La morte di Halbarad


di Locigenius


Il sole faceva vibrare le alte mura offese da squarci, annerite da fiamme ancor vive: Minas Tirith cantava mentre la disperazione ardeva nelle sue belle strade e la gente fuggita ai livelli superiori pensava di dover abbandonare la vita.


Tuttavia, intorno al portale abbattuto, nella bianca corte d’accesso, guardie dall’elmo alato, cavalieri di Rohan appiedati, capitani e stallieri, artigiani e scribi, popolo minuto armato alla bell’e meglio, avevano ritrovato vigore e stavano ribaltando le sorti della città, abbattendo come fuscelli Orchi e alleati dell’Oscuro Signore.


Pareva che l’invisibile Armata degli spergiuri, vincitori dei pirati di Umbar, avesse portato il contrattacco vincente. Aragorn conduceva con sé il loro ricordo e pallidi veli d’ombra: ovunque passasse il terrore si diffondeva nelle orde nemiche e le induceva a fuggire verso il fiume. Nessuno di loro, forse, si salvò, intercettati come furono dalle cariche battenti dei Rohirrim a cavallo e dai guerrieri di Gondor, riconfortati dall’arrivo di Aragorn. Si intensificò la carneficina in un sussulto di volontà degli Orchi ormai disperati; i Dúnedain, dopo cenni di rapida intesa con il loro Capitano, si sparpagliarono a dar manforte dove più incrudeliva il nemico. I figli di Elrond con spade fumanti di forza in mano facevano ala protettrice ad Aragorn, metodico e quasi calmo nell’abbattere Orchi.


Halbarad si trovava alle prese con un gigantesco Troll Braccio-di-pietra e Forodsûl, poco lontano, combatteva, saldo, contro due Sudroni sguscianti come serpi. Gimli alzò l’ascia e senza sforzo ne spezzò uno quasi a metà, salvando la vita a Forodsûl, ma tosto Legolas la salvò a lui, lanciando i suoi rapidi pugnali a trafiggere un terzo Sudrone che, sorto alle spalle di Gimli, stava per spiccargli la testa dal collo con un’affilata scimitarra.


Pare inverosimile nel pieno della battaglia scambiarsi sguardi d’intesa e ringraziamento ma così fece Aragorn vedendo l’accaduto, apprezzò e si mosse veloce in aiuto ad Halbarad che versava in grave pericolo; con lui andarono Elladan ed Elrohir giudicando che il Troll mastodonte sarebbe stato un osso duro da atterrare. Intanto, accorreva anche Forodsûl ormai libero di muoversi; Gimli e Legolas si facevano strada fra i corpi affastellati al suolo per assicurare Aragorn alle spalle.

Andúril sibilava, lucente, in mano all’erede di Elendil e calava implacabile su chi si frapponeva tra lui e l’amico, ma non bastò a fermare il Troll: con un’enorme daga questi squarciò il petto di Halbarad e gli avrebbe schiacciato la testa con un pugno se frecce, lance e Andúril non l’avessero finalmente abbattuto, come lo è un albero dal fulmine estivo.


Aragorn diede un grido d’angoscia e quasi scivolò inginocchiandosi accanto ad Halbarad ormai riverso a terra, con occhi d’agonia; sospesi dall’esaltazione della battaglia, Gimli e Legolas si arrestarono, muti, badando che nessuno attentasse all’incolumità di Aragorn.

Sopraggiunse Forodsûl: con una rapida occhiata al compagno si rese conto che egli non sarebbe sopravvissuto e chinò il capo, sopraffatto. Il ferito allungò con visibile sforzo un braccio verso di lui, che si inginocchiò fino a porgere orecchio al suo filo di voce. “Mio figlio e…”, non terminò il suo pensiero Halbarad il valoroso, mentre il sangue si precipitava fuori dal corpo, rapidamente. Forodsûl annuì con la testa ma egli non poteva più udirlo; lo strinse a sé con delicatezza: allora, gli apparve l’immagine di Halbarad in un azzurro giorno di aprile di due anni prima e ricordò.


