Gianluca Meluzzi (con illustrazioni di Emanuele Manfredi)

La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime.

La Storia dietro la Cronaca

Eterea edizioni, Roma, 2021, pp. 114.

 

Mi sia concesso cominciare questa descrizione del saggio di Gianluca Meluzzi con il richiamo di una breve opera di J.R.R. Tolkien ingiustamente sottovalutata e, almeno in Italia, considerata poco più di un divertissment, forse perché non appartenente all’universo narrativo della Terra di Mezzo:   ’Foglia’, di Niggle (‘ Leaf”, by Niggle’).

Trattasi di una fiaba che narra le vicende di uno stravagante pittore, non a caso denominato “Niggle” (cioè ‘pignolo’, ma di un pignolo che sconfina nel ‘perditempo’) che divide il suo tempo tra l’arte e gli impegni sociali nei confronti dei compaesani, questi ultimi rappresentati da un vicino in particolare, il brontolone e zoppo Parish (anche in questo caso il nome è traducibile e significa ‘parrocchia’). Niggle è ossessionato da un quadro su tutti gli altri, cominciato dipingendo una foglia, in tutti i suoi dettagli; la foglia era poi diventata un ramo, poi tanti rami con altre foglie, poi ancora un intero albero, con un tronco e delle radici. Mentre la foglia originaria perde sempre più importanza, confondendosi con il resto della creazione, attorno all’albero Niggle dipinge altri alberi e l’opera diventa sempre più enorme e importante per l’artista.

Niggle sa che lo attende un Viaggio. Non sa quando dovrà partire, ma sa che prima o poi qualcuno verrà a prenderlo e lo porterà via. Anziché preparare i bagagli, rimanda il pensiero e, anzi, dipinge sempre più meticolosamente per il timore di non riuscire a finire in tempo la sua opera, tra lo stupore e il comprensibile disappunto di Parish, che non comprende il quadro e considera inutile e privo di benefici il lavoro di Niggle.

Quando, dopo una malattia, si presenta il Cocchiere Nero, Niggle non è naturalmente pronto per partire. Non ha potuto fare alcun preparativo per il viaggio, e, naturalmente, non ha potuto finire il quadro. Il viaggio lo conduce in una sorta di Purgatorio dove può purificarsi dei peccati e meditare sugli errori commessi fino all’Assoluzione. La ricompensa è quella di vivere in un paesaggio meraviglioso, che altro non è che il quadro che aveva dipinto senza mai finire. Egli si trova ben presto a vivere nel mondo che aveva appena cominciato a creare, e non ci vuole molto perché si accorga che è ancora incompleto. Ad aiutarlo viene quindi inviato l’amico Parish, anch’egli nel frattempo purificato e finalmente in grado di capire il senso dell’opera. Insieme creano quindi un villaggio e ambiscono a mete ancora più alte, le Montagne che si intravedono sullo sfondo dell’opera, mentre sulla Terra i compaesani, che hanno ormai dimenticato Niggle e Parish, etichettano il lavoro come robaccia di poco valore, fino a lasciare che il quadro ‘terrestre’ venga distrutto da un incendio. Ma un brandello è sopravvissuto: si tratta di un brandello di tela che rappresenta la Foglia originaria e che viene gelosamente custodito da un compaesano, che lo incornicia con il titolo “‘Foglia’, di Niggle”, fino a che non verrà perduto anche esso.

Questo racconto ‘esistenzialista’ – e intendo usare il termine nell’accezione più letterale e a-tecnica possibile, ossia di opera che descrive, o prova a descrivere, l’essenza e almeno uno degli scopi dell’esistenza – mi è sembrato un’introduzione appropriata per descrivere un lavoro del calibro di La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime – la storia dietro la cronaca, di Gianluca Meluzzi, per i tipi della ‘Eterea Edizioni’, casa specializzata nello studio e nella ricerca su Arda, e in particolare per la collana “Gemme dorate”. Nirnaeth Arnoediad, ossia “la Quinta Battaglia” o “la Battaglia delle innumerevoli lacrime”, si può in questo caso considerare la Foglia originaria di questa porzione di quel gigantesco dipinto costituito della storia della Terra di Mezzo. Essa occupa quantitativamente poco spazio del Silmarillion (un capitolo di poco più di una decina di pagine) ma, come ci avverte Meluzzi nella premessa, riveste un’importanza centrale nella storia dell’universo tolkeniano, e a testimoniarlo sono le numerose bozze, riscritture e revisioni che Cristopher Tolkien rielaborò e coordinò al fine, appunto, di produrre il capitolo che poi venne incluso nella stesura definitiva del Silmarillion. E lo stesso Cristopher, a sua volta, dovette ripensare più volte alla forma più appropriata sotto la quale pubblicare gli scritti del padre; lavoro che, avendo a oggetto la produzione di un Autore non più vivente, non poteva sortire un risultato “liscio” ed esente da critiche da parte dei molti conoscitori e appassionati (critiche che, peraltro, non si risparmiano ormai neppure nei confronti degli autori viventi, come per esempio J.K. Rowling, quasi ci fosse una presunzione piuttosto diffusa di aver capito l’Opera meglio del suo stesso autore). Comunque la si guardi, il risultato ottenuto da Cristopher con il Silmarillion, fu certo quello di rendere più fruibile l’enorme mole di scritti del padre rimasta nei cassetti.

