Gianluca Comastri, Le lingue degli Elfi della Terra di Mezzo

2 vv., L’Arco e la Corte, Bari, 2016, pp. 248 + 288

 

 

 

di Juxhin Deliu

 

Prima di iniziare la recensione vera e propria, si presenta innanzitutto l’autore di questi due voluminosi e notevoli tomi che riguardano in particolare le lingue elfiche della Terra di Mezzo: Gianluca Comastri. Egli non ha conseguito alcuna laurea in materie linguistiche, possedendo al massimo una maturità tecnica a indirizzo telecomunicazioni; è peculiare, infatti, come molti appassionati dell’opera omnia di Tolkien, pur non avendo avuto gli stessi interessi dell’autore durante la sua vita, abbiano portato avanti progetti ambiziosi (pure citati nei due libri in questioni) che hanno richiesto sforzi e studi ben oltre le loro competenze iniziali. Sebbene sia un linguaggio fittizio e non usato da un gruppo consistente di persone come proprio, l’autore evidenzia come l’interesse verso esso non sia puramente un vezzo da fanatico che ha sin troppo tempo libero da spendere, quanto invece una palestra per aprire le persone ai fondamenti dell’analisi linguistica tramite la fonologia, la morfologia, la grammatica e la sintassi.

 

Tolkien, come è noto, era un importante studioso dell’inglese antico e insignito di una cattedra a Oxford in filologia; durante la sua infanzia, egli mostrava un interesse precoce per le lingue nordiche in particolare, pur amando l’italiano con tutto il suo cuore ed eccellendo in greco e latino, oltre che mostrare una fascinazione per l’esperanto, da poco brevettato da un ottico polacco, alimentando sempre più in lui la necessità di creare una sua lingua franca che tutti avrebbero potuto imparare da zero. Inoltre, va ricordato che fosse originario di una zona inglese in cui è tutt’oggi vivo un vernacolare che gioca con le parole per cambiarne il significato in senso radicale.

 

Cominciò quindi in adolescenza a inventarsi qualcosa sulla base del latino, finnico e gallese, che sarebbero state d’ispirazione per l’elfico, data la sua natura agglutinante e ricca di desinenze. Ciò comporta che le sue parole siano costituite da una sola radice, alla quale sono aggiunti prefissi o suffissi per esprimere il genere, tempi verbali, il numero, mentre i morfemi (elementi della morfologia, come le preposizioni, le congiunzioni e gli avverbi) sono espressi da affissi (più evidenti nella distinzione tra l’elfico originario e le sue derivazioni). Tutto quello scritto sinora fa da introduzione al primo libro, oltre all’elenco di fonti preziose da consultare, risultate fondamentali per queste pubblicazioni.

 

La seconda parte del primo tomo è una panoramica sulle lingue elfiche e non di Arda (il mondo in cui sono ambiente le vicende generate dalla fantasia di Tolkien), nella quale sono distinte per periodo storico e variante per popolazione. Parafrasando Faramir, fratello minore di Boromir e figlio di Denethor, Sovrintendente in carica di Gondor alla fine della Terza Era, ogni lingua parlata nella Terra di Mezzo (da tutti i Popoli Parlanti) deriva dall’elfico. Il nome stesso della città di Gondor deriva dall’elfico Quenya e sta a significare “terra di pietra”, dalla radice “gond” che sta appunto per “pietra”. Tanti abitanti della cittadina bianca, in particolare quelli più istruiti, sanno conversare nel Sindarin dei Numenoriani, loro antenati). Le stesse lingue oscure del malvagio Sauron (Valar e incarnatosi nella seconda era con parvenze elfiche) e dei suoi schiavi, gli Orchi, sono una corruzione dell’elfico, volendo sottolineare come essi stessi siano una perversione del candore originario. Orco infatti viene dalla parola elfica “urku” (“ombra”), evidenziando la loro natura oscura oltre che l’insofferenza verso la luce del sole, motivo per cui fuggono in massa alla caduta di Minas (“torre”) Morgul in seguito alla sconfitta del loro Oscuro Signore dovuta alla distruzione dell’Anello, assieme ai troll che pietrificano alla minima esposizione ai raggi solari (motivo per cui dopo la Terza Era si vedono girare solo ultimi stormi di Uruk-hai e dei Goblin che cercano di invadere la Contea degli Hobbit, senza riuscirci). A seguire, i Nazgul, diretti servitori di Sauron, se non i più funesti, si traducono in elfico recente come “spettri dell’anello” (in anglosassone “ghoul” significa spettro), rimandando ai nove anelli del potere che lo stesso Oscuro Signore fece in dono ai nove re degli Uomini e che li avrebbero resi suoi servitori dopo la morte. Infine, la genesi dell’universo di Tolkien vede gli elfi come prime creature di Arda, già intente a elaborare un loro linguaggio, finendo quindi per influenzare tutte le altre razze parlanti che si presentano man mano attraverso le Ere, al loro fianco o meno.