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Nelle severe pianure occidentali, nutrici di erica e licheni, tra colli e forre, camminavano in un incessante movimento gli ultimi Dúnedain del Nord, custodi dell’eroico mondo antico e protettori di ignare creature


Quando Aragorn, ventenne, era giunto da Granburrone per conoscere la sua gente e assumerne la guida, aveva trovato una comunità sparsa, ben governata da Dûnbarad; era questi un valoroso e fidato amico di Arathorn, padre di Aragorn, di cui era consanguineo, risalendo la sua linea direttamente a Celebgil, figlio cadetto del re dell’Arthedain, Arveleg II. La famiglia di Dûnbarad era stanziata in un luogo celato, in un bosco sulle coste occidentali del lago Evendim, dove una piccola comunità sopravviveva allevando pecore e coltivando magri terreni.


Aragorn vi si era recato seguendo Dûnbarad, il quale raramente tornava a casa dalle sue esplorazioni; lì aveva conosciuto il suo unico figlio, Halbarad, ragazzetto tredicenne, ancora imberbe, che anelava a partire per diventare uomo in fretta. Conosciuto Aragorn e appreso chi era, l’aveva immediatamente annoverato secondo fra i suoi eroi, subito dopo suo padre che adorava: Elendil, Hador, Hurin, Halmir, Turgon, Gil Galad, Finrod e Glorfindel. La storia più remota non era un mistero per l’intelligente Halbarad, che si avviava a diventare un eccellente guerriero.


Nella solida casa di tronchi, chiamata ‘Ventre dell’Orsa’, dimora della famiglia di Dûnbarad, sua moglie Meluinîf cresceva come fosse un altro figlio il piccolo Forodsûl, orfano di una coppia del villaggio, trucidata dagli Orchi mentre era di ritorno dopo una visita ad alcuni parenti.

In quell’occasione Dûnbarad e i suoi, giunti troppo tardi, avevano inseguito e sterminato gli aggressori ma per gli sfortunati Voronleg e Lothwen non vi era stato più nulla da fare. Tornati a recuperare i corpi per riportarli al villaggio, avevano udito un vagito provenire da una sacca di cuoio strettamente legata sul dorso di una tranquilla cavalla da soma; apertala, con gran sorpresa vi avevano trovato, avvolto in un caldo vello di pecora, un neonato. Da più di un anno, infatti, gli sposi erano partiti per dimorare presso i parenti di Lothwen in un luogo a nord dei Tumulilande, chiamato Capanne Grigie, e in quel lasso di tempo doveva essere nato il piccolo.


Dûnbarad aveva preso il neonato sotto la sua protezione e l’aveva affidato alle cure di sua moglie, visto che Voronleg al villaggio non aveva più alcun parente. In seguito, indagando per ricostruire la dolorosa vicenda, egli aveva saputo che i due sposi erano di ritorno a casa poiché la madre di Lothwen era morta; dagli abitanti di Capanne Grigie aveva appreso che il piccolo era nato sette mesi dopo l’arrivo della coppia, la stessa notte in cui la sua ava aveva reso l’ultimo respiro; che gli era stato imposto il nome Forodsûl; che si era atteso che avesse qualche mese prima di rimettersi in viaggio; che, nonostante segnalazioni e incursioni di Orchi consigliassero di attendere, Voronleg aveva deciso di aggregarsi a un gruppo di pastori in transumanza, dai quali a un certo punto della via aveva dovuto separarsi.

Dûnbarad aveva dedotto che, assaliti dagli Orchi in un luogo di sosta che Voronleg reputava sicuro, Lothwen avesse nascosto il piccolo nella sacca nel disperato tentativo di salvarlo, e così era stato.

Dûnbarad, appurato che nessun parente materno di Forodsûl sopravviveva, si era consultato con la sua eccellente moglie, decidendo di adottare il bambino, a loro legato da lontanissimi legami di sangue: Voronleg discendeva infatti in linea retta da Gloreth, figlia terzogenita di re Arveleg II e da Deor, un principe di Valle.


