Mauro Toninelli, Colui che raccontò la Grazia, Cittadella Editore, 2019, pp. 218





di Juxhin Deliu





Mauro Toninelli ha una laurea in lettere moderne (indirizzo filologia) e insegna religione cattolica negli istituti superiori del bresciano, in virtù della sua specializzazione. Tolkien è stato un devoto cattolico, filologo e anch’egli professore, seppur a un livello didattico assai più alto. Se le analogie già promettono bene, l’autore di questo saggio è anche un appassionato della magna opus tolkienana (riletta anche una volta all’anno stando a quanto dichiarato), dalla quale coglie ogni volta spunti non colti in precedenza e rafforza sempre più la fascinazione verso l’universo dell’Anello. Un’altra curiosa ma piacevole coincidenza è la partizione del testo in tre parti (rimando alla Trinità?), la prima rivolta chiamata “Il libro e il suo autore”, la seconda “La chiave di lettura” e la terza “Il tema di fondo”, composte da capitoli i cui titoli sono citazioni prese dal romanzo e piazzate ad hoc per introdurre il contenuto, a sua volta pieno di parallelismi tra i temi trattati e alcuni scorci de “Il Signore degli Anelli”.

La prima parte, più breve rispetto alle altre due, è un approfondimento biografico su Tolkien e su quello che in particolare lo ha portato a essere un credente, a intraprendere la carriera accademica e riguardo alla sua famiglia; nato in Sudafrica da una famiglia cristiana (i quali valori li mettevano in opposizione all’apartheid), è rientrato poco dopo in Inghilterra ma si è ritrovato orfano di padre durante l’infanzia. La madre ha comunque persistito nell’educazione religiosa (protestante) del figlio oltre ad assecondare il suo precoce interesse per le lingue e le fiabe, sino a quando, come gli Hobbit quando escono dalla Contea (e giungono nell’età della maturità), un giorno assieme a sua sorella, Tolkien ha imboccato un’altra strada arrivando a una chiesa cattolica, fatto che sarà seminale per la sua stessa esistenza.

Non meno importanti saranno però il percorso di studi svolto a Oxford, che lo avrebbe introdotto al sempre più liberale ambiente accademico inglese, in cui seppur tra amici, si ritroverà a essere sempre più una mosca bianca per le sue posizioni moderate, confessionali e monarchico-parlamentariste (le quali lo porteranno a supportare Francisco Franco durante la guerra civile spagnola, nonostante l’acceso antifascismo), oltre alla sua soffertissima partecipazione alla battaglia della Somme (durata dal 1º luglio al 18 novembre 1916, svoltasi nella regione francese della Piccardia e che ha visto un milione di vittime tra prussiani, britannici e francesi). Il suo sentirsi come un Hobbit in mezzo a una battaglia così sanguinosa e decisiva per fermare l’avanzata terrificante del militarismo prussiano, e l’essere comunque riuscito a sopravvivere nonostante fosse un pesce fuor d’acqua, lo ha poi portato a ripiegare sempre più nelle fiabe, ma non per evadere, quanto per poter reinterpretare la grama realtà attraverso la fantasia. Il capitolo si conclude infine sul rapporto con l’amata moglie (da qui si lanciano paragoni con Beren e Luthien, e Aragorn e Arwen) e con i figli, in particolare Christopher, membro della RAF e sin da piccolo testimone delle imprese di Bilbo e assistente indiretto della stesura dei romanzi paterni.

La seconda parte riprende i temi filologici cari sia al Professore che a Toninelli, in particolare sugli elementi fiabeschi, i simbolismi (contrapposti all’allegoria, verso la quale Tolkien ha sempre negato di aver ricorso) e al concetto di “eucatastrofe”, tutti visti sempre attraverso dei dialoghi e raffrontati alla religione. La creazione fiabesca è così paragonata a quella di un demiurgo onnipotente e onnisciente che con la sua Parola pone inizio all’universo e a tutti i suoi aspetti, da quelli più terreni e semplici (come gli Hobbit che vivono in buche dentro la terra) a quelli che portano a credere oltre a quello che si vede entro i propri limiti (Samwise che comincia a supporre che le storie su draghi ed elfi non siano solo tali, ma che ci sia dietro qualcosa da carpire pure nella trascendenza), e a ricercare la Verità, uscendo da una platonica caverna che è la casa confortevole di un Hobbit.

