Wu Ming 4, Il fabbro di Oxford.

 

Scritti e interventi su Tolkien, Eterea Edizioni, Roma, 2019, 196 pp. 

 

Juxhin Deliu

 

 

La Fondazione Wu Ming è un collettivo culturale nato dal distaccamento bolognese del ben più noto Luther Blissett Project, esperimento curioso nato nel 1994 prendendo in prestito il nome di un centravanti del Milan e con l’intento di riunire scrittori e altri artisti attivi nella controcultura e atti a smuovere le acque sempre più placide, ma torbide, dei moderni mezzi di comunicazioni di massa.

L’autore Wu Ming (dal cinese “Senza Volto”, per evidenziare l’anonimato del gruppo) 4 è non altri che Federico Guglielmi, romanziere e saggista che ha già affrontato tematiche tolkieniane con “Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J. R. R. Tolkien”, edito nel 2013 da Odoya, e di cui è un propositore oltre che entusiasta. Egli ha raccolto in quest’altra interessante pubblicazione altri saggi critici e relazioni in merito ad articoli, dibattiti, recenti traduzioni e conferenze sull’universo tolkieniano, rilasciati durante il lustro 2015/’20. Costoro si focalizzano su aspetti linguistici, filologici, mitopoietici ed epici che distinguono l’opera magna del Professore, guidando anche i lettori più profani verso la comprensione dell’universo “high fantasy” di Arda, derivato dalla sfera europea settentrionale e medievale (materiale di studio di Tolkien) ma al contempo con tematiche universali e decisamente moderne.

Quest’ultima precisazione è evidenziata nell’introduzione in cui si controbatte la stereotipizzazione dell’autore di LOTR come “reazionario” per via della sua sfera religioso-culturale di interesse e appartenenza, lascito di una mentalità post-sessantottina e post-marxista che ai tempi bollava la scrittura che non fosse “realista” (soprattutto quella americana di moda) come “evasione” legata perlopiù all’ambito della “cappa e spada” associata alla mitologia di destra neofascista, la quale a sua volta ha cercato di appropriarsi di LOTR incensandosi con la questione identitaria e perpetrando l’immaginario eroico pangermanico basato su corna da vichingo e bevute di sidro.

È risaputo come Tolkien invece preferisse definire la sua ispirazione come settentrionale piuttosto che nordica, e che avesse partecipato tra le fila britanniche, assieme ai francesi, alla funesta battaglia della Somme (la quale contò più di un milione di vittime) contro le truppe del Secondo Reich, esperienza orrenda che lo avrebbe sicuramente marchiato ma che, parafrasando il Capitano e neurologo William Rivers (interpretato da Jonathan Pryce in “Regeneration”), era necessaria per fermare l’esasperazione dell’allora militarismo germanico. Inoltre, c’è da ricordare come le il Professore fosse cattolico (comunità religiosa che nella Prussia di Von Bismarck ha subito la pressione del kulturkampf), oltre alle sue istanze contro l’eroismo impavido di alcuni eroi nordici, come si vedrà poi, e alle sue posizioni decisamente più moderate su temi come la diversità e il ruolo femminile, rispetto ai suoi tempi.

La sua ispirazione più chiara, sulla quale si baserà una bella fetta de “Lo Hobbit”, è sicuramente il poema epico di Beowulf (assieme a “L’anello del Nibelungo”), scritto in anglosassone (inglese antico) e riformulato dall’autore per via di citazioni più o meno evidenti, riscrivendo interi passaggi e/o reinterpretandoli secondo la sua sensibilità e in un inglese molto più vicino a quello attuale. Questo si può vedere in particolare nella figura del drago Smaug, avido guardiano del tesoro dei Nani che in seguito alla sua morte per mano di un “dragonslayer” in maniera affine a quella vista nelle gesta di Beowulf, è sostituito da un Thorin sempre più cupo e paranoico, ricollegandosi alla figura del nano diventato poi drago (per avidità) Fafnir (“colui che risposa [sul tesoro]”), che sarà poi ucciso per mano di Sigfrido. È inoltre evidenziato come Tolkien fosse, durante l’infanzia, entusiasta delle scampagnate tra i prati verdi e le foreste inglesi e che avesse letto in gioventù romanzi di formazione che riportavano avventure simili. Tutto ciò, assieme al contemporaneo successo di “Peter Pan” e ai fenomeni post-bellici che vedevano persone battere le province alla ricerca di fate e folletti, per scordarsi gli orrori della guerra, avrebbe avuto un’enorme influenza sulla stesura e caratterizzazione de “Lo Hobbit”, descritto appunto come romanzo di formazione “inusuale” e con protagonista un civile e giovane simil-uomo comune della provincia britannica che esce dal suo “cottage” sicuro e accetta la sfida di un vecchio e mitologico amico (Gandalf è palesemente il Mago Merlino) che nella sua infinita saggezza sa invece che un essere così apparentemente insignificante possa risultare importante nella battaglia contro l’altero (e per metà miope) Oscuro Signore.