 

In origine, la lingua di tutti gli Elfi era il Quendi (o Quenya Primordiale), che Tolkien aveva forgiato da una commistione di latino (per quanto riguardo le desinenze e la struttura sintattica) e il celtico per la forma grammaticale e fonetica (inventando nel frattempo anche il Tengwar, l’alfabeto elfico scritto). Lingua per lingua, sono sapientemente rielaborati alcune fasi salienti dell’epopea tolkienana (ciò può fomentare un vivo interesse in chi soprattutto non è un accolito del Professore) che riguardano in particolare gli elfi; durante la Grande Marcia, evento cardine della Prima Era, si formò una schiera di Riluttanti che rimasero nelle terre originarie e forgiarono l’Avarin, mentre i marcianti svilupparono l’Eldarin, che in seguito sarebbe stato la base per il nuovo Quenya, assunto a linguaggio alto e sacrale, oltre al Telerin e il più comune Sindarin degli Elfi Grigi (non silvestri) e del Beleriand, che come scritto sopra è anche parlato dalla razza umana dei Numenoriani (di cui fa parte Elessar o meglio conosciuto come Aragorn), i quali hanno combattuto assieme agli elfi contro Melkor, il Valar maestro di Sauron. Il Sindarin ha poi integrato molti elementi del finlandese, altra lingua cara al professor Tolkien, specificati con sorprendente dettaglio nel secondo libro.

 

C’è inoltre da ricordare che una delle principali lingue codificate degli Uomini (dei Nani si sa un gran poco, in quanto la loro lingua risulta più diffusa per via orale), l’Ovestron del Mark di Rohan (situato a ovest di Gondor, terra dei formidabili Rohirrim e di Eowyn, moglie di Faramir), abbia essa stessa molte somiglianze col celtico e/o con l’anglosassone. Ciò è voluto, in quanto tale popolo presenta molte affinità etniche e organizzative con i popoli che vivevano nell’Inghilterra centrale durante l’Alto medioevo. Il nome della loro stessa terra, “Riddermark”, prende dalle parole “Maerc”, che indicava la già citata regione inglese e “rider”, traducibile come “cavaliere”, mestiere assai diffuso in quel popolo di coltivatori, pastori e guerrieri, da non confondersi con la distorsione “raider” dovuta alle incursioni vichinghe in Britannia a cavallo del nono e decimo secolo dopo Cristo.

 

Infine, il primo libro termina con un’avvincente collezione di passaggi in elfico estratti dal Legendarium (corpus intero delle opere di Tolkien che riguardano la Terra di Mezzo), tra i quali i più noti sono il Lamento di Galadriel, la maestosa dama elfica moglie di Celeborn (o Teleporno, in Quenya dal Sindarin), alcune citazioni numenoriane di Aragorn (che ne denotano la natura reale pur presentandolo come un ramingo delle terre del Nord) e l’apertura della porta di Moria da parte dello stregone (e Valar) Gandalf che esclama “mellon” (“dite amico ed entrerete”), mentre è in viaggio con la Compagnia e sta cercando di passare sotto le montagne per evitare i sortilegi del simile Saruman, anch’egli corrotto e depositario della lingua di Sauron e degli Orchi, imparate di sotterfugio.

 

Il secondo tomo, a differenza del primo che risultava essere più introduttivo e volto a dare un’infarinatura al lettore, è una corposa analisi linguistica del proto-elfico, il Telerin e in particolare del Quenya e del Sindarin, dipanata attraverso lo studio della fonologia (evidenziando il salto di  tra vocali e le consonanti prima più arrotate e gutturali e in seguito più aperte e armoniche), l’evoluzione della morfologia nelle parti del discorso e di come si caratterizzano con l’agglutinamento, sottolineando il maggior uso di affissioni col passare del tempo (in particolare per le congiunzioni e i verbi), a scapito di desinenze e suffissi per la radice, oltre che molte note sulla grammatica e sulla sintassi (sempre più vicine al finlandese nelle ultime varianti).

 

Se non si è pratici in materia, questo libro risulta molto impegnativo e perlopiù materiale da studio rispetto alla mera lettura per curiosità e/o piacere, che riguarda di più le sezioni della post-fazione e dell’appendice. Il lavoro svolto dall’autore è comunque di rara fattura, sottolineando ancora una volta come egli stesso non sia un accademico, rendendo questo lavoro imprescindibile per il pubblico italiano che voglia avventurarsi nella lingua elfica di Tolkien e studiarla dalle fondamenta. In sintesi, stuzzicante e scorrevole il primo tomo, mastodontico e gravoso il secondo, che potrebbe diventare un futuro riferimento per altri studi italiani sulle lingue di Arda.