Come detto prima, in opposizione alla facile interpretazione allegorica del proprio romanzo, Tolkien ha sempre ribadito che non ci siano cose concrete da ravvisare nella sua opera, siccome non ha mai scritto per astrazione, ma bensì per simbolismo, usando immagini religiose (e cattoliche) tangibili da chiunque abbia avuto un minimo di interesse verso il catechismo. Una delle sue aggiunte più notevoli, e parola plasmata da lui stesso, si tratta invece della parola “eucatastrofe” (traducibile dal greco come “rovesciamento buono”), inteso non come “lieto fine” ma un capovolgimento insperato, ma possibile, delle disgrazie e dei drammi che stanno accadendo ai protagonisti in affanno e oramai provati pure oltre i loro limiti (come nel caso di Frodo al Monte Fato, in cui seppur cedendo alla tentazione dell’Anello, l’intervento dovuto alla cupidigia di Gollum porta il talismano alla sua distruzione e alla salvezza della Terra di Mezzo), come a simboleggiare la grazia divina che opera per volontà propria (la Provvidenza sarà poi approfondita a seguire).

La terza e ultima parte, se non la più lunga, è pregna di riflessioni epiche, cristologiche e teologiche, e come per il miracolo dell’acqua tramutata in vino, è quella che infonde più interesse in questa rilettura consigliata sia agli appassionati di Tolkien che gli studiosi di teologia, e riempie entrambi di rivelazioni che fanno scorgere una “Buona Novella” in tutto il Legendarium di Arda. Si parte con rimandi alla creazione di Eru (chiamato Iluvatar nella Terra di Mezzo) e le analogie con la Genesi, passando poi per i riti funebri simili a quelli cristiani, il dibattito tra Denethor e Gandalf sulla morte, in cui il vecchio stregone (in realtà angelo incarnato) si oppone alla codardia del reggente del trono di Gondor e alla sua “eutanasia” di fronte alla minaccia di Minas Morgul, in cui anche Faramir è coinvolto (tali sacrifici umani sono stati anche sdoganati dallo stesso Sauron in spoglie elfiche, prima che la sua natura reale fosse rivelata). Lo stesso fratello minore di Boromir (ma non meno intelligente) offre uno spunto di preghiera prima di un pranzo (ricordando e ringraziando la cara vecchia Numenor), chiedendo ai rustici Hobbit sul come mai essi non si accompagnino al ringraziamento e denotando la loro condizione di infantilismo spirituale, guarito grazie all’avventura dell’Anello.

Seguono infine le immancabili riflessioni sul male, focalizzate sulla figura dell’Oscuro Sire (Sauron). Nonostante le proprie nefandezze e che la fedeltà a Melkor, è sottolineato con uno squisito passaggio teologico di Tolkien, in cui afferma che non possa esserci il male totale, quanto piuttosto una corruzione passeggera, che costui non fosse in realtà stato creato tale ma che sarebbe diventato così per libero arbitrio e in parte per ignoranza del bene e tracotanza, legando il suo stesso potere a un talismano (dal quale saranno prodotte copie per i re degli uomini, elfi e nani), che finisce per corrompere chiunque lo indossi e che una volta allontanato da lui se non distrutto, porta il potere di Sauron al minimo, come per la sua influenza che sembra tentare ognuno, lasciando sempre però uno spiraglio di scelta, come per il rifiuto di Galadriel, il pentimento di Boromir e la tenacia di Frodo. Gli stessi orchetti, sebbene siano come elfi plagiati dal Male, dimostrano di avere una propria morale e di non essere solo e sempre degli immondi omuncoli affamati di carne.

Cosa è quindi, alla luce di tutto quello che è stato descritto sinora e in particolare nel terzo capitolo, ciò che porta Frodo a portare a termine la sua missione (seppur per mano della cupidigia punitrice di Gollum) e durante la rivolta della Contea, a perdonare un non più “bianco” e debolissimo Saruman (poi morto per mano del viscido Grima oramai non più disposto a tollerarlo)? Aver compreso che ci sia una Provvidenza che regola i destini degli esseri viventi in base alle loro azioni, e che eventualmente la loro gravità sia compresa e che il loro “finale da personaggi” possa essere una lezione per loro stessi ed eventualmente una possibilità per risorgere.