Le Entesse ritrovate.

 

 

di Daniela Giledhel

 

 

Nelle terre meridionali, Sauron aveva inviato una forte schiera di Orchi a formare un avamposto-colonia. Controllavano le popolazioni, tartassandole con continui prelievi di raccolti, bestiame, cibo; scorrazzavano liberamente, incutendo terrore. In una terra remota di Harad Profondo, essi avevano addirittura portato con sé le poche Entesse delle Terre Brune, sopravvissute ai cataclismi e sconvolgimenti della Guerra dei Valar contro Morgoth, il quale un tempo le aveva imprigionate: volevano sfruttare il loro talento per avvincere ancor di più a sé quelle popolazioni.

 

La loro grande abilità di coltivatrici era ben nota a Sauron, l’Oscuro Signore, erede di Morgoth: egli sapeva che riuscivano a far fruttare alberi spogli e terre aride con il loro lavoro fecondo. Nelle Terre del Sud, colpite da spopolamento e abbandono, le Entesse avevano con l’andar del tempo costruito giardini con fontane fluenti e cascate di fiori colorati, orti di verdure buone e gustose. Trovandosi in luoghi così lontani dalla loro foresta natia sapevano di non aver speranza nella fuga: sarebbero state presto riprese e bruciate. Si erano perciò rassegnate a vivere insieme, in una specie di semi-libertà, tra gli alberi fitti di un bosco, accanto ad un caldo lago. Insegnavano a chi volesse i segreti della coltivazione; tenevano in perfetto ordine un deposito di semi e, dopo molti anni, furono loro affidate la cura e la difesa delle riserve di grano e di altri prodotti. Le Entesse “sentivano” e comunicavano con le loro piante vive, cercando miglioramenti da mescolanze di semi e nutrimenti, o cambiando loro di terreno. Tra loro vi era chi si era specializzata in verdure commestibili, chi in fiori e piante ornamentali, chi in piante del deserto per trattenere la sabbia.

 

La relativa tranquillità di quella prigionia presso gli Haradrim Profondi le aveva rese ancor più malate di nostalgia per la Foresta dov’erano state regine con gli Ent. Ricordavano fra di loro nelle lunghe sere calde i grandi alberi muscosi, il fitto sottobosco, gli uccelli canori tra i rami e le passeggiate fronde al vento cantando le canzoni di ere remote, quando soltanto loro respiravano sulla Terra giovane. Ricordavano le lunghe membra frondose degli Ent intrecciate alle loro e le voci profonde, arboree, che le chiamavano con dolci nomi: “le tue chiome brillanti, smeraldi di luce; le tue movenze agili e silenziose sfiorano le ombre nel fitto bosco, camminare lontano alle fonti della montagna...”

 

Parlavano con dolore dei contrasti che le avevano sempre più allontanate da Fangorn natía, dove gli Ent volevano continuare la libera vita selvaggia, sorvegliando con molta discrezione la crescita degli alberi, senza limiti, senza regole. E gli alberi erano diventati pericolosi e intraprendenti, quasi vivi di collera e vogliosi di muoversi, forse anche contro i loro pastori, ma soprattutto contro le Entesse che parlavano di contenere fronde, di potare rami, di obbligarli in viali ordinati e decidere per loro la grandezza, il colore, il profumo dei frutti e delle bacche.

Sempre più avanti, ogni anno qualche passo, le Entesse avevano cercato terre nuove per crescervi i loro giardini ben pettinati e geometrici, condurvi i loro compromessi con la Natura; si erano estraniate da Fangorn, dai loro compagni, abbandonando i figli alle cure dei padri e portando con sé le figlie per educarle e trasmettere il loro talento.

Ricordavano la sera in cui, volgendo le fronte verso occidente, avevano pensato di tornare a casa per rivederli e riposarsi dalle fatiche ma troppo tempo e troppe miglia ormai le separavano da Fangorn: non avrebbero più saputo trovare la strada.

Si erano affondate nel lavoro, silenziose e torve, proseguendo sempre più verso est finché Morgoth le aveva catturate. Alcune di esse erano arse durante la guerra dei Valar contro di lui e nulla aveva potuto Yavanna, giunta troppo tardi.