Si continua con un’analisi della figura di Aragorn, l’esploratore incappucciato discendente dai numenoreani (e da Isildur stesso) e vacante re di Gondor, il quale per tutta la sua vita ha mostrato una certa riluttanza verso il suo destino, preferendo una vita raminga e dismessa nei territori del Nord alla caccia di orchi e altri sudditi di Sauron, oltre che alla ricerca dell’Anell, da distruggere. Si evidenzia come non sia un eroe giovane, tantomeno prestante e dall’aspetto ideale, oltre che non senza macchia e non esente da astuzie e da metodi bruschi, preferendo spesso affrontare la situazione con pazienza e pragmatismo invece di un eroismo senza paure (e quindi senza un coraggio sensato). Aragon difatti preferisce non indugiare sulla propria volontà di potenza per portare verso la tragedia i suoi compagni e sudditi, citando a tal proposito in questa raccolta il poema epico tolkieniano che riscrive la saga del principe anglosassone Beothmoth. Costui, invece di sfruttare il vantaggio territoriale a suo favore per respingere un “raid” di vichinghi a Maldon, lascia a loro tempo di concentrarsi e andare “berserk” (fuori di sé per il furore) per una lotta “mano-a-mano” che avrà esiti catastrofici per il suo regno. Tutto ciò mette di nuovo in forte dubbio lo stereotipo di Tolkien come “reazionario”, dato che, pur avendo avuto un passato da militare, egli risulta particolarmente critico verso la celebrazione del guerriero che combatte per la “purezza” del richiamo della battaglia e soprattutto della morte (come si può per esempio evidenziare in alcune opere di Mishima), piuttosto invece di una lotta che abbia un significato, invece che gettare solo un’ombra di distruzione e disumanizzazione. A tal canto è citata la figura di Faramir, fratello minore di Boromir, meno intraprendente e impavido del fratello maggiore ma più riflessivo, intellettuale e cauto, qualità che invece lo porteranno a sopravvivere e ad assistere alla caduta di Minas Morgul, nemico che egli stesso aveva affrontato con successo usando una guerriglia alla Robin Hood, che si ricollega sempre ad Aragon come “forestale”.

Si passa poi ad analisi sui personaggi femminili positivi (Luthien, Galadriel, Eowyn su tutte) e negativi, caratterizzati come emancipati ma soprattutto validi e coraggiosi come le controparti maschili, attraverso le gesta che le caratterizzano, piuttosto che essere ridotte a mere valchirie che accompagnano i validi guerrieri caduti sul campo di battaglia verso il Walhalla o come “shieldmaiden” che portano le armi ai loro compagni in lotta. A seguire, la parte più stimolante e politicamente più complessa dell’opera magna di Tolkien, che riguarda la riscossa della Contea al ritorno di Samwise (diventato più saggio e meno sempliciotto rispetto al padre grazie all’avventura vissuta) e compagni; un decaduto Saruman, assieme ai suoi infimi servitori Sharku e Grima, ha trasformato l’ambiente accogliente, autogestito e agricolo della Contea in una sorta di distaccamento di Isengard che ricorda la drastica ma anche imbruttente trasformazione delle province inglesi e dei suoi abitanti, avvenuta durante la rivoluzione industriale. L’ordine, in questa nuova società corporativista è mantenuto da Hobbit appuntati da Saruman stesso e che oltre alla repressione, fanno affari con lui. Col conseguente ritorno degli “eroi”, decisamente più ispirati dai diversi climi politici intravisti a Gondor e nella civiltà elfica (monarchie parlamentari che si basano su un consiglio tra pari anche di razze diverse e un codice scritto), sebbene l’auspicio di una rivoluzione totale ricordasse il bolscevismo a Tolkien (l’anticomunismo non è per forza reazionarismo), questo però converte i loro sforzi in una rivolta organizzata e sostenuta dalla fedeltà per le loro consuetudini, con la quale si disfano infine di Saruman e sgherri, senza però distruggere per forza le novità tecnologiche e le industrie portate da egli, con lo stesso Sam che istituisce una forma primitiva di liberalismo e stato sociale (nei primi del ‘900 nel Regno Unito i “liberal” erano appunto quelli che si opponevano sia  alle parrucche della reazione che alle coppole della sobillata rivoluzione rossa, cercando un equilibro moderatamente progressista tra le parti). Tutto ciò ancora evidenzia l’intenzione di smentire la figura del Professore come uno scherano della reazione cristiano-fascista.

La raccolta culmina di nuovo criticando una lettura anacronistica che ripete, sebbene sia una voce isolata oramai nella stessa Italia decisamente più benevola verso il Professore, gli stessi luoghi comuni su Tolkien, terminando la parte centrale della raccolta con una fine analisi filosofica a sfondo tomistico (che concerne quindi il pensiero di San Tommaso d’Aquino), riguardo un saggio di C.A. Testi. Il “Fabbro di Oxford”, che quindi sarebbe il Professore, ha sì temprato e collaudato le sue fonti tramite i suoi interessi epici e filologici per caratterizzare il suo universo “high fantasy”, ma dando un afflato cattolico agli aspetti spirituali di Arda; un esempio riguarda, dopo quelli summentovati, lo stesso Sauron, essere effettivamente malvagio ma non esente da scelte e da un lato che ricorda più la virtù rispetto al peccato, e che nonostante la sua sconfitta definitiva, non sia definitivamente prostrato nella sofferenza eterna. Saruman, partito come essere celeste, passa al lato oscuro non per “magia” ma perché pian piano corrotto dalla sua aspirazione sempre più cinica e senza etica, d’altro canto, riassumibile nella massima inglese “if you can’t beat them, join them” (“se non puoi batterli, unisciti a loro”).

Tutto quello che è stato analizzato sinora è espresso con un linguaggio diretto e scorrevole, che non deve preoccupare chi sospetta possa trovarsi a che fare con qualcosa di volutamente tecnico e/o arcaico. Ciò si nota anche nell’appendice, lettura comunque consigliata che raccoglie invece perlopiù articoli sulle nuove traduzioni italiane di LOTR per mano di Ottavio Fatica, oltre a studi linguistici sugli arcaismi presente nell’opera e soprattutto una sorprendente analisi del Consiglio di Elrond paragonato a una scena corale del teatro classico, che offre una spiegazione della storia dell’Anello, sul come disfarsene e l’arrivo improvvido ma prezioso di Sam che ispira l’idea della Compagnia.