Halbarad contava dieci anni quando ciò era accaduto e aveva accettato di buon grado quell’improbabile fratello; la sua attenzione andava solo alle esercitazioni d’arme, ai cavalli e alle narrazioni epiche.


Questo l’antefatto, il caldo terreno da cui sarebbe sbocciata l’amicizia forte tra Aragorn, Halbarad e Forodsûl.


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Dûnbarad aveva lealmente retto la fiaccola guidando e proteggendo la sparuta popolazione dei Dúnedain mentre il figlio di Arathorn cresceva, celato e sicuro, a Granburrone. Con animo confortato Aragorn era quindi ripartito per le sue fatiche di formazione, spesso accompagnato dai figli di Elrond, incrociando Gandalf e raramente gli altri Raminghi. Con loro, tuttavia, intratteneva una rete di invisibili messaggi affidati alle rocce, alle orme, ai rami spezzati, a segni tracciati in luoghi convenuti. I Dúnedain, pur amando Dûnbarad, sapevano che il loro Capitano era Aragorn dall’alto destino, il quale si posava solo qualche giorno nei nascondigli sicuri e sfiorava appena i villaggi; la sua missione lo costringeva a percorrere, spesso in solitudine, la terra per vigilare e soccorrere. Così si andava forgiando in un insieme di buone virtù e coraggio temprato di saggezza l’erede di Elendil.


Nelle fugaci soste, Aragorn riannodava e aggiornava conoscenze. Forodsûl e Halbarad erano diventati uomini valenti e affiancavano Dûnbarad, ormai raggiunto dall’autunno degli anni; pur godendo in certa misura della longevità dei Númenoreani, egli contava già settant’anni quando Aragorn l’aveva conosciuto.


A 49 anni Aragorn, reduce da molte avventure, costatato che Sauron stava risorgendo in potenza a Mordor, era rientrato a Granburrone, dove ancora dimorava sua madre Gilraen. Lungo la via si era posato, come un falco dopo un faticoso volo, tra le fronde di Lórien e aveva rinnovato e suggellato il nodo d’amore con Arwen, figlia di Elrond, la quale lì dimorava presso i suoi parenti materni. A Elrond, che con mente penetrante già conosceva quel patto e glielo aveva contestato con dolcezza, Aragorn aveva promesso di elevarsi al di sopra dei suoi padri, riscattando con onore e saggezza il fatale errore di Isildur, sviluppando in sé al massimo grado tutti i talenti che possedeva.

Era ripartito col cuore pesante, colmo tuttavia di coraggio e determinazione.


Sua madre l’aveva salutato annunciandogli la decisione di lasciare Granburrone per far ritorno fra la sua gente. Pochi mesi dopo, Gilraen, accompagnata per un tratto lungo la via dai figli di Elrond con un manipolo di Elfi armati, era stata scortata a destinazione da Dûnbarad e da altri Raminghi; ella rientrava nel villaggio in cui aveva vissuto con il suo sposo Arathorn un breve tempo felice, nella grande dimora di tronchi dov’era nato Aragorn e che la sua gente le aveva conservato con cura.

Gilraen aveva rivisto suo figlio solo tre volte prima di morire; durante l’ultimo breve incontro, aveva raccontato ad Aragorn la buona gioia che le donava la figlia bambina di Halbarad, la bella Gailarien dall’intelligenza viva, assetata di storie e di sapere.


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Undici anni prima di quel tempo, infatti, era arrivata da “Foresta dietro le Spalle”, una fattoria-fortezza, enclave dei Dúnedain, non lontana dall’antico ponte di Tharbad, la sposa di Halbarad, di nome Gîlwen, nobile giovane dama dall’aspetto severo e riservato, di statura notevole, capelli fulvi come le foglie d’acero in autunno.


Halbarad l’aveva conosciuta durante uno straordinario raduno dei Dúnedain presso il lago Evendim; Gîlwen in abito maschile accompagnava il padre Ornendil, Signore di “Foresta dietro le Spalle”. Halbarad si era meravigliato costatando che colui che a prima vista gli era parso un provetto cavaliere, snello e di volto mirabile, da tutti notato al suo passaggio, in realtà si era rivelato essere una bella dama dai modi affascinanti e compiti. Fra loro era nato un amore forte; i tempi non erano propizi a lunghi fidanzamenti e Gîlwen gli si era promessa assicurandolo che sarebbe divenuta sua moglie allo scadere dell’anno dalla loro conoscenza.