 

Lunghi cicli di anni erano trascorsi e sulle loro fronde pesava un cielo nero e sconosciuto. Schiave dell’Oscuro Signore, costrette a coltivare campi per alimentare le schiere voraci dei suoi Orchi; le loro foglie da verde brillante, tenero o smorzato, s’erano fatte brune, senza vita, accartocciate. Le fronde non danzavano più e i loro corpi boscosi curvavano sempre più verso terra.

Trascinate in catene nella terra degli Haradrim Profondi, avevano tuttavia conquistato la benevolenza dei contadini per il loro aiuto e i loro consigli. Nella fragile tranquillità di cui godevano, i rimpianti e i rimorsi mordevano profondamente.

 

Venne un giorno, tuttavia, in cui non vi furono più uomini giovani nei campi a lavorare, solo donne, vecchi e bambini. Chiesero loro che cosa fosse successo e seppero così di una grande guerra che Sauron, di cui gli Haradrim erano sudditi, aveva scatenato contro i popoli “predoni dell’Ovest, là dove si nasconde il Sole verso sera”. Rammentarono che Fangorn si trovava in quelle terre, quanto lontano tuttavia non potevano immaginarlo. Tremarono per i loro compagni e per i figli, piangendo lacrime di linfa rossa dalle loro membra ferite dal lavoro.

 

Qualche tempo passò e un mattino, levandosi dai giacigli di paglia su cui dormivano, dal folto del bosco loro dimora, videro con stupore gli Orchi partire in gran fretta, armati e corazzati, verso Occidente. Guardinghe, indagarono chiedendo alla gente nei campi se ancora qualche Orco presidiasse il paese. Le donne piangendo parlarono di molte sconfitte e terribili perdite per il loro popolo. Non rimaneva più un solo Orco: tutti erano partiti all’improvviso per dar man forte al loro Signore.

Passarono interminabili giorni di silenzio.

 

I campi abbandonati sarebbero stati preda dei corvi se le Entesse non avessero continuato a difenderli con pazienza e coraggio. Nessuno più le cercava per chiedere consigli. Nessun bimbo correva più nel loro bosco.

Poi, un giorno, si udì un gran fragore sordo provenire da lontano e si cominciò a vedere uomini laceri, ricoperti di polvere per il lungo cammino, senz’armi, malati e feriti, giungere attraverso i campi, celandosi fra siepi e cespugli: temevano ci fossero ancora Orchi a vigilare. Quando seppero che il paese era libero, si rallegrarono abbracciando i propri cari. Dopo essersi riposati e rifocillati, presero a raccontare della feroce guerra e della sconfitta, descrissero i lontani paesi in cui avevano combattuto e, con luci di terrore negli occhi, i guerrieri alleati contro l’Oscuro Signore. Tutti i popoli liberi di quelle terre si erano opposti coraggiosamente all’invasione: non solo Elfi, Uomini e Nani, persino animali, fiumi e grandi creature parlanti, simili alle Entesse, con braccia come rami e fronde per capelli, che avevano condotto gli alberi in guerra.

 

E dissero che gli alberi si muovevano come fossero vivi e avevano ucciso schiere imponenti di Orchi in fuga.

I superstiti promisero a se stessi che mai più avrebbero mosso guerra ai popoli dell’Ovest.

Raccontarono anche del Re tornato sul trono di Gondor: si era rivelato generoso e magnanimo e non aveva voluto inseguirli o annientarli. A un loro capitano prigioniero condotto al suo cospetto, il Re aveva restituito la libertà con poche parole da riportare alla sua gente: “Tornate a casa, riposatevi, curate le ferite, rimettetevi alla vita di tutti i giorni. Sappiate che Re Elessar non vi perseguiterà: se lo inviterete verrà nelle vostre terre per conoscerle e proporre un’alleanza di pace. O, se non vorrete, non verrà. Sarete dimenticati purché da voi non giungano più azioni di guerra e rapina.”

 

Le Entesse seppero questi fatti dalle donne nei campi e il loro cuore verde sussultò alla descrizione delle alte creature frondose a loro simili, che avevano guidati gli alberi alla guerra. “Sono il nostro popolo”, piansero e le contadine si commossero con loro. Tornate alle loro case, lo raccontarono ai mariti, ai padri, ricordando che senza l’opera delle Entesse tutti sarebbero morti di inedia e di sete.

