Perché leggere e rileggere Il Silmarillion
di Vincenzo Gatti
Tra le opere principali di Tolkien, Il Silmarillion, pubblicato postumo, è di certo la più ostica. Paragonabile alla Bibbia, ispirato al finlandese Kalevala, ricchissimo di nomi e riferimenti culturali (tra l’altro spesso a una cultura immaginaria o scaturente da una “subcreazione”) il testo, tra l’altro difficilmente classificabile (siamo sicuri che sia un romanzo? Altrimenti cosa sarebbe?), propone difficoltà evidenti.
Eppure Il Silmarillion è una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi, per tali motivi.
1 È totalmente, irresistibilmente altomimetico. Se si applica la medievale teoria dei tre stili, appartiene senza alcun dubbio allo stile alto. Tratta di personaggi elevati: addirittura non solo uomini, ma elfi. Tra gli elfi privilegia i più nobili: Vanyar, Noldor, Teleri. Gli elfi interagiscono, in maniera più o meno pacifica, con figure angeliche, Valar e Mayar. Anche nell’ambito degli stessi elfi, sono nettamente privilegiati i principi: Thingol, Finwë, Fëanor, Fingolfin, Finarfin e i vari figli, tra i quali i fratelli Finrod e Galadriel. Spessissimo gli uomini appartengono a schiatte antiche e nobili, elfiche per molti versi: pensiamo ad Hador Chiomadoro, a Húrin e a Turin suo figlio, a Beren, l’eroe che compie l’impresa di sconfiggere, purtroppo momentaneamente, Melkor.
I personaggi coinvolti sono raramente colti in momenti quotidiani o ridicoli: stanno costruendo o risanando un mondo, come in ogni tragedia che si rispetti vivono il momento culminante di un’esistenza travagliata, anche se lunga: Fëanor è ucciso dai Balrog, demoni al servizio di Melkor, Fingolfin (suo fratellastro) è smembrato da Melkor in persona, Finrod è ucciso da Sauron (primo gregario di Melkor). Finarfin sceglie la strada del pentimento e dell’obbedienza e non lascia il Reame Incantato: anche la sua decisione richiede coraggio (anzi forse è la più coraggiosa: Leopardi ben sa cosa significhi buttare via le illusioni).
Tutti i personaggi parlano in maniera aulica ed elevata: sono depositari di una sapienza millenaria. Il narratore non lascia spazio ad equivoci: non si legge Il Silmarillion per divertirsi.
In definitiva, il capolavoro è insieme Bibbia e Iliade. Un Dio buono e giusto crea l’Universo e due stirpi di figli. I Primogeniti (cioè gli elfi) si ribellano a Lui e assediano non già e non soltanto una città di elfi come loro, una sorta di nordica Troia, ma la roccaforte del maligno, Angband fortezza di Melkor. Il male in genere sta da una sola parte.
2 È immaginato (e forse risulta in effetti) come un compendio, e questo è l’aspetto più innovativo e provocatorio dell’opera, che certo la rende ancor più difficilmente classificabile. Certo, non è obbligatorio che i romanzi siano fondati sul dialogo, lunghe sequenze de L’Ulisse di Joyce ne sono prive, ma ne Il Silmarillion il riferimento ad una storia precedente, ad un ricco patrimonio di tradizioni, narrazioni e leggende, è continuo. Se l’opera è dunque lo sfondo per Il Signore degli Anelli, è pur vero che esso ha un altro sfondo, più vasto ancora: nel magnifico capitolo su Beren e Luthien leggiamo: “Nel Lai di Beren e Luthien si racconta che…” e allo stesso modo il narratore fa capire che la caduta della splendida città elfica di Gondolin non è narrata per esteso, ma che sta attingendo ad altre fonti. Il Silmarillion è denso perché rapido, è come un prontuario, uno strumento di consultazione, per chi voglia addentrarsi nel mare delle leggende raccolte nella History of the Middle-Earth. Mancano dialoghi divertenti, mancano le battute o le canzoni de Il Signore degli Anelli, eppure lo stile sublime e tragico non risulta pesante. È adeguato perfettamente al contenuto. Mai compendio fu scritto con più grandiosità: è un paragone ardito, ma vengono in mente gli scritti di poetica del Tasso, in una con la settecentesca teorizzazione del sublime, che non deve essere né bello né brutto, ma provocare profonda emozione, che quasi spinga all’emulazione. Ed ecco che anche noi possiamo pensare, nel nostro quotidiano, alle prese con problemi che la vita ogni giorno ci infligge, o pensando a conflitti e morbi, frutto dell’inarrestabile malvagità di Melkor che cospira nel vuoto atemporale: “Tutto diventerà bene per il fatto di essere stato”.