Ora, la difficoltà di un lavoro filologico postumo, nel caso di Tolkien, si rende particolarmente difficile a causa di una continua tensione tra una visione aggregrativa e una disaggregativa. Il mondo di Tolkien non lesinava di particolari e, come il quadro di Niggle, e non poteva mai dirsi compiuto. Come scrisse in una lettera, egli era ben consapevole di questa tendenza alla specializzazione che il suo modus operandi generava quasi suo malgrado. In una lettera, citata nell’ “Introduzione” dei Racconti Incompiuti, scriveva:

“…molti (…) richiedono mappe, altri desiderano indicazioni geologiche anziché geografiche; molti esigono grammatiche, fonologie e particolarità degli Elfi, certuni pretendono metrica e prosodia… i musicisti vogliono conoscere melodie e annotazioni musicali, gli archeologi ceramica e metallurgia, i botanici più accurate descrizioni del mallorn, di elanor, niphredil, alfirin, mallos e symbelmynë; gli storici, più precisi riferimenti alla struttura sociale e politica di Gondor; (…)” (Racconti incompiuti, ed. Rusconi, pag. 9).

 

Tolkien si era insomma probabilmente reso conto di stare prestando il fianco a un eruditismo, forse, anche un po’ folle, e provava il timore che in quella messe di informazioni si stesse forse smarrendo il “sugo della storia”, che ha al che vedere anche con l’etica, la morale, l’esistenza individuale e come quest’ultima si inserisce nella Storia (e nelle “Grandi storie”, quelle che devono essere ricordate e narrate).

Allo stesso tempo, però, non si può negare che Tolkien abbia, di fatto, creato un mondo che ha, se non proprio tutto, almeno quanto basta e avanza per stare in piedi da solo e vivere di vita propria, in una continua evoluzione. E lo testimoniano non solo l’immane lavoro di Christopher, ma gli ormai innumerevoli giochi di ruolo, di strategia, videogames, opere artistiche e fumettistiche, possibili racconti “alternativi” o “integrativi” scritti dagli appassionati, traduzioni non ufficiali della “History of Middle-Earth” che circolano tramite il peer-to-peer, ecc.: il tutto ambientato nella Terra-di-Mezzo e, almeno nei migliori casi, risulta essere anche plausibile.

Meluzzi cerca, con riferimento all’episodio della Battaglia delle Innumerevoli lacrime, di riportare il tutto a una certa fruibilità, di modo che il racconto torni ad essere un po’ più epico e un po’ meno espressione di eruditismo.

Il punto di partenza è costituito dalle fonti, dovendo, per forza di cose, operare una prima scelta, viste le numerose versioni della vicenda della Quinta Battaglia: Meluzzi opta per quella contenuta ne “I figli di Húrin”, caratterizzata da un maggior senso di tragedia rispetto alle altre (come d’altronde è lecito aspettarsi dalla narrazione di una guerra, non solo vinta dalle forze del male, ma della quale “nessun racconto può contenere tutto il dolore”).

Una volta scelte le fonti sulle quali incardinare le vicende dei sei tragici giorni, si passa alla cronaca, molto dettagliata, ma mai eccessivamente erudita. E dopo la cronaca, si ricostruiscono i luoghi e i tempi: attraverso estratti di mappe dello stesso Tolkien, la si inquadra nei suoi elementi spaziali e temporali. Meluzzi cerca di risolvere le numerose contraddizioni che l’Autore inglese non poteva non aver lasciato in merito alle distanze e alla durata delle giornate. Definito quindi lo scenario temporale e spaziale, si descrivono gli schieramenti in battaglia e le scelte tattiche. Un lavoro di questo tipo si capisce essere svolto al fine di “immergere” il lettore nella vicenda (farlo entrare “nel quadro”), non al fine di farlo evadere dalla stessa! Infatti, laddove la Fantasia offre “Ristoro” e non “Evasione” dalla Realtà (come scrisse Tolkien nel saggio “Sulle Fiabe”), questo “Ristoro” deve essere assimilabile alla buona compagnia e al conforto materiale e dell’anima, quindi sempre piacevole. Il lettore deve provare piacere, cosa questa che, nelle opere più “erudite”, spesso non succede. 

Dopo la definizione dei luoghi e dei tempi, viene il racconto vero e proprio della Battaglia, ed è questa forse la parte più pregevole del libro di Meluzzi, perché la narrazione, divisa per ciascuno dei sei giorni di guerra, è allo stesso tempo dettagliata, appassionata e adeguata al tema doloroso che ne costituisce oggetto. Ci accorgiamo, insomma, che tutte le ricostruzioni precedenti sui luoghi, le strategie, ecc. ci consentono di capire meglio il racconto e la sua portata. Siamo entrati nel quadro.

A facilitare questo viaggio, contribuiscono in maniera determinante le oniriche illustrazioni in bianco-nero di Emanuele Manfredi, che donano ancora maggiore dinamicità alle parole scritte, affrontando con coraggio anche la rappresentazione di scene cruente, come il supplizio di Gelmin o la maledizione di Húrin.