Passò un tempo assai lungo per gli Uomini, breve per altre creature. I superstiti si rimisero lentamente alle abitudini di un tempo, a lavorare nei campi, a cacciare, a pescare: riorganizzarono il loro paese, dandosi un governo formato da anziani e saggi, ma temendo future aggressioni e conoscendo la propria debolezza decisero di invitare il Re e di ascoltare la sua proposta.

 

Re Elessar venne con un folto e scelto esercito ben armato, poiché la prudenza lo consigliò di presentarsi forte e pacifico, dopo aver fatto sorvegliare il paese per conoscere le vere intenzioni degli Haradrim Profondi. Capitani e governatori in delegazione lo accolsero, apprezzarono la grande maestà del suo portamento, la sincerità delle sue parole. Non si adombrarono per la sua guardia armata, lo ritennero saggio e lungimirante. Si svolsero i parlamentari per fondare la nuova alleanza. Re Elessar raccontò dell’amicizia soccorrevole che legava Gondor a Rohan da molti secoli e augurò che così fosse anche per i popoli del Sud.

Quando dopo un mese di soggiorno già si apprestava al ritorno, felice per il buon esito della visita, al Re osò avvicinarsi un capo-saggio, durante il banchetto di commiato apprestatogli dai notabili: costui chiese l’onore di essere ascoltato e, avutolo, raccontò la storia delle Entesse, del loro grande merito per l’aiuto dato al suo popolo.

 

Il Re aveva il potere di comunicare agli Ent che alcune delle loro spose, figlie e sorelle, erano vive, benché esauste, e desiderose di tornare a casa?

Re Elessar si commosse e volle immediatamente vedere le Entesse. Venne al suo cospetto la giovane Fiordibetulla, che conservava ancora lucente verde nelle foglie tremanti e la luce di Fangorn negli occhi profondi; parlò per le sue compagne, ricordando la Foresta natía da cui si era allontanata bambina, seguendo la madre.

“Le nostre intenzioni erano buone, ma abbiamo perso la strada. Ora vorremmo ritornare.” disse. Il Re raccontò il suo incontro con gli Ent a Isengard e promise di riunirle ai loro compagni.

Alla partenza del corteo reale erano presenti le Entesse, venute a salutare Fiordibetulla, loro ambasciatrice.

 

Il viaggio fu lungo e arrivati a Minas Tirith proseguirono per Fangorn. Accompagnarono la giovane Entessa, Legolas e Gimli, con alcuni compagni. Gimli dovette abbandonare l’ascia ai bordi della Foresta, prima di entrarvi colmo di rispetto e di cautela. L’incontro fra gli Ent e Fiordibetulla fu memorabile. Gimli, molti anni dopo, ne parlava ancora con gli occhi lucidi.

Due Ent e Fiordibetulla, accompagnati da Elboron, principe erede d’Ithilien, e da parecchi cavalieri, tornarono nella terra di Harad Profondo per riportare a casa tutte le Entesse: recavano doni e ambasciate di pace da parte del Re.

 

Le Entesse si accomiatarono dagli Haradrim e, volgendo lo sguardo a Occidente, si misero in cammino. Dopo mesi di lunga via, finalmente all’orizzonte sfumante nella bruma dell’autunno, scorsero le cime verdi di Fangorn e gli Ent ai margini, schierati in attesa.

Stavano immoti, ammirando le loro spose, increduli di averle finalmente ritrovate. Non notavano le ferite profonde sui loro corpi, i capelli di fronde bruciacchiate e grigiastre, gli sguardi stanchi. In breve tempo tornò loro in mente l’immagine giovane delle Entesse, vibranti di verde energia, belle al primo sole della Terra, e si ripresero all’improvviso dallo stupore. Si strinsero le mani, foglie come ghirlande, si guardarono profondamente dicendosi in silenzio il dolore per il tempo sprecato e la gioia di ritrovarsi. Salutarono con lente parole di lode le spose, abbracciarono delicatamente le figlie cresciute quasi a loro pari e porsero i doni da lungo tempo preparati: trionfi di fiori e frutti, pigne e ghiande argentate, diademi di piume per la fronte, giovani pianticelle per costruire nuovi vivai.

 

Le Entesse accolsero sorridendo la loro benevolenza e dissero: “Bene, siano tornate e non ce ne andremo più.”

Penetrate nel folto della Foresta, cercarono le loro vecchie dimore, si rimisero semplicemente al lavoro, riportando vita e speranza di continuità.