Il Signore di “Foresta dietro le Spalle”, vedovo da molti anni, non aveva condiviso questa loro gioia perché Gîlwen era la sua unica figlia ed erede, essendo il suo primogenito Algond rimasto ucciso in uno scontro con i Dunlandiani Neri. La volontà chiara di Gîlwen tuttavia aveva prevalso, alimentata dalla passione per Halbarad Spalle Forti, dall’alta protettiva figura: senza paura, senza ripensamenti, Gîlwen aveva tenuto testa al padre finché questi si era arreso.


Dal Nord erano giunte missive in cui Halbarad chiedeva al Signore di “Foresta dietro le Spalle” di acconsentire con favore alla felicità di sua figlia; i suoi ormai vecchi genitori lo pregavano anch’essi di guardare con speranza a quell’unione e di accompagnare Gîlwen al Nord con una forte scorta armata. Si stavano infatti moltiplicando gli attacchi improvvisi di Orchi che parevano scaturire dalla terra e sbucare dalle rocce; ne facevano le spese i viaggiatori isolati e le piccole fattorie fuori mano. Non erano tempi per festeggiare, posare il capo per qualche giorno e dimenticare la terribile realtà: tensione continua, la mano stringeva sempre l’elsa della spada anche nel sonno, orecchie sempre attente a ogni piccolo rumore sospetto.


Da “Foresta dietro le Spalle” era giunta ad Halbarad questa risposta: “Mia figlia non è più sotto tutela, può decidere e fare la sua scelta essendo entrata nell’età adulta. La disperazione di perderla mi ha sinora governato: andrà lontano e non la rivedrò perché molti sono i miei anni e grande la distanza fra “Foresta dietro le Spalle” e il Nord. Tuttavia, Halbarad, figlio di Dûnbarad, sei uomo di alto valore, capace di sacrifici inauditi per la tua gente, coraggioso con ponderazione. Gîlwen ha avuto sguardo profondo, ha visto la tua eccellenza, ha deciso che solo tu puoi essere il suo sposo. Concertiamo dunque il suo viaggio affinché si svolga nella massima sicurezza: una nutrita scorta, da me capeggiata, l’accompagnerà fino a Tharbad dove incontrerà la vostra compagnia per raggiungere il Nord: la saluterò con tristezza e non potrò assistere alle vostre nozze. Il viaggio compiuto l’anno scorso per il raduno straordinario mi ha prostrato e non reggo a cavallo più di qualche ora. Inoltre, “Foresta dietro le Spalle” ha bisogno di me. A tuo padre, il prode Dûnbarad, e a tua madre, mia lontana cugina, vadano le mie rassicurazioni e i miei saluti: Gîlwen è donna compiuta e forte, con dolore me ne separo, certo tuttavia che sarà accolta e amata come una figlia.”


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Halbarad e Gîlwen si erano sposati; Gailarien nacque l’anno seguente e quando compì dieci anni arrivò alla luce suo fratello Gailbarad. Nei loro nomi c’era chiarore di speranza per i Dúnedain.

Aragorn durante quell’ultima visita a sua madre aveva conosciuto la sposa di Halbarad e la loro piccola incantevole Gailarien. Dûnbarad, carico di molti anni, se n’era andato all’Ovest per sempre ma sua moglie reggeva impavida gli inverni, comunicando tutta la sua saggezza alla nipote, curiosa e saggia per la sua breve età. Forodsûl, su incarico del Bianco Consiglio, viaggiava lontano all’est sotto smentite spoglie, alla ricerca degli Istari perduti: Aragorn era destinato a rivederlo solo due anni prima che scoppiasse la Guerra dell’Anello.