3 Non presenta riferimenti al sesso. Può sembrare banale, può sembrare scontato, ma Tolkien, non a caso l’uomo che attese di completare gli studi per coronare il suo sogno d’amore con Edith Bratt, l’uomo che obbedì maggiormente al suo cattolico tutore che alle ragioni del cuore, non ha bisogno di mezzucci per attirare i lettori. Sembra che scriva per bambini, ma in realtà compone un’opera terribilmente adulta, nella quale, come nell’Epopea di Gilgamesh o nel Kalevala, Turin uccide il migliore amico e commette incesto. Tolkien non è però compiaciuto di questo: il suo narratore è per certi versi pudico. Solo Melkor può concepire “una sconcia brama” sulla bellissima Lúthien; per l’autore l’amore è trasalimento, emozione che non si può descrivere, men che meno privare di nobiltà. Ed ecco allora Thingol cadere in deliquio quando ammira Melian, ed ecco Beren, suo futuro genero, passare dimentico di tutto tempi felici con Lúthien. Tolkien non ha bisogno di insistere sulla nota amorosa, a differenza di un autore come lui cattolico e rigoroso quale è il sullodato Tasso, che pure si sente in dovere di ricorrere ai soavi licori della passione (Armida e Rinaldo, soprattutto) e degli allettamenti poetici.
Il fatto che Tolkien non indugi minimamente su passione, attrattive femminili, cosmesi, allettamenti, lusinghe (sarebbe impensabile un Paride che trascuri la battaglia per rimanere al fianco della splendida Elena) non significa che egli sottovaluti le donne. Il catalogo di grandi donne de Il Silmarillion è infinito, paragonabile forse alla sola Bibbia. Possiamo partire dalla Vala Yavanna, per non parlare di Elbereth, una sorta di angelo delle stelle sempre invocato, per giungere a Melian, Lúthien (sua figlia), Finduilas, Elwing, ma anche la umana Morwen. Lúthien, che a rigore non ha visto la luce dei sacri alberi di Aman, quindi è quasi una Moriquendi (ma figlia di una creatura angelica e di Thingol che Aman l’ha visitato) è tra gli eroi più potenti del libro: sconfigge e umilia Sauron (un’opera vastissima come Il Signore degli Anelli testimonia tutta la fatica nello sconfiggere il mostruoso gregario del male, tra l’altro non affrontandolo frontalmente), fa addormentare con un manto intessuto di suoi capelli e di magia Melkor. Il suo contributo allo sviluppo della vicenda è assolutamente determinante. È vero, ne Il Signore degli Anelli c’è Galadriel (de Il Silmarillion), c’è Arwen, che da Lúthien discende, ma nella celebre Compagnia dell’anello non si conta una sola donna (è anche vero che Eowyn uccide il Re stregone…).
4 Presenta riferimenti estremamente discreti alla religione. Questa qualità è in apparenza assurda: l’opera si apre con la Creazione, con una genesi… Eppure raramente assistiamo a riti o a preghiere, raramente i Valar interferiscono nelle vicende degli elfi. La situazione cambia nel racconto della caduta dell’”umana” Numenor: Sauron impone riti blasfemi e orribili, fa costruire un tempio, quindi Iluvatar addirittura modifica la conformazione delle terre emerse (sembra di capire che renda la Terra curva o che sposti in cielo Tol Eressea e Aman), La religione è più di competenza degli uomini. Elfi, Mayar, Valar sono fondamentalmente vicini: tutti intendono salvaguardare quello che già è, ad esempio, e nel tentativo commettono errori. Gli elfi però hanno una colpa di tracotanza che connota solo loro: rendono sì più bella e più sicura la Terra di Mezzo, ma a prezzo di una crudele ed immotivata ribellione. In un certo senso, giocano a fare Dio, per quanto spinti, a volte, da nobili motivazioni. Eppure la Provvidenza è all’opera nel capolavoro di Tolkien: ciò che è sarà bene per il fatto di essere stato. Ma, commenta il tenebroso Mandos, custode dell’Aldilà: “Male resterà”. Gli elfi ingaggiano con compiacimento una guerra, Fëanor con oratoria torrenziale ed impetuosa li sprona ad andare più lontano di Tulkas (il Vala della forza), li incita, in un certo senso come Beorthnoth, a combattere alla pari con Melkor anziché confidare nei Valar. Sarebbe stato così facile infrangere i Silmarillion, ridare la vita agli alberi, frustrare di nuovo i crudeli tentativi di Melkor… Invece i superbi Noldor si autoilludono come se non fossero già vissuti per secoli: la guerra sarà breve, essi vinceranno presto perché sono potentissimi, avranno nuove terre e nuovi domini, quasi come se nella vita contasse dominare e non, poniamo, amare. Del resto, né la vita né la letteratura (o la subcreazione) sono fatte solo di quotidiano, di intimi appartati affetti. Esistono anche potenti che conducono giochi di morte: con quale profitto lo vediamo nella conclusione del Quenta Silmarillion, con l’intero Beleriand sprofondato sott’acqua…
5 La maggior parte dei suoi personaggi è di animo nobile. È vero, ne Il Silmarillion non mancano tradimenti, atti di superbia, violenze di ogni tipo, donne elfiche trafitte crudelmente. Eppure i protagonisti sembrano quasi immuni alla seduzione del male: Fingolfin è il sovrano che muore per il suo popolo, che antepone il bene della stirpe al calcolo meschino, Finrod è il sovrano deposto che perde la corona e la vita per salvare l’amico Beren, Fingon quasi sconfigge un drago, cioè Glaurung allora giovane, e prima aveva salvato l’amico Maedhros, Lúthien e Beren sono quanto di più puro si possa immaginare.
