualcosa di nuovo ogni volta – ma comunque qualcosa di allegorico. Come le palle da tennis, esse rimbalzano più in alto quanto più le riscaldi, e il modo per riscaldarle è giocarci.

Abbandonando la metafora e volgendoci alla lettura di Fabbro, mi pare che le mie interpretazioni della storia dipendano dall'identificazione dei dettagli. È sorprendente quanto facilmente essi ci sfuggano. Dunque (e sono debitore delle indicazioni che seguono alla Dottoressa Flieger, che ha avuto il vantaggio di leggere il commento di Tolkien stesso al proprio testo, dal quale adesso cito): “La Grande Sala è evidentemente in un certo modo una 'allegoria' della chiesa del villaggio; il Mastro Cuoco (…) è palesemente il curato e il sacerdozio.” Il cucinare equivale, d'altro canto, alla “religione personale e alla preghiera.”12 Tolkien usa qui le parole “evidentemente” e “palesemente”, ma io non credo di aver fatto questi parallelismi alla prima lettura o persino nelle ulteriori. Ciò che il racconto della Grande Sala e delle sue festività mi diceva era che stavo leggendo una allegoria di qualche tipo: il comportamento sociale a Wootton Major era troppo distante dal comportamento della vita reale in un qualsiasi periodo della storia inglese perché io mi limitassi ad accettarlo al livello puramente narrativo. Comunque, una volta che i parallelismi tra Sala e chiesa, ecc. sono stati fatti, vari altri dettagli acquistano significato. Alquanto più tardi nella storia, per esempio, ci viene detto che una volta subentrato Alf a Nokes come Mastro Cuoco, la Sala fu “rivetrata e ridipinta”. Qualcuno la definì “troppo moderna”, ma “altri più eruditi sapevano che era un ritorno agli antichi fasti”13 È importante notare che queste frasi non hanno un senso narrativo ulteriore. Non fa nessuna differenza per il prosieguo della storia conoscere l'aspetto della Sala. Questa descrizione piuttosto diffusa è “narrativamente ridondante”. In una allegoria, tuttavia, ciò che è narrativamente ridondante è probabile che sia particolarmente significativo sotto il profilo allegorico. Qui mi sembra che Tolkien stia esprimendo approvazione per i cambiamenti nell'aspetto esteriore delle chiese dei suoi giorni, che andavano distaccandosi dalla accurata sobrietà, dallo stile da “vestiti della Domenica” della devozione vittoriana, verso un'attitudine più allegra e più espressiva del culto, ritenuta da molti come irrispettosa e modernistica, ma vista da Tolkien come un ritorno alla medievale integrazione della religione con la vita di tutti i giorni e con la ricchezza immaginativa (come negli intagli e nelle pitture dei gargoyles, che menziona specificamente).

L'identificazione Sala/chiesa può far riflettere, poi, riguardo al luogo dove vive Fabbro, Wootton Major. Perché Wootton? Perché Major? Qui sono d'accordo con la Dottoressa Flieger che Wootton significa, filologicamente, “Wood-town”, la città nel bosco, e il bosco è un'immagine altamente significativa. La Dottoressa Flieger suggerisce che i boschi sono portali per l'altro mondo, come in Dante, ed è così.14 A questa considerazione io aggiungerei che i boschi sono per Tolkien luoghi ambigui (una interpretazione affermata con vigore dalla Flieger nel suo saggio “Taking the part of Trees”).15 Egli li amava tanto quanto chiunque altro, ma li vedeva anche come luoghi dove i viaggiatori facilmente divengono confusi, “disorientati”, perdono di vista le stelle, perdono i loro punti di riferimento (fisici e morali). Rappresentano il mondo della realtà, il mondo di tutti i giorni, perché in essi è così facile dimenticare che esiste un mondo oltre i loro confini, e disperare. Fabbro, naturalmente, è in primo luogo il personaggio che possiede una via di uscita da Wootton, ovvero dal bosco del mondo, dentro Feeria. E poi, perché Major? La storia ha forse bisogno di una Minor? Tenuto conto del cattolicesimo di Tolkien, si è tentati di vedere la chiesa di Wootton Major come la chiesa cattolica, e in Wootton Minor vedervi forse la sua derivata anglicana. Un interessante dettaglio qui è che Nokes, tenuto in scarsa simpatia e non accettato come apprendista dal precedente Mastro Cuoco (per cui fuori dalla “successione apostolica”, per così dire), è “un uomo con la testa sulle spalle, con moglie e figli”.16 Se egli è “palesemente” un curato, dunque, come afferma Tolkien, deve essere un pastore protestante. Forse l'ipotesi Major/Minor proposta poco fa va intesa al contrario – come sarebbe il caso in termini puramente inglesi.17