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Fra Halbarad e Aragorn c’era intesa e unione di pensieri, come fossero la stessa mente e lo stesso cuore a governare entrambi. Fra loro correva una sorta di comunicazione silenziosa a distanza: quando pericolo e sconforto attanagliavano l’uno, l’altro infallibilmente sentiva il buio calargli dentro e si metteva in allarme, rinfrancandosi soltanto all’arrivo di una missiva con buone notizie.

La vita quotidiana dei Dúnedain era severa, caute e rare le gioie, perenne lo stato d’allerta. Le famiglie erano legate al ritmo delle greggi e delle continue esplorazioni degli uomini in armi; pochi lavoravano la terra nelle regioni estreme dove gli Orchi non si avventuravano, quasi ai confini con le terre dei Forodwaith, e ne ricavavano esigui raccolti di grano, orzo e avena; si allevavano pochi cavalli di tempra eccezionale, frutto di incroci fra indigeni robusti e esemplari superbi provenienti da Rohan.


I Raminghi tuttavia avevano assunto per necessità l’abito del viandante che passa inosservato, raramente montavano cavalli che attraggono l’attenzione e lasciano orme vistose, ma a lunghi passi ricoprivano d’una trama irregolare e quasi inavvertibile il territorio che avevano in custodia. Utilizzavano pony forti e anonimi per trasportare provviste in occasione di lunghe spedizioni, o quando si rifornivano di merci a Brea, ma preferivano affidarsi al ritmo sovrumano delle loro gambe in corsa, sempre guardinghi; erano capaci di sparire divenendo un elemento naturale in un anfratto del terreno o fra i cespugli.


Il Capitano Aragorn, la cui luminosa avventura umana fu narrata in seguito da mille poeti, musici e cantori, raffigurata in pitture, disegni, mosaici, sculture in legno, pietra e marmo, amava i suoi Raminghi come fratelli, conosceva i luoghi dove abitavano le loro famiglie durante le stagioni inclementi ed era sempre informato sulle rotte di transumanza che seguivano conducendo i loro animali e vigilando sugli inermi. Per lunghi anni formandosi e completandosi come richiesto dalla sua nascita regale, Aragorn era andato lontano dalla sua terra e non aveva avuto contatti con la sua gente; così sua madre Gilraen morì e altri la seppellirono in sua vece, così i suoi compagni si sposarono ed ebbero figli che lui incontrò già adulti.


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Quando tornò fra i suoi, due anni prima che scoppiasse l’offensiva totale di Sauron, i Dúnedain contavano forse un centinaio di guerrieri attrezzati e pronti a ogni frangente fra gli adulti, mentre una manciata di bambini e adolescenti si andavano formando sotto la guida di un vecchio Ramingo a riposo, Aglaramath, compagno di Arathorn, che spesso aveva guidato i compagni in sua vece: lo sparuto popolo dei Dúnedain lo ammirava e ascoltava i suoi consigli.

Aragorn rivide Gailarien, deliziosa e chiara fanciulla diciottenne, e conobbe il piccolo Gailbarad, che nell’aspetto contegnoso imitava la madre Gîlwen e nel desiderio di servire i suoi e annientare gli Orchi continuava la gloriosa tradizione di famiglia.


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Quel giorno d’aprile di due anni prima, nel cielo d’azzurro particolare, azzurro “convinto”, così l’avrebbe descritto Gailarien. Forodsûl ricordava vegliando il corpo di Halbarad, ricomposto in un’aula dove in tempi normali le guardie del cancello riponevano lance, archi e scudi; accanto a lui, su altri tavoli, riposavano, sereni nella morte, gli altri tre Dúnedain caduti.