Non mancano le eccezioni, come Túrin, che ama la sorella e uccide il migliore amico, oltre ad innumerevoli altri esseri, anche innocenti. Ma Túrin è l’eroe tragico per eccellenza, la vittima designata tanto della malasorte quanto dell’ironia tragica. La sua vicenda, più ancora di quella di Beren, incarna lo spirito de Il Silmarillion. Si tratta di due percorsi opposti ma complementari. Beren è un esempio di totale, consapevole rettitudine, Turin è la forza, l’audacia, l’eroismo, ma sembra che per un amaro destino debba far del male a tutti quelli che ama: Thingol, Morwern Beleg, Finduilas, sua sorella infine, e sé stesso. Secondo la teoria di Aristotele, egli, con la sua tragedia, provoca pietà e terrore, e ci induce ad essere più compassionevoli, più guardinghi, a fare i conti con il nostro passato. Gli uomini non devono più portare la lampada alle spalle, come Virgilio, per far luce a chi seguirà: devono guardare voltarsi indietro, sempre consapevoli del luogo dove provengono. Vivere l’attimo è un rischio, dimenticarsi da dove proveniamo significa rovina per noi e per i nostri cari, tanto nel quotidiano quanto nella grande Storia. Vittima del destino dunque Túrin? Vittima di un’amartia che lo porta a uccidere l’amico, a far morire la fanciulla elfica che lo ama, a contaminare sua sorella? No. Túrin, che è padrone della sorte e dominato dalla sorte, è solo una pedina del gioco perverso di Melkor, che in realtà non vuole far del male (solo) a lui, ma all’ancor più potente padre Húrin (suo prigioniero), esulcerando il suo animo con false visioni sulla vita del figlio e della sua terra. Così Húrin, tanto valoroso, paragonabile a Beren e a Túrin, compie i misfatti del figlio, con grande sollazzo di Melkor. Túrin, infatti, illudendosi di dominare la sorte negandola e cambiando nome, cieco come e più di Edipo, distrugge i suoi affetti e l’antico Regno di Finrod, che riposa cadavere in una segreta di Sauron o forse cammina accanto a Finarfin. Húrin svela approssimativamente la posizione di Gondolin e pone i presupposti affinché cada anche il regno di Thingol, donandogli la Collana dei nani. Nessuno potrebbe negare la nobiltà d’animo di Húrin, eppure il suo contributo alla rovina degli elfi è immane. Essere nobili, mantenere fede agli impegni presi, coltivare le virtù guerriere, non deve proibire di essere lungimiranti.
Così
si conclude solo uno dei tanti viaggi possibili ne Il Silmarillion, in
quest’opera labirintica
(non foss’altro per i nomi di monti, regioni, eroi, nemici) tutta basata sui
fatti, sull’azione (di rado sulla descrizione, ancor più di rado
sull’introspezione). Ed ecco gli elfi diventano singolarmente parenti dei
pionieri o degli avventurieri di London e di Steinbeck e l’Autore ci conduce,
come in un Delitto e Castigo sostanziato di epica, a sondare gli
abissi dell’anima umana. Prima si è scritto di sublime, da considerare più come
categoria estetica che come scelta retorica. Ma esiste un trattato sul Sublime,
che qui si vuole parafrasare: Tolkien immagina gli elfi (non gli dei greci)
come immortali per significare (tanto nel Beleriand quanto nei poemi omerici)
l’eterna infelicità (individuale e collettiva, privata o pubblica, soggettiva o
riconducibile alla vita associata) dell’uomo.