La questione dei nomi è particolarmente rilevante in una allegoria, perché, nella vita normale, i nomi non significano nulla: i cognomi, specialmente, come tutti sappiamo, non sono scelti, ma capitano per caso alla nascita; la maggior parte della gente non sa, in effetti, cosa “significhino” i propri nomi (cioè cosa significassero nel lontano passato, prima che diventassero dei semplici nomi). In una storia, tuttavia, l'autore sceglie i nomi. Nelle storie realistiche saranno scelti per suonare casuali, come capita nella realtà. In una allegoria essi invece probabilmente saranno fortemente suggestivi. Ora, e parlando unicamente dal mio punto di vista, io non riesco a farmi una ragione della scelta del nome “Nokes”. C'è un Noakes nel Signore degli Anelli, il “Vecchio Querciolo di Acquariva” e nella sua “Guide to the Names in The Lord of the Rings” Tolkien notava la sua derivazione dal Medio Inglese atten oke(s), “at the oak(s), [alla/e quercia/e] e aggiungeva, a beneficio dei traduttori, “poiché questo [rimando toponimico, N.d.T.] non è più riconosciuto, non c'è bisogno di tenerlo presente. Il nome nella storia non ha importanza.”18 È solo un'etichetta, in altre parole, come la maggior parte dei nomi; ma questo nel Signore degli Anelli, che non è un'allegoria e che ha centinaia di nomi privi di significato narrativo.

Ciò che non posso dimenticare, leggendo Fabbro, è che per Tolkien “oak”, quercia, aveva un chiaro significato privato, varie volte richiamato.19 “Oak” nell'Antico Inglese è àc, ed è anche il nome per la runa che rappresenta la “A”. Il nome per la “B” nell'alfabeto runico dell'Antico Inglese è beorc, o “birch” [betulla]. Nel programma di studi che Tolkien redasse alla Università di Leeds e che cercò con scarso successo di riproporre ad Oxford,20 lo “schema B” era quello diretto da lui, lo schema di studio che univa linguaggio, e Medioevo e lo “schema A” era quello diretto dal suo collega Professore di Letteratura. Questi due schemi coesistevano in termini di forte ostilità ideologica reciproca, la spiegazione della quale verrebbe ad occupare parecchie pagine. Posso solo dire qui che per me (l'erede di molte delle contese di Tolkien), la risposta tagliente di Alf Apprendista a Nokes verso la fine della storia suscita molte risonanze. “Sei un vecchio impostore vanitoso”, dice, “grasso, pigro e malizioso. Ho fatto io la maggior parte del tuo lavoro; senza mai ringraziare hai imparato da me tutto ciò che potervi, ma non il rispetto per Feeria, né un poco di cortesia.”21 Lasciando perdere la prima frase, che è solamente sgarbata, le altre due mi paiono rappresentare ragionevolmente bene la relazione tra la filologia (lo “schema B”) e gli studi letterari (lo “schema A” rappresentato da Nokes). I dipartimenti di Inglese nelle università furono fondati dai filologi, che crearono una disciplina di studi letterari per il volgare e vennero poi messi da parte senza un ringraziamento dai critici che, notoriamente, non avevano tempo per la fantasia, o Feeria, medievale o moderna che fosse. Se questa corrispondenza non era nelle intenzioni di Tolkien, perché scegliere “Nokes” piuttosto che uno delle molte migliaia di nomi neutri disponibili?