Forodsûl guardava Halbarad, che era stato rivestito della sua divisa di ramingo, raccolto nel mantello grigio su cui spiccava la stella, gemma del Reame di Arnor: rilassati i lineamenti mirabili del volto, ravviati i capelli ancora bruni solcati da rivoli argentati e la barba leggera. Forodsûl ripensava agli innumerevoli pericoli, alle lotte silenziose, alle battaglie nei boschi e nelle vallette in cui si celava morte a ogni passo, che Halbarad aveva fronteggiati con ponderato coraggio e lunga vista. Non l’aveva trattenuto nell’eccessiva cautela la preoccupazione per la sposa e i figli, che stavano in ansia per lui, pur continuando con tenacia la propria vita, tuttavia la tenerezza con cui li amava l’aveva preservato da fughe in avanti, anche quando l’intuito gli diceva sicura l’impresa. Halbarad in questi casi esplorava di nuovo tracce, luoghi, acque, direzione del vento; riesaminava con metodo i rapporti degli esploratori, le orme che potevano trarre in inganno e, solo dopo questo supplemento accurato, buttava se stesso e i suoi a intercettare un gruppo di assassini, un Troll o una spia furtiva per eliminarli.


Halbarad uccideva solo per proteggere chi amava e se stesso, sempre a malincuore, con rara pietà, e non abbandonava allo scempio dei mangiacarogne gli Orchi uccisi, qualora ve ne fosse la possibilità: una fossa, un tumulo di pietre o un rogo davano dignità a quei corpi. I compagni spesso non capivano e neppure la sua sposa l’approvò quando seppe da altri di questa sua compassione. Aragorn, invece, condivideva con lui questa inclinazione, come tante altre.


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Forodsûl era immerso in quei pensieri quando entrò Aragorn il quale lo salutò senza parole, fermandosi a capo chino davanti ai quattro caduti. “Fratello mio”, mormorarono le sue labbra fissando Halbarad. Di nuovo Forodsûl precipitò all’indietro di due anni con la mente nell’aprile colmo di presagi di guerra.



Con Halbarad avevano atteso il ritorno di Aragorn, che missive da Brea avevano preannunciato; anche Gandalf aveva fatto sapere di essere in cammino verso quel boschetto di fitti noccioli nel fondo di una crepa trasversale, invisibile tra le pieghe dei Tumulilande. Era il luogo convenuto fra loro molti anni prima, in gioventù, per ritrovarsi: bastava infatti che essi inviassero un semplice segno fra di loro, completato da un’indicazione temporale per essere sicuri di non essere scoperti; avevano incluso Gandalf nel loro segreto per il grande rispetto che gli portavano, per la fatica di cui si affliggeva per gli Uomini. Un cunicolo dalla stretta apertura, nascosta da cortine di cespugli spinosi, conduceva al boschetto chiamato in codice “il non luogo” e attraverso di esso, due ore prima del tramonto videro giungere Aragorn con il capo sepolto nel profondo cappuccio del mantello verde stinto: appariva stanco e smagrito e la luce penetrante del suo sguardo s’era come attenuata in pesante preoccupazione; solo riabbracciando i compagni aveva ritrovato il sorriso.


Dopo un primo scambio di cattive notizie su incursioni di Orchi un po’ ovunque, essendo calato il sole dietro la linea di vecchi tumuli erbosi, i tre avevano azzardato un magro fuoco celato in una nicchia di pietra, appositamente costruita perché da lontano non si vedesse il bagliore delle fiamme; inoltre, la sera scendeva senza luna, ulteriore e favorevole circostanza che rendeva impercettibile il fumo sottile che si levava dal focolare. Parlavano a bassa voce, con le teste che quasi si toccavano mentre le orecchie finissime registravano ogni rumore insolito e innaturale. Forodsûl aveva raccontato brevemente le sue avventure vissute sotto mentite spoglie nelle remote terre oltre Harad profondo, nel Paese degli Uomini delle Sabbie, fin quasi alla notturna Foresta Soffocante.


“Tracce di Pallando, leggere come la corrente di un ruscello, sempre rinnovata mai uguale a se stessa: le acque mi dissero poco di lui, un indizio verso nord-est. Lo cercai fin dove me lo permise il mio camuffamento. Viaggiai con i cavalieri del deserto a dorso di dromedario, e quindi mi unii a una carovana di mercanti che si dirigeva verso il piccolo regno degli Anérim sul mare di Rhûn; indossavo l’ampia tunica stretta dalla cintura di corda intrecciata dei mercanti; la pelle s’era fatta scura al sole meridionale, ma procurai di imbrunirla ancor più con estratto di mallo di noce; portavo il turbante che mantiene fresco il capo e quasi sempre il mio volto era celato da un lembo del mantello. Mi arresi quando nessuno dimostrò di conoscere Pallando, o di averne sentito parlare, e decisi di tornare dopo tre anni di ricerche…”