Devo accettare, naturalmente, che questo sia più che altro un simbolismo privato che Tolkien non poteva aspettarsi venisse notato che da pochissimi fra i suoi lettori. La maggior parte di quest'utlimi, tuttavia, possono comunque arrivare a comprendere, almeno in gran parte: Nokes è irritante non solamente perché ha solo una vaga immagine di Feeria, ma perché insiste che questa è l'unica che c'è. Egli è in verità, precisamente e assolutamente, uno di quei “professionisti del settore” che supponevano che “la loro stupidità e la loro ignoranza costituissero una norma per tutti gli uomini,” e che Tolkien scelse come speciale bersaglio d'attacco nel suo “Discorso di commiato all'Università di Oxford”, sottintendendo chiaramente i professori di Letteratura.22 E poi abbiamo la strana scena in cui Fabbro è protetto dal vento dalla betulla piangente. Ho detto cosa penso di questo episodio altrove e chiaramente non sono riuscito a convincere la Dottoressa Flieger,23 ma questo ci porta forse vicino ad una delle ragioni del nostro disaccordo. A me pare, come ho detto prima, che la mia interpretazione dipenda in primo luogo dai dettagli e dalla “giustezza”. Posso accettare il fatto che mi perdo dei dettagli e delle corrispondenze, come nel caso della ovvia corrispondenza Sala/Chiesa. Una ragione per cui il “rimabalzo” non si indebolisce, a mio modo di vedere, è che io spero di cogliere o identificare ancora altri dettagli ad ogni nuova lettura. Ciò che non penso è che si dia per scontato che io non debba interrogarmi su di essi, che li debba accettare come parte della narrativa superficiale, come farei per un romanzo realistico. La Dottoressa Flieger, per dirla con una parola, prende Fabbro in maniera olistica, mentre io lo prendo pezzo per pezzo. Non c'è dubbio che la sua maniera si accordi di più col gusto critico moderno di quanto lo faccia la mia, così come si accordano di più ad esso una predilezione per il dialogismo, i significati plurimi, la libera interpretazione dell'inesauribile testo (ecc.), come detto sopra. Se il moderno gusto critico abbia molto a che fare con Tolkien, tuttavia, può essere messo in dubbio. Noto anche, nell'analisi della Dottoressa Flieger, la convinzione che il testo nella sua interezza è troppo fragile per essere rudemente disarticolato. La mia “teoria della quercia e della betulla” non è rigettata senz'altro, ma viene ritenuta “porre un pesante fardello su di una storia il cui effetto dipende non poco dalla leggerezza del suo tocco.” Altrove, e anche nel contesto di una confutazione dei suoi elementi autobiografici ed allegorici, sentiamo parlare del suo “fascino impalpabile”, della sua “aria umile” e della sua “abilità apparentemente senza sforzo di sottintendere senza affermare”.24 Leggero, impalpabile, senza sforzo: questa è un'immagine di Feeria, ma qualcosa mi diche che è un'immagine shakespeariana piuttosto che tolkieniana. Come ho detto altrove, Tolkien era uno degli autori dalla mentalità più “concreta” tecnicamente parlando, niente affatto una persona olistica.25

Si dovrà, naturalmente, alla fine considerare la storia come un tutt'uno, la storia “nei suoi propri termini”, come insiste la Dottoressa Flieger, sebbene per me uno debba prima passare per la fase in cui si considerano i dettagli passo passo: cose come i nomi sono per me letteralmente i “propri termini” della storia, accuratamente selezionati. Posso solo dire qui che per me i fatti rilevanti della storia sono che possiede due fili narrativi; che parla di successione; e che Fabbro stesso sembra fallire, o godere solo di un successo temporaneo, in entrambi. Uno di questi fili narrativi è rappresentanto dalla cucina. La successione di Mastro Cuoco va da Rider a Nokes ad Alf Apprendista ad Harper. L'altro è il possesso della stella e la successione va da Rider a Fabbro a Tim di Nokes. Secondo le affermazioni dello stesso Tolkien, la Sala, il Mastro Cuoco e la cucina in generale, equivalgono tutti alla religione; mentre sembra ovvio che la stella che permette di entrare a Feeria equivale a qualcosa tipo l'ispirazione di Tolkien, una qualità essenzialmente letteraria e immaginativa. Questa separazione di base mi pare, tuttavia, difficile da mantenee nel dettaglio. Da una parte, Nokes il Cuoco mostra una rivelatrice scarsa attitudine per Feeria, che sembra avere più a che fare con la letteratura che con la religione. Da un'altra, è difficile per me vedere Alf, il re degli elfi (gli elfi secondo i proverbi non hanno anima) semplicemente come un curato, un rappresentante della Chiesa. Ne concludo, pertanto, che come ci si può aspettare, questi due fili narrativi non sono prontamente separabili, ma sono in relazione l'uno con l'altro. Il tema di Fabbro è l'integrazione della fantasia con il credo; la problematica che risolve è se la fantasia – la deliberata, immaginativa, letteraria creazione del mito da parte degli individui – sia compatibile con la credenza in un mito creato da Dio (il mito cristiano). Opinioni rigorose hanno da tempo insistito che non lo sia. Tolkien prendeva sul serio queste opinioni rigorose, ma non voleva proprio accettarle. Fabbro elabora questo dibattito e sostiene anche la tesi della autonomia della fantasia contro l'attitudine bovina, rigorosamente pratica, “ragionevole” di Nokes (così spesso ripetuta da allora dai critici “modernisti”).

L'incertezza è veicolata una volta di più dalla ridondanza, questa volta da “personaggi ridondanti”. Quest'ultimi sono i personaggi introdotti, sembra, per essere esclusi da entrambe le linee di successione: il figlio di Fabbro, Ned e suo nipote Tommino. Nessuno dei due diviene Cuoco, e nemmeno riceve la stella. In effetti, in uno dei colpi di scena più inaspettati della narrazione, la stella va ad un discendente di Nokes, Tim figlio di Nokes di Townsend. Queste sorprendenti immissioni di personaggi sono a mio parere suscettibili di interpretazione, ma forse il punto in questo caso è che essi mi paiono richiederla, questa interpretazione. Tolkien qui sta certamente dicendo qualcosa di pessimistico (nessuno può controllare il futuro) e di ottimistico (l'ispirazione può sembrare perduta, ma ritornerà in modo totalmente imprevedibile) allo stesso tempo: mi ricorda il dibattito tra Legolas e Gimli a Minas Tirith, all'inizio del capitolo “L'ultima discussione”, con Gimli che sostiene l'opinione pessimistica (le opere dell'uomo periscono tutte), e Legolas quella ottimistica (ma il loro seme non perirà).

La mia tesi fondamentale in merito all'allegoria e alla sua “rimbalzosità” è comunque questa: una lettura completa di Fabbro, per me, avrebbe l'aspetto di un lungo testo annotato, con commento a piè di pagina per decine o anche diverse centinaia di punti differenti. Per indicarne anche sono una piccola selezione, il personaggio di Rider, la bambola della Regina degli Elfi, e il contrasto tra questa e la vera Regina degli Elfi, il “vecchio libro delle ricette” che Nokes può appena leggere, la strana sequenza nella famiglia di Fabbro di nomi simil-Nokes (Nell, Nan, Ned), l'Albero del Re, il Fiore Vivente che è ereditato dalla stirpe di Fabbro, i profumati fiori-campanella che vanno a Tommino, l'arco temporale della storia che è di quarantotto anni, il personaggio di Harper che “viene dal tuo villaggio”, il nome Townsend ( Nokes di Towsend è “ben diverso”), la parola “nimble”, “sveglio”, quasi l'ultima parola della storia e una marcata, come Ned, Nan, Nell e Nokes, dallla caratteristica filologica della “nunnazione”.

Cosa significa tutto questo? In alcuni casi penso di saperlo, ma ci vorrebbe un lungo e separato commento per spiegarlo; in altri casi non lo so, ma ci sto ancora pensando (il ché vuol dire che c'è ancora del “rimbalzo” in serbo). Ma mi sembra che questo sia il modo in cui operano le allegorie complesse. La loro vita è nel dettaglio. La loro tessitura non è “impalpabile”, ma sorprendentemente robusta. La paura che il loro fascino possa essere distrutto da un'analisi troppo ravvicinata è fuori luogo. Esse richiedono riflessione attenta, non una risposta meramente emotiva, perché hanno qualcosa di serio e complesso da dire. Questo non vuol dire affatto, comunque, che ciò che devono esprimere può esser ridotto ( una volta decodificato) ad un significato molto più semplice. È forse quest'ultima erronea opinione che ha creato la moderna reazione contro l'allegoria. Ma questo non è la maniera con cui lavoravano gli allegoristi medievali, né necessariamente quelli moderni.