Aragorn, che seguiva con molta attenzione il suo racconto, aveva commentato: “Se avessimo dalla nostra parte la forza di tutti gli Istari, forse non saremmo in questa morsa di debolezza: Saruman è rinchiuso nella sua torre, Radagast s’è votato a salvare gli animali, estraniandosi, Pallando e Alatar, tu mi dici, sono svaniti all’est. Solo Gandalf è fedele alla nostra causa.”


Halbarad taceva, conoscendo già le avventure infruttuose di Forodsûl, e guardava Aragorn attentamente per non perdere alcuna sua parola. “Che ne pensi, Capitano?”, aveva infine chiesto con una nota di preoccupazione negli occhi grigio-mare. “Il Nemico recluta ovunque i suoi alleati: Uomini, Troll, Orchi, mannari e goblin e bestie orribili dei tempi antichi; forse ci alleva traditori in seno. Ho visto segni inequivocabili di una grande chiamata alla guerra. Sire Elrond e i Signori di Lórien sondano incessantemente le terre con la mente fin dove l’Ombra lo permette loro. Gandalf da parte sua ci potrà raccontare molto: spero che ci raggiunga in fretta. Ciò che hai riferito, Forodsûl, è terribile: pare che l’intera umanità dall’est s’appresti a riversarsi oltre l’Anduin per riscattare vecchie sconfitte, ma sappiamo bene che se fossimo sopraffatti, uno solo godrà la vittoria asservendo anche i suoi alleati.”, così Aragorn aveva espresso i suoi pensieri, viso contratto e pugni chiusi.


Halbarad scuoteva il capo, in silenzio, fissando il tenue chiarore rossastro del fuoco. Forodsûl a un tratto aveva levato lo sguardo su Aragorn, dicendo: “E’ vero, pare che a Est tutti i popoli abbiamo sposato la causa dell’Oscuro Signore: non fanno testo l’esiguo popolo degli Anérim, circondati da Esterling crudeli, e gli Uomini delle Sabbie, protetti e isolati al tempo stesso dalla cintura di invalicabili deserti.” Aragorn, di rimando, aveva aggiunto: “Gli Anérim sono considerati sacri dalle genti loro confinanti perché parlano direttamente con il Cielo: tutti temono le loro capacità di magia e ammirano l’alto livello raggiunto dai loro artigiani. Quando, anni or sono, passai qualche tempo nella loro città, Bella-di-Pietra, ricordo che gli Anérim erano protetti da un esercito di mercenari cavalieri; si dice che costoro facessero parte delle schiere di Éorl e che se ne fossero staccati al tempo dell’insediamento nel Calenardhon per un insanabile contrasto interno. Hai avuto modo di vedere il quartiere ove abitano i clan dell’Aquila Nera? A me era parso una città nella città; sono orgogliosi e superbi nel loro isolamento, questi lontani cugini dei Rohirrim, ma è anche grazie a loro che gli Anérim possono mantenere una fragile neutralità nel mare.”


“Sì, li ho visti ma mi sono tenuto lontano da loro per non metterli in sospetto: spiccano fra i bruni Anérim come un campo di grano maturo al centro di una foresta di pini.”, aveva commentato Forodsûl, levandosi di scatto perché, come i suoi compagni, aveva sentito avvicinarsi un leggero fruscio fra i cespugli e il respiro vaporoso e stanco di un cavallo: era infatti apparso Gandalf, seguito da un bel roano con le zampe fasciate di panni di lana. Occhi vividi e membra stanche, Gandalf li aveva abbracciati con affetto, poi accoccolatosi accanto al fuoco si era ristorato mentre i tre Raminghi ne rispettavano il silenzio.


Metà della notte era trascorsa a scambiarsi scoperte e timori perché ciò che ognuno di loro sapeva e aveva visto per esperienza diretta induceva a tristi presagi.