1

Questo pezzo è iniziato come pubblico dibattito tra Verlyn Flieger e me, alla conferenza della International Society for the Fantastic in the Arts, a Fort Lauderdale, Florida, il 22 marzo 2001. I nostri scambi di idee furono poi pubblicati nel “Journal for the Fantatic in the Ars” 12/2 (2001), pp. 186-200, dove la mia sezione andava dalla pg. 191 alla 200. La Dottoressa Flieger ed io avevano tratto risultati alquanto differenti dalla stessa opera, e l'idea era di capire perché. I miei ringraziamenti vanno a Bill Senior, curatore del “JFA”, per aver permesso questa ristampa, e alla Dottoressa Flieger per aver generosamente accettato un punto di vista più unilaterale.

2

Vedi Verlyn FLIEGERA Question of Time: J.R.R. Tolkien's Road to Faerie; Kent, OH, Kent State University Press, 1997, pg. 233 e David DOUGHAN, “In Search of the Bounce: Tolkien seen through Smith” in Leaves from the Tree: Tolkien's Shorter Fiction; London, The Tolkien Society, 1991, pp. 17-22 (pg. 17).

3In V. FLIEGER, op. cit.; pg. 233,

4Mi riferisco qui al brano scherzoso di Tolkien sulla parola “schioppo” in Farmer Giles of Ham (ediz. Italiana Il Cacciatore di Draghi; Milano, Bompiani, 2005; pp. 28-29). Per lui “i Quattro Saggi Letterati di Oxenford” erano i curatori dell'Oxford English Dictionary (vedi Paul Kocher, Master of Middle-earth: The Achievement of J.R.R. Tolkien in Fiction; Harmondsworth, Penguin, 1974; pg. 161). Ce ne sono più di quattro ora, naturalmente.

5Vedi The Oxford English Dictionary, curatori J. Simpson e E.S.C. Weiner, seconda edizione 1989; vol .1, pg. 333, La voce è sostanzialmente immutata rispetto alla prima edizione (allora denominata The New Oxford English Dictionary) del 1884 e successive, vol. I, pg. 232.

6'Prefazione' alla seconda edizone del Signore degli Anelli (ediz. Italiana Giunti Bompiani, 12020, pg. 11). L'affermazione di Tolkien, naturalmente, è intesa come replica ad una forma di allegorizzazione del tutto superificale e inefficace.

7J.R.R. TOLKIEN, The Monsters and the Critics and Other Essays, edited by Christopher Tolkien, London, George Allen & Unwin, 1983; pp. 7-8 (ediz. italiana, Il Medioevo e il Fantastico; Milano, Bompiani, 2004; pg. 31),

8Per una interpretazione della allegoria della “torre”, vedi Tom SHIPPEY, The Road to Middle-earth; terza edizione ampliata; Boston, Houghton and Mifflin, 2003, pp. 46-47 (ediz. italiana, J.R.R. Tolkien: la via per la Terra di Mezzo, Genova, Marietti 1820, 2005, pp. 82-83). (Mi dispiace dire che in entrambe le precedenti edizioni [in lingua inglese N.d.t.] di quest'opera c'è un importante errore di stampa – la domanda dei “discendenti dell'uomo” dovrebbe essere formulata come segue: “Perchè non ha restaurato la vecchia casa?”). L'allegoria di Babele non è mai stata spiegata in dettaglio, sebbene la maggior parte degli elementi per una sua spiegazione si possano trovare in Tom SHIPPEY e Andreas HAARDER, Beowulf: The Critical heritage; London and New York, Routledge, 1998. Vedi anche J.R.R. Tolkien: Beowulf and the Critics; a cura di Michael D. C. Drout; Medieval and Renaissance Texts and Studies 248; Tempe, Arizona Centre for Medieval and Renaissance Studies, 2002, pp. 151 e 255.

9Vedi sopra, nota n. 6.

10Molte persone potrebbero aver voglia di argomentare che la ricerca dovrebbe orientarsi in qualche altra direzione. Le equivalenze piuttosto ovvie di Animal Farm (il vecchio Sindaco come Marx, Palla di Neve come Trotsky, Napoleone come Stalin, Mosè il corvo come il clero) sono state ripetutamente negate, di solito dai Marxisti, Troskisti, Stalinisti o loro simpatizzanti. Certo viene da chiedersi che fine abbia fatto Lenin.

11Per la mia lettura della storia, vedi Tom SHIPPEY, J.R.R. Tolkien: Author of the Century; London, HarperCollins, 2000; pp. 266-277 (ed. it. J.R.R. Tolkien: Autore del secolo; Milano, Simonelli, 2004; pp. 269-278.) Questa lettura contiene significative aggiunte di dettagli alla teoria originale così come esposta in Tom SHIPPEY, The Road to Middle-earth; London, George Allen & Unwin, 1982; pp. 34-35 e IDEM, The Road to Middle-earth; seconda edizione ampliata, London, HarperCollins, 1992, pp. 40-41.

12Verlyn FLIEGER, A Question of Time. J.R.R. Tolkien's Road to Faërie; op. cit.; pg. 232.

13J.R.R. TOLKIEN, Smith of Wootton Major, London, George Allen & Unwin, 1967, pg. 46 (ediz. italiana, Il Fabbro di Wootton Major, nuova edizione ampliata; Milano, Bompiani, 2005, pg. 38),

14Vedi V. FLIEGER, A Question of Time; op. cit.; pg. 250.

15“Taking the Part of Trees: Eco-Conflict in Middle-eath” in J.R.R. Tolkien and His Literary Resonances: Views of Middle-earth; Westport, Conn. Adn London, Greenwood, 2001; pp. 147-158.

16J.R.R. TOLKIEN, Smith of Wootton Major; op. cit.; pg. 10 (ediz. it. cit., pg. 12).

17Durante la vita di Tolkien i cattolici erano una minoranza in Inghilterra rispetto ai protestanti e specialmente agli anglicani. Questo rapporto è da allora in continuo mutamento.

18“Guide to the Names in The Lord of the Rings”, in Jared Lobdell (a cura di) A Tolkien Compass, La salle Ill. Open Court Press, 1975; pp. 135-201; pg. 170. Ora ripubblicata in forma leggermente riveduta e corretta, con il titolo originale di “Nomenclature of The Lord of the Rings” in The Lord of the Rings. A Reader's Companion, a cura di Wayne G. Hammond e Christina Scull; London, HarperCollins, 2014; pp. 750-782.

19 Come si vede soprattutto nella poesia in Antico Inglese chiamata “Eadig Beo Thu!” in Songs for the Philologists, 13, tradotto in T. SHIPPEY, The Road to Middle-earth, terza edizione; cit.; pp. 355-356 (ediz. it. cit.; pp. 484-486).

20Vedi J.R.R. TOLKIEN, “The Oxford English School”, in Oxford Magazine; 48.21 (29 maggio 1930); pp. 778-782. A più di settant'anni di distanza, ci sono ancora dubbi su fino a che punto Tolkiien avesse successo o meno ad Oxford. A Leeds lo “schema B” sopravvisse fino al 1983.

21Smith of Wootton Major; op. cit.; pg. 57 (ediz. it. cit.: pg. 45)

22In The Monsters and the Critics; op. cit.; pg. 225 (ediz. it. cit.; pg. 321).

23Vedi T. SHIPPEY, The Road to Middle-earth; prima ediz.; pp. 206-207; seconda ediz.; pp. 244-246; terza ediz.; pp. 278-280 (ediz. it. cit.; pp. 388-391) e V. FLIEGER, A Question of Time; op. cit.; pp. 243-244.

24V. FLIEGER, A Question of Time; op. cit.; pp. 244, 231 e 233.

25Devo ripetere che “mentalità concreta” ha un senso speciale qui, ovvero di preoccuparsi dei dettagli, dei singoli fatti, piuttosto che dei sistemi. Vedi T. SHIPPEY, The Road to Middle-earth, terza edizione; pp. 333-334 (ediz. it. cit.; pp